Diabolica volgarità. Gli anni sessanta di Claes Oldenburg

1 Ottobre 2012

Di opere di Claes Oldenburg, uno dei maggiori artisti americani viventi, rigurgitano i musei d’arte contemporanea. Si tratta, per la maggior parte, di sculture monumentali che contraddistinguono la fase matura dell’artista. L’Italia non fa eccezione, se pensiamo alla mostra organizzata al Castello di Rivoli nel 2006, Sculpture by the Way, con un catalogo senza testi critici, redatto praticamente da Oldenburg e dalla sua compagna Coosje van Bruggen. Questa fase è tuttora in corso, nonostante la scomparsa di van Bruggen nel 2009, lo stesso anno di Jeanne Claude, compagna di Christo, per citare un altro affiatato sodalizio sentimentale e artistico. Di opere di Oldenburg degli anni sessanta invece, i musei sono sprovvisti – troppo fragili per essere trasportate da una parte all’altra dell’Atlantico.

 

 

Benvenute sono quindi le eccezioni del caso, come Claes Oldenburg. The Sixties, la mostra organizzata da Achim Hochdorfer per il Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig di Vienna, approdata al Ludwig Museum di Colonia (dove l'ho visitara), prima di proseguire il suo iter al Guggenheim di Bilbao (apre il 30 ottobre) e infine negli Stati Uniti. Si tratta di un campionario impressionante, mai così esauriente, dell’opera dell’artista di origine svedese (la prima grande retrospettiva si tenne al Moderna Museet di Stoccolma nel 1966). La scelta di Colonia non è anodina: nel 2001 Oldenburg vi ha realizzato una delle sue sculture pubbliche più tipiche, un cono da gelato rovesciato sulla cima della Neumarkt Galerie. La forma piramidale riprende le guglie della cattedrale, mentre il nome “cone” entra in assonanza con “Cologne”. Il cono di Colonia: è così che Oldenburg ha messo sotto sopra la tradizione della scultura monumentale.

 

Claes Oldenburg. The Sixties è da sconsigliare a chi ama le esposizioni in cui le opere respirano senza tante interferenze. Perché un focus sugli anni sessanta di Oldenburg non può che presentarsi come un’accozzaglia di oggetti. Solo un simile bric-à-brac restituisce l’eccesso e l’eccedenza che segna la sua produzione artistica in quel periodo.

 

Chi troverà la mostra cacofonica, in un museo-modello per l’Europa, con la sua architettura leggibile e funzionale, sarà quindi già in cammino in direzione della babele oldenburghiana. In fondo la stessa matrice della sua arte, ovvero la riproduzione di un oggetto d’uso quotidiano, di un oggetto qualunque, di un oggetto industriale, è già di per sé un gesto cacofonico. Oldenburg ne realizza spesso tre versioni: una in tela, monocroma e fantasmatica; una in plastica pvc, dalla superficie liscia e scintillante, lucida e ludica; una più scultorea e classica in legno dipinto.

 

 

LIPSTICK TRACES

Yale University, Beinecke Plaza, 15 maggio 1969, manifestazione studentesca contro la guerra del Vietnam. Spunta un carro armato. Ma al posto del cannone si erge in verticale un rossetto gigante gonfiabile, con la punta rosso fuoco spuntata da chissà quali labbra. Macchina da guerra militarmente inservibile, non commemora alcun evento storico significativo. Tuttavia della scultura mantiene, oltre alle dimensioni, l’erezione, da cui il suo carattere osceno. È Lipstick, che possiamo storicamente situare tra i marchingegni dada che sfidano la razionalità tecnocratica della guerra, le sculture di Pino Pascali ma anche Track and Field, quel rumoroso carro armato ribaltato con un tapis roulant che corre sui cingoli che Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla hanno presentato alla biennale veneziana del 2011. Lipstick è uno spartiacque nella produzione di Oldenburg: negli anni settanta si rafforzerà la vocazione a ingrandire oggetti triviali per installarli all’aperto, a confronto con lo spazio pubblico, a partire da Clothespin (1976), una molletta gigante conficcata in verticale in una piazza di Filadelfia. Una fase che coincide con la collaborazione con Coosje van Bruggen, con un rinnovato interesse critico per il modernismo architettonico (Mies van der Rohe, Le Corbusier) prima sbrigativamente ridotto alla “mistica del grattacielo” (Eric Valentin), così come per la scultura monumentale del XX secolo. Brancusi, e non più Dubuffet, è ora l’artista di riferimento.


Al di là di uno sguardo superficiale sulla sua opera, Oldenburg è sempre rimasto in buoni rapporti con l’arte del passato. Lo aveva intuito tra l’altro il collezionista Panza di Biumo, che passò senza soluzione di continuità dalle superfici pastose di Fautrier e Dubuffet ai combines paintings di Rauschenberg e agli oggetti di Oldenburg. I colori accesi della pittura astratta americana del dopoguerra ritornano nelle salse dei panini e dei gelati di Oldenburg, che trasudano colore come se sanguinassero. Ancora più classico il riferimento dell’artista che, in un appunto del 1961, ricorda il mistero nascosto nelle cose più semplici, ad esempio nelle nature morte – un genere che ha contribuito a reinventare, sebbene non sempre in modo convincente come nelle opere tarde (Balzac/Pétanque, 2002). Oldenburg fa anche il nome di de Chirico. In un raro autoritratto del 1969, si ritrae metà mago e metà clown, evocando tanto i pagliacci che lo divertivano a Coney Island quanto le sculture di Messerschmidt. Più che l’arte alta minacciata dal kitsch, abbiamo qui a che fare con la frizione tra arti visive ed estetica urbana.

 

 

CAFARNAO

La mostra di Colonia copre un periodo più ampio di quello suggerito dal titolo. Si parte con gli happening della fine degli anni cinquanta, in particolare con gli oggetti residui di queste azioni che un bel giorno Oldenburg pensò di trasformare o semplicemente di considerare come sculture. Si finisce con i disegni per le opere monumentali che segnano il suo lavoro sin dalla metà degli anni settanta. Ciononostante, a ripercorrere la carriera di Oldenburg, il suo cafarnao di ephemera, il suo “cimitero di oggetti industriali” si condensa nel giro di pochi, fervidissimi anni, ovvero dal 1960 al 1964. The Store (1960) è una colossale scappatoia dall’istituzione museale, sebbene sia stata reinstallata a diverse riprese proprio in quelle istituzioni da cui prendeva le distanze, dalla Green Gallery di New York (1962) alla mostra di Colonia. Segna lo slancio pop verso la cultura di massa e i suoi prodotti, come la merce esposta nelle vetrine dei negozi. In uno dei gesti più famosi della storia dell’arte del dopoguerra, Oldenburg apre un negozio a 107 East Second Street per vendere le sue sculture: alimenti, vestiti, strumenti per la casa elettrici e meccanici. Non mancano neanche le etichette. I vestiti sembrano frammenti dei corpi che dovrebbero indossarli, come se Oldenburg li avesse ritagliati ed esposti col modello vivo al suo interno.

 

Segue The Street (1961), installato nell’atelier newyorkese di Oldenburg: figure di cartone, tele di iuta, giornali e altri materiali di scarto riproducono la silhouette di oggetti della vita metropolitana quali vestiti, alimenti, insegne, cartelloni pubblicitari. Utilizzata come scenografia da performance – un po’ come i combines paintings di Rauschenberg –, The Street si ispira ai graffiti degli antri più infimi di Manhattan, sebbene i richiami alla pittura americana degli anni cinquanta restino evidenti.
La lingerie pietrificata, con i capi appesi a un’asta come salumi, indicano che anche l’intimità era minacciata, che la sfera domestica era sottoposta alla stessa metamorfosi di quella urbana. È il tema di The Home (1963), una replica di oggetti casalinghi in diverse misure e materiali. Oldenburg scopre la plastica pvc e si mette a disegnare arnesi dalle superfici molli che, una volta realizzati in tre dimensioni, si afflosciano sul pavimento. Di questi l’unico che ho difficoltà a riconoscere è la gomma da cancellare per macchina da scrivere. Una spia che la mostra è una discesa nel girone degli anni sessanta. Molti oggetti continuano pertanto a far parte della nostra vita quotidiana: patatine fritte che escono da un sacchetto rovesciato sospeso al soffitto della galleria (è l’affiche della mostra); una fetta di torta grande e soffice come un materasso; un frullino che pende flaccido dal soffitto, e ancora tubi di scarico, una batteria musicale, una sega, una borsa del ghiaccio, un tubetto del dentifricio, una cornetta del telefono.


A colpirmi sono, nella prima sala, le prese di corrente che pendono dal soffitto (Three-Way Plugs), così grandi e deformate da assumere le fattezze di una maschera di Halloween. Oldenburg si serve della stessa logica infantile che adottiamo davanti ai muri scrostati: quando le imperfezioni porose della superficie richiamano due occhi e un naso, qualcuno vi aggiunge presto una bocca che sorride, la capigliatura, le orecchie. Un modo per registrare, per lasciare una traccia visibile di un fantasma che ha attraversato come un lampo i nostri pensieri.


Notevole è anche il cono da gelato di quattro metri e mezzo, adagiato su un piedistallo come la scultura di un defunto in posizione reclinata sul letto di morte. In una foto del 1963, il cono è coricato sul tetto della Volkswagen dell’artista, e mi chiedo come abbia fatto a guidare per le highways di Los Angeles con una palla di pistacchio spalmata sul parabrezza. Ancora, il ventilatore con le pale flaccide rivolte verso il basso (Giant Soft Fan) esposto per la prima volta alla Sidney Janis Gallery di New York nel 1967. Ricorda una mantide religiosa ma anche un oggetto feticista, simile a quelli fotografati dal surrealista Jacques-André Boiffard, con le catene al soffitto che lo lasciano penzolare dall’alto assieme a numerosi lacci, il colore nero lucido come se fosse di lattice. Eppure allo stesso tempo è inequivocabile che si tratta di un poco erotico ventilatore – tanto poco erotico che le sue pale non saprebbero far palpitare alcuna sottoveste.


Nel 1963-64 è la volta dei mobili, degli accessori domestici e soprattutto della camera da letto e del bagno, sottoposti a un processo di sgonfiamento. Che la sala da bagno e la cucina – gli ambienti più minimalisti di un appartamento, dominati da angoli retti e forme taglienti – diventassero presto un bersaglio dell’artista c’era da aspettarselo. Questo passaggio, incarnato dal Bedroom Ensemble realizzato a Los Angeles nel 1963 su cui vi sono stranamente pochi cenni a Colonia, segna un momento cruciale nella sua carriera: l’abbandono dei detriti del Lower East Side per le superfici lucide e lisce dell’estetica industriale (come ben argomentato da Joshua Shannon in The Disappearance of Objects. New York Art and the Rise of the Postmodern City, Yale University Press 2009).

Il negozio, la strada, la casa: con poche mosse di scacchi Oldenburg ha cambiato il corso dell’arte degli anni sessanta.

 


MOZZICONI

Un posacenere pieno di mozziconi in scala gigante. Non è l’illustrazione letterale di quello che Oldenburg ha scritto su questi oggetti di scarto, assurti a modelli formali della scultura contemporanea? I mozziconi sono composti da due parti, quella rigida del filtro e quella morbida del tubetto di tabacco, ed è dalla loro combinazione inesauribile che, Oldenburg dixit, nasce la scultura contemporanea. Oldenburg raccoglieva mozziconi alle feste e li studiava con la stessa attenzione con cui gli scultori classici riproducevano lo scorticato per apprendere l’anatomia umana, o con cui i pittori disponevano la frutta sul tavolo per le nature morte, attenti alla texture, al colore e alla forma di ciascun oggetto. All’epoca dell’antiform di Robert Morris, il destino della scultura passa invece per gli objets trouvés dentro un posacenere.

 

Nella New York degli anni sessanta Oldenburg frequentava del resto la strada e non la gipsoteca, e s’imbatteva più frequentemente in mozziconi di sigaretta che non in memento mori a forma di teschio o in cornucopie di frutta. Gli oggetti che lo attraggono appartengono alla nostra vita quotidiana, troppo familiari per prestarvi attenzione. Ma una volta sottratti alla loro funzione, alla loro sudditanza all’uomo, cominciano a parlare una lingua tutta loro. E parlando si modificano, cambiano dimensione, si contorcono, prendono forme curiose, a volte divertenti a volte minacciose. Nel loro sgonfiarsi vi è una vittoria della gravità e di un principio anti-tettonico di decomposizione, ma non solo: questo processo è anche un principio di respirazione, un innesto organico, la manifestazione di un antropomorfismo latente. Flosci a seguito di una profonda espirazione, sono pronti a riprendere aria e a ingigantirsi a dismisura. Per questo non sono semplicemente dei canotti sgonfi. L’azione pneumatica dà a questi oggetti una presenza o meglio una personalità: sono annoiati, entusiasti, indifferenti, volitivi – esattamente come gli “umani” che si sforzano di guardarli come opere d’arte.

 

 

MOUSEOLEUM

Cuore pulsante di The Sixties, e seconda scappatoia dall’istituzione museale (la prima è The Store), è il Mouse Museum, vera e propria mostra nella mostra. Esposto a Documenta 5 nel 1972, consta di 385 oggetti raccolti da Oldenburg nel corso degli anni sessanta, un campionario in miniatura della sua arte e una risorsa inesauribile per la sua produzione futura. Museo dell’infanzia e museo di scarti vagamente ispirato alla Musa addormentata di Brancusi, il “Mouse – Mouseum – Mouseoleum”, come si legge in Notes on the Geometric Mouse Subject (1971), è una struttura in alluminio ondulato di dimensioni variabili, composta dalle superfici rotonde degli occhi, delle orecchie e del naso di Mickey Mouse (le due vetrine quadrate al centro del Mouseum non sono altro che gli occhi di Topolino). Segno distintivo sono le orecchie, come quelle dell’imponente Teddy Bear che Oldenburg aveva progettato di piazzare a Central Park per spezzare la monotonia della linea retta che imbriglia lo skyline di Manhattan.

 

 

Oldenburg trasforma la sua opera in un prodotto da supermercato, il suo studio in un negozio, il museo in un fumetto tridimensionale, lo spazio pubblico in un negozio di giocattoli, la metropoli in una stanza di casa. Tra gli oggetti di The Store spicca il registratore di cassa, una colata argentata ricoperta come una torta di pennellate gialle, rosse e blu. Non si tratta di un oggetto come un altro: Oldenburg ci suggerisce che alla cassa, cioè al mero valore di scambio, è ridotta la merce; ma anche che al mercato e allo spettacolo si stava ormai riducendo la stessa produzione artistica degli anni sessanta. Gli spruzzi di colore, ovvero il dripping come espressione della soggettività inalienabile dell’artista, erano ormai moneta sonante, contabilizzabile. Da qui la doppia natura dell’oggetto creato da Oldenburg: rilucente e repellente.

 

 

Non si tratta di una semplice critica alla feticizzazione della merce. L’artista riconosce ad esempio il potere visivo delle vetrine dei negozi, la presenza che assumono gli oggetti dietro la sua superficie grazie al luccichio e al gioco di riflessi, l’interazione con la strada e con la vista periferica dei passanti, il mostrarsi a uno sguardo distratto e in movimento. Ad attirarlo poi è quella capacità di generare desiderio che mancava all’arte dell’epoca, poco rilucente e repellente.

 

 

È così che nasce Ray Guns, una collezione sterminata di ogni sorta di manufatti che hanno la forma di una pistola, cioè due rette (l’impugnatura e la canna) a 90 gradi. Ovviamente sono presentate in una teca di vetro. Molte sono organiche e sessuate e ricordano la pistola di Cronenberg in eXistenZ fatta di carne, vertebre, ossa e denti. Nel complesso, possiamo considerare Ray Guns come un’illustrazione della freudiana Psicopatologia della vita quotidiana, della spinta alla violenza insita nella società americana. A essere esposta in vetrina è insomma, per citare ancora Cronenberg, la History of Violence.

 

 

JUNKSPACE

In una mostra alla Martha Jackson Gallery del 1960, Lawrence Alloway proponeva di considerare Oldenburg, assieme a Jasper Johns, Robert Rauschenberg e Donald Judd, nell’ambito del New Dada o meglio della “New York Junk Culture”, per la loro tendenza a servirsi di materiali di scarto e di detriti urbani. Quest’etichetta ebbe poco successo e non fu adottata né dalla critica né agli artisti. Riacquista tuttavia interesse se la leggiamo attraverso quello che nel 2002 l’architetto Rem Koolhaas ha chiamato Junkspace, senza istituire alcun rapporto con la mostra di Alloway e con l’opera di Oldenburg. Cos’è il Junkspace? Inutile cercare una definizione univoca: ogni paragrafo dell’articolo di Koolhaas è, tatticamente, un tentativo di definirlo, un accumulo di definizioni sul destino dello spazio urbano e sull’utopia del progetto architettonico che il Junkspace sconquassa.

 

Alcuni passaggi ci tornano utili per comprendere le opere di Oldenburg. In ordine rigorosamente sparso: “Il Junkspace è ciò che resta dopo che la modernizzazione ha fatto il suo corso o, più precisamente, ciò che si coagula mentre la modernizzazione è in corso, le sue ricadute”; “cancella le distinzioni, mina alla base ogni risoluzione, confonde l’intenzione con la realizzazione. Sostituisce la gerarchia con l’accumulo, la composizione con l’addizione”, la forma con la proliferazione, la creazione con la manipolazione; è “il prodotto dell’incontro tra la scala mobile e l’aria condizionata, concepito in un’incubatrice di cartongesso (tre cose che non compaiono nei libri di storia)”. E ancora: “Ogni materializzazione è provvisoria: tagliare, piegare, strappare, rivestire: la costruzione ha acquistato una nuova morbidezza, come la sartoria...”. Passi apocalittici si alternano a passi più simpatetici: “è come essere condannati a un bagno perpetuo in una Jacuzzi con milioni dei tuoi migliori amici”.

 

Un’altra caratteristica del Junkspace è la sua spinta verso il colossale: “abbiamo costruito più di tutte le precedenti generazioni messe assieme”, sebbene non siamo stati capaci di erigere le piramidi. È attorno a questa “Bigness” (altro termine caro a Koolhaas) incompiuta che ruota l’opera matura di Oldenburg, che possiamo sintetizzare con la formula più stringata ed efficace sul Junkspace: “The more and more, more is more”.

 

 

SATANIC VULGARITY

“Satanic vulgarity”: così si esprime Oldenburg sulla propria opera ed è difficile dire meglio. Ma cos’ha di diabolico la volgarità di Oldenburg? Senza dubbio un aspetto sessuale, da eiaculazione visiva. “L’erotico o il sessuale è la radice dell’‘arte’, il suo primo impulso. Oggi ad esempio la sessualità è diretta più [...] verso dei sostituti quali l’abbigliamento che verso la persona, quanto conferisce all’oggetto una sua intensità. È quanto cerco di proiettare”. Ma di diabolico la volgarità di Oldenburg ha anche l’intento sovversivo; tra i primi a suggerirlo fu un testimone d’eccezione quale Herbert Marcuse. Nel giugno 1968, sulle pagine della rivista d’architettura “Perspecta”, l’autore di Eros e civiltà confidò a Stuart Wrede le sue impressioni su Oldenburg. La sua testimonianza fu trascritta e stampata a piena pagina con un carattere tipografico utilizzato da Oldenburg in alcuni disegni del 1965. Ecco in extenso la preziosa testimonianza di Marcuse:

 

Strangely enough I think that would indeed be subversive. If you could ever imagine a situation in which this could be done you would have the revolution. If you could really envisage a situation where at the end of Park Avenue there would be a huge good humor ice cream bar and in the middle of Times Square a huge banana I would say – and I think safely say – this society has come to an end. Because then people cannot take anything seriously: neither their president, nor the cabinet, nor the corporation executives. There is a way in which this kind of satire, of humor, can indeed kill. I think it would be one of the most bloodless means to achieve a radical change. But the trouble is you must already have the radical change in order to get it built and I don’t see any evidence of that. And the mere drawing wouldn’t hurt and that makes it harmless. But just imagine that overnight it would suddenly be there.

 

Lo sguardo di Marcuse si rivolge agli effetti sociali più radicali delle sculture monumentali: se i progetti di Oldenburg fossero realizzati, se quella banana sbucciata alta come un grattacielo troneggiasse nel mezzo di Times Square, la società sarebbe sconfitta e la rivoluzione compiuta. La scultura di Oldenburg denuncerebbe infatti il sistema politico ed economico che alimenta la società dei consumi del dopoguerra. A saperla maneggiare, anche una volgare banana può diventare quindi un’arma pericolosa – la più letale delle Ray Guns. E la banana warholiana che troneggia sulla copertina del disco dei Velvet Underground è del 1967. Se lo schizzo di Oldenburg è in sé innocuo, ragiona Marcuse, basta pensare alla realizzazione del monumento alla banana per innescare la miccia della rivoluzione.

 

 

Si tratta di una lettura tremendamente anni sessanta, d’accordo. Il cono di Colonia non ha causato alcuno smottamento politico. Ma è proprio il darsi stesso di questa possibilità – che dall’oggi al domani si realizzi il mondo prospettato da Oldenburg negli anni sessanta – a creare un sussulto nello spettatore che oggi circola con circospezione tra queste opere, che siano rovine della modernità o rudimentali concrezioni della realtà a venire.

 

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