I miei premi letterari

23 Gennaio 2015

Io i premi già lo so che non li vinco: partecipo perché, come diceva Bernhard, «se qualcuno offre del denaro vuol dire che ne ha, ed è giusto alleggerirlo». E dunque partecipo, anzi partecipiamo: in tanti, sempre, perché i bandi girano con mesi di anticipo nei blog, specie quelli di poesia che inspiegabilmente sono premi ricchi. In proporzione, almeno, rispetto al fatto che quando pubblichi un libro di poesia quasi quasi te lo devi pagare tu, cioè corre comunque l’obbligo di acquistarne delle copie, altrimenti l’editore come fa. Non hanno mai soldi per niente, gli editori di poesia, e sembra ti abbiano già fatto questo gran favore a pubblicarti, ma poi se ne vergognano, i libri non circolano, ne stampano quattro.

 

Comunque bando alle nequizie del sistema («odio tutti gli editori e tutte le case editrici e tutti i libri»: sempre Bernhard): torniamo alla breve storia dei miei premi. Il primo premio di poesia che ho vinto in vita mia non l’ho vinto. Erano gli anni del mio rapporto con l’autore cui avrei di lì a poco dedicato una monografia. Lo incontravo spesso, ci davamo convegno tramite biglietti o cartoline: di solito ci vedevamo a mostre, o nelle hall degli alberghi in cui alloggiava, qualche volta alle prime di spettacoli tratti da sue opere. Una di quelle volte ad aspettarmi c’era sua moglie: non ricordo per quale ragione lui poi non venne, o venne molto più tardi, e allora io e lei cominciammo a chiacchierare di poesia, ma soprattutto di poeti: e chi aveva fatto le scarpe a chi altro, e per quale motivo. Le dissi in quell’occasione che scrivevo a mia volta, non suscitando ovviamente meraviglia alcuna: sarebbe stato stupefacente il contrario. Le volle leggere subito, le mie poesie, e allora gliene mandai talune scelte, due o tre. A quel punto a tutti i costi voleva farmi vincere un premio della cui giuria suo marito era membro emerito. Figurarsi. L’altro giurato, ben più combattivo, imponeva la sua protetta. E dunque il premio di cinquemila euro sfumò: non alleggerii, per quella volta, proprio nessuno. E anzi, quando mi fu poi assegnato anni dopo, quello stesso premio, ci aveva pensato l’organizzazione ad alleggerirlo di suo: non vinsi nemmeno la gloria, perché quell’anno furono tutti i finalisti a intascarsi l’identica posta (ridimensionata dei due terzi abbondanti), per nascondere la magagna di un giurato che si era trovato a premiare la di lui fidanzata. Ma vabbe’, storie sepolte, non vale la pena rimestare nel torbido, tanto i premi si sa come vanno. Per la verità non si sa benissimo, fin quando uno non ci partecipa. Soprattutto ai premi scarsi, quelli di periferia, che però, inspiegabilmente, qualche soldo lo danno. Non a me, si capisce. Una volta sola ho vinto uno di questi premi minori: quasi vinto, seconda. Quattrocento euro per una poesia dedicata al tema: il fiore. In giuria c’era una poetessa che conoscevo a malapena («la motivazione puoi scrivertela da sola?») e che rincontrai dopo anni in quell’ibrida cerimonia tra la sagra di paese e la sfilata di moda: lo avrei poi raccontato nel mio secondo romanzo.

 

Per i premi ai romanzi c’è tutto un capitolo a parte. Da quando ho cominciato a scriverne, il mio editore, quello che mi ha voluta a tutti i costi nella sua collana, e che a ogni incontro mi diceva Tu-non-sei-come-quelli-che-scrivono-un-romanzo-e-basta-tu-avrai-un’opera, ecco, quell’editore lì, è da quando scrivo che mi promette il premio maggiore, quello del Liquore, sì, il Premione. La prima volta ci avevo credutissimo, contavo i giorni. E non solo invece l’editore (quello di Tu-non-sei eccetera) non candidò il mio, ma portò in finale il suo, di romanzo. «No, che non mi presento», mi aveva rassicurata più volte contro i rumors dilaganti, probabilmente a candidatura già inoltrata: sono cose, appresi dopo, che si decidono con almeno un anno di anticipo. E fu lui stesso, l’editore di Tu-non-sei eccetera, a elencarmi, nello studio in cui avremmo dovuto parlare del mio, di romanzo, i futuri vincitori del premio maggiore, quello del Liquore, il Premione, nell’ordine esatto in cui si poi effettivamente affermarono. Tizio per quell’Editore, Caio per Quell’Altro, e poi Sempronio, e via così. «Tu, comunque, l’anno prossimo, di sicuro». Arriva l’anno successivo ma un nuovo libro non ce l’ho ancora, non è finito, non sono pronta. L’editore di Tu-non-sei eccetera, però, vuol candidarmi lo stesso: lo apprendo da una segnalazione del sito più accreditato in fatto di gossip editoriale: «Allora, Gilda, come si chiama il tuo nuovo romanzo?» Quale nuovo romanzo, scusa. «Quello con cui vai al premio del Liquore, il Premione!» Vivo per due giorni in una dimensione parallela: accederò al Premione, attingerò dall’opulento buffet a buon diritto, distinta dalla plebaglia che vi si accalca sgomitando tra gli slanci disinibiti dei neofiti e la dissimulata voracità degli habitué. Felicità che dura il tempo di realizzare che no, io il romanzo in effetti ancora non l’ho: con buona pace del gazzettino e del mio editore, il premio del Liquore, il Premione, sfuma di nuovo. «Ma l’anno prossimo, vedrai». Infatti, dopo l’uscita del romanzo, per tener fede all’antica promessa, l’editore di Tu-non-sei eccetera si addirittura dimette, e vengo lasciata sola, come l’opera di quell’altro («finché non riaffiorerà, inqualificabile,/ il pensiero di muovere le mani, di usarle»).

 

Però ci sono sempre gli altri premi. Ah, sì, gli altri premi. Ma gli altri premi vanno comunque agli editori che se li spartiscono. Caio che non ha vinto il Premione lo mandiamo all’altro, e Tizio che è arrivato terzo vince l’altro ancora. Lo stesso circolo chiuso di una decina di libri al massimo che si spartiscono il territorio nazionale. «Sai», mi telefona un giorno un mio ex professore, «sono stato io a farti arrivare in finale, al Premio Tal de’ Tali. Però non ci sperare: a decidere è la giuria popolare». Ohnoes, i cosiddetti lettori forti, che appena sentono leggere me non capiscono, s’innervosiscono: niente marchesa e nessuna uscita di casa, meno che mai alle cinque. «Lei scrive male». «Lei parla troppo del Male». «Lei non scrive romanzi ma cose crudeli e sbagliate». «Lei corrompe i giovani». «Lei è troppo giovane, non sa niente della vita». Va sempre meglio che ai premi di poesia, dove le casalinghe promosse a giurate premiano con mai meno di mille euro il poeta delle scogliere e dei gabbiani: poesia in quanto va a capo, e rima. «Ce l’ha, lei, l’amico immaginario?», domandano al primo classificato. Alla fine riesco almeno a movimentare la premiazione, proprio come Bernhard: una volta si dimenticano di dare l’assegno al vincitore, un’altra il vincitore siede a un tavolo a parte, mentre pasteggio al posto suo coi giurati («il notaio tifava per te») e gli altri sconfitti («tanto si sapeva dall’inizio»). Gli rubiamo, al vincitore, pure le tartine: perché i premi sono come i matrimoni, bisogna essere bravi ad accaparrarseli, se non si riesce a snobbarli. O almeno togliersi la soddisfazione di mandare all’aria quelli degli altri.

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