Annarella Benemerita Soubrette

27 Maggio 2014

Pubblichiamo la prefazione di Marco Belpoliti al volume Annarella Benemerita Soubrette CCCP Fedeli alla Linea (Quodlibet, 2014)

 

 

Nulla dura per sempre

 

I CCCP Fedeli alla Linea nascono nel 1982 a Fellegara, provincia di Reggio Emilia, e muoiono nel 1989 a Mosca. Interpretano un’epoca, nella sua alba e nel suo tramonto. Sono l’epilogo di un periodo storico: l’età dei crolli. Comincia nel 1989 e culmina nel 2001.

 

Lo racconta Giovanni Lindo Ferretti in un lungo dialogo con Alberto Campo, pubblicato nel 1997, quando ancora non era scattato l’attacco suicida alle Torri gemelle: «La grandezza della storia dei CCCP stava più nei suoi aspetti inesplicabili che in quelli esplicabili, nel senso che a volte abbiamo toccato i nervi scoperti senza averne consapevolezza. Vivevamo in un mondo frantumato, senza che vi fosse la possibilità di mantenersi integri: nulla era più integro, né la nostra terra né l’ideologia. Non eravamo altro che lo specchio di quella frantumazione e non potevamo che essere frantumati a nostra volta. Quello che il nostro pubblico cercava era una dritta per uscire dalla frantumazione, mentre noi non potevamo fare altro che dare maggiore risalto possibile alla frantumazione di cui eravamo parte. E non avevamo niente di più da dire».

 

Nel 1982, quando debuttano i CCCP nei locali e nelle feste emiliane, la crisi che avrebbe portato al crollo del Muro di Berlino, e alla dissoluzione dell’Urss, non era ancora visibile, sebbene un dissidente russo avesse già indicato nel titolo di un suo volume come data della dissoluzione del regime il 1984, appuntamento orwelliano per eccellenza. Ci vorranno ancora sette anni per vedere l’effetto del sotterraneo processo in corso, sette anni per scorgere i ragazzi di Berlino salire in cima al Muro e danzarvi, mentre le guardie della Germania dell’Est li investono con gli idranti, anni in cui si consuma la folgorante esperienza dei CCCP e del loro punk filosovietico.

 

Il punto di partenza del gruppo può essere fissato con ogni probabilità nello slogan punk No future, citato in uno dei primi volantini-dichiarazione del gruppo. Si era consumato il distacco dalla politica, almeno per Giovanni Lindo Ferretti, che era stato militante di Lotta Continua, coinvolto nel clima del Settantasette bolognese, anche senza avervi partecipato direttamente. Ma, come si sa, sono proprio persone come lui che fiutano l’aria di un’epoca, senza doverla interpretare fino in fondo, anzi vivendola prima del tempo: essere contemporanei significa quest0. Contemporanei, non attuali. I CCCP non sono mai stati un gruppo «in atto», piuttosto sono un gruppo del con-tempo. Come quasi tutti i gruppi musicali di tendenza – se mi si passa questa espressione –, o le esperienze culturali che hanno funzionato come sintomi di un determinato periodo, vivono in contemporanea con il proprio tempo: non lo anticipano, ma lo costituiscono. Sette anni sono un’eternità anche per una band come questa.

 

La seconda cosa che bisogna ricordare di quell’esperienza è che di fronte al consumo e all’usura di tutti i linguaggi dell’epoca – politici, artistici, filosofici, religiosi – i CCCP dimostrano di aver trovato un loro linguaggio per comunicare l’usura stessa. Non per superarla, e neppure per combatterla, ma solo per rimarcarla. Meglio: dichiararla.

«Non sono un vuoto a perdere / né uno sporco impossibile / né un marchio registrato / né un prodotto di mercato / Non sono un punto fermo / né una realtà di base / né un dato di fatto / né un dato perverso / Ho un codice segreto / ho un codice cifrato / non cerco centri di gravità permanenti / non sono una pratica evasa / non sono una pratica chiusa / non sono un vicolo cieco / un pozzo senza fondo / sono come tu mi vuoi / sono come tu mi vuoi / sono come tu mi vuoi». La canzone simbolo di questo essere-non essere è Sono come tu mi vuoi, che compare nell’LP Compagni, cittadini, fratelli, partigiani. Siamo nel 1985, quando il fenomeno CCCP è esploso nelle piazze, sui giornali, nei discorsi pubblici e privati.

 

La canzone, scritta da Massimo Zamboni e cantata da Ferretti, con le voci di Silvia e Annarella, esprime perfettamente l’ideologia del gruppo, e anche del periodo che interpretano: perfettamente contemporanea. Mentre la prima parte della canzone dice cosa non si è – quasi il Montale di Non chiederci la parola –, la seconda dice cosa invece si è: «Io sono un vuoto a perdere / uno sporco impossibile». E termina la provocatoria litania identitaria con un: «Non sono come tu mi vuoi». Tra il sì e il no del refrain non c’è altro spazio che per l’identificazione, per l’assoluta forma della provocatoria autoconsapevolezza.

 

Nella loro continua demolizione e frantumazione di ogni certezza, senza l’attesa di una ricomposizione, e senza essere nel contempo nichilisti, i CCCP descrivono con l’anticipo di due decenni il transito dal post-comunismo alle risorgenze islamiche. Punk Islam è l’altro tassello che s’inserisce accanto al punk filosovietico. Il terzo elemento della trinità post-ideologica e post-politica sarà poi il richiamo all’identità emiliana (ma di questo non parlerò qui, il resto la prossima volta).

 

 

Come eravamo

 

Nell’ottobre del 1984 ho pubblicato uno dei primi articoli, forse addirittura il primo in assoluto, dedicato ai CCCP sulle pagine de «il manifesto», cui collaboravo da qualche anno. Ero amico di Giovanni da tempo e avevo seguito la nascita del gruppo nella casa di Fellegara, dopo il ritorno da Berlino di Ferretti e Zamboni. Avevo anche letto alcuni dei testi che Giovanni andava scrivendo, prima ancora che questi trovassero una musica in cui entrare. Erano poesie.

Da qualche settimana era stato pubblicato Ortodossia, un disco di colore rosso. Sulla copertina la foto di tre soldati che marciavano per il cambio della guardia a Pankow. Uno dei testi annessi al disco suonava così: «Desideri? Morire di look, morire con lo stereo a tutto volume. Che altro? Idioti di tutto il mondo, divertitevi!». I CCCP non erano ancora partiti per il tour di Barcellona, uno dei viaggi fondativi della loro storia.

 

Avevo registrato una conversazione con Ferretti. Da quelle tracce era uscita un’intervista che cercava di spiegare parte dell’immaginario che nasceva dalla loro musica, dai testi e dai travestimenti che assumevano. Volevo capire, e far capire, a chi leggeva il giornale comunista, il senso del richiamo ai punk, alla fedeltà alla linea («una linea che non c’è»), la lode di Gheddafi e del mondo islamico, perché i CCCP stavano diventando una band di moda, almeno da quelle parti, in Emilia, al Tuwat, nei circoli sociali. Giovanni sosteneva nella conversazione che era più difficile spiegare il loro filosovietismo che non il reggae o il blues: «Non abbiamo nessuna negritudine da rivalutare, nessuna Sion da edificare; siamo bianchi, europei colti, abbiamo responsabilità storiche, accettiamo i sensi di colpa». Questa l’affermazione che avevo trascritto nel pezzo.

 

Nell’agosto dell’anno seguente alle due colonne d’intervista su «il manifesto», si erano aggiunte altre due pagine su un differente giornale, «Reporter». Altra visita a Fellegara, in veste di cronista. Massimo, Giovanni e Umberto erano lì. Si erano aggiunte due ragazze, Silvia e Annarella, da tempo nel giro di Giovanni. Danzavano sul palco nel corso delle esibizioni e dei concerti. Era arrivato anche uno spogliarellista, Frasquelo, ovvero Danilo Fatur, con la sua aria pagana (padana/pagana): rasato a zero, ostentava una corporatura muscolosa. Faceva il facchino a Carpi e il barista al Tuwat, il locale occupato a Carpi. Poco tempo prima Fatur aveva debuttato con uno spettacolo punk-cabaret al Tuwat: Resta Ciriaco, la sera.

 

 

La cosa che colpiva nei CCCP, allargati ai due danzatori e performer (Silvia lascerà dopo poco tempo), era la fitta rete di segni che li ricopriva. Non solo loro, le esibizioni e i dischi, ma anche la casa di Fellegara: le pareti, le scale, gli oggetti tutto era «segno» e come tale vissuto. Senza l’estetica non si poteva capire nulla di quello che stava avvenendo nella trasformazione dei CCCP. Danilo Fatur e la Benemerita Annarella erano diventate ben presto due colonne del gruppo.

 

Tutto aveva già un valore meta-comunicativo – lo scrivevo in quel pezzo dove riversavo le letture dell’epoca, Jean Starobinski e James Hillman –, a partire dai testi stessi delle canzoni: eravamo nel campo della meta-letteratura (o della meta-comunicazione). La stessa poetica del frammento, cui Ferretti faceva riferimento dopo la fine dell’esperienza del suo gruppo, era già operante allora. Frammento e meta-discorso erano la stessa cosa. I CCCP citavano, ma non in senso post-moderno (non erano Keith Haring), bensì in una forma che è poi diventata evidente nel decennio seguente: macerie. Frammento come maceria.

 

Nella conversazione con Alberto Campo, che ho citato, pubblicata in un libro-album da Giunti, Ferretti e Zamboni indicano bene il ruolo di Annarella, più sottile e meno d’impatto della presenza maschile di Fatur, ma assolutamente necessaria. Fatur evidenziava la vocazione, o aspirazione, «rozza» dei CCCP, il loro punto di rottura estetico. Ma non bastava. Ci voleva, lo dice Giovanni, «un elemento che dal vivo bilanciasse la preponderanza maschile». Fatur rappresentava con la sua provocazione fisica l’istanza di distruzione, che animava il punk filosovietico del gruppo. Annarella era invece la femminilità implicita in quella poetica del frammento. Era l’estetica del gruppo nel modo più profondo: Donna-Madonna. Come poteva dunque apparire sul palco della band se non nella forma del travestimento?

Per dirla con Marjorie Garber, il suo era il gioco di travestimento come momento di manifestazione dell’angoscia culturale di cui i CCCP erano portatori. Annarella si vestiva e travestiva sul palco, o appena dietro di esso, coprendo il suo corpo femminile estremamente seducente con abiti inattesi. Era vestita anche quando proponeva momenti di nudità. Alludeva allo stesso travestitismo di fondo della banda musicale, era l’elemento più serio, e insieme più umoristico, del gruppo, ben più di Fatur la cui attività motoria e ginnica colpiva le platee degli spettatori, li provocava e intimoriva. Danilo e Annarella erano rispettivamente il Lupo e Cappuccetto Rosso. Entrambi travestiti. Il Lupo travestito al fine di recidere, strappare, ingoiare. Cappuccetto Rosso travestita per sedurre e ingannare. Insieme potenziavano l’intero impianto visivo del gruppo musicale, lo ponevano, sotto gli occhi di tutti, nella forma della contraddizione complementare.

 

 

Oggi, rileggendo le cose scritte confusamente allora, mi rendo conto che ero andato vicino alla lettura dell’angoscia culturale che promanava dal gruppo, espressa in modo diretto dalle musiche e dalle parole delle canzoni, ma resa visivamente evidente dalle performance di Fatur e Annarella. Assistevamo a una forma di ennesimo Carnevale della Storia, in forma di ripetizione, in piccolo, certo, ma in modo perfetto.

 

Ho memoria di un giorno preciso. Avevo accompagnato i CCCP a Bologna, in un cinema-discoteca, di cui non ricordo più il nome, ma solo che era in un grande piazzale, in periferia. Lì si erano esibiti davanti a un pubblico trascinato dall’energia inarrestabile, e anche folle, che scaturiva da loro. Era quasi la fine del mese di aprile 1986, una giornata di sole trascorsa nel buio della sala. Il giorno dopo abbiamo saputo della centrale di Chernobyl e della sua esplosione. Ho pensato a posteriori che forse c’eravamo salvati dalle radiazioni portate dal vento, e transitate per l’Emilia. Ma non avevo ben considerato l’altra radiazione cui mi ero esposto nel corso del pomeriggio. Dopo qualche anno ho cominciato a lavorare a un testo intitolato Crolli pubblicato nel 2003, dopo l’abbattimento delle Torri; sarei anche andato a Chernobyl con Davide Ferrario.

 

Annarella Benemerita Soubrette

 

«Oggi è domenica / domani si muore / oggi mi vesto di seta e d’amore». Così la citazione che apre il testo-manifesto dei CCCP datato 13 aprile 1987. Continua così: «Per i matti le catastrofi possono essere un sollievo perché alleggeriscono la pressione psichica che la società esercita in modo intollerabile su di loro». Parole profetiche. Nei decenni a seguire abbiamo cominciato a capire come la catastrofe sia un fatto necessario per vivere ogni giorno. Non solo le grandi catastrofi; ma soprattutto le piccole catastrofi quotidiane. Avevo trovato una frase in Italo Calvino che mi sembrava riassumere quell’epoca: «Giorni di catastrofe sono tutti i giorni in cui non succede nulla». Annarella è stato lo stigma di quella catastrofe vestita di seta e d’amore.

 

Scorro le immagini di questo libro e cosa vedo? Una ragazza molto bella che si presenta sotto l’aspetto di una ballerina di flamenco, poi con il tutù della danzatrice classica, quindi una signora con il cappellino. È sempre lei, e non è mai lei. Si veste e traveste: balla, canta, si dimena, sta ferma. Si mostra senza dimostrare. Appare sotto le spoglie della paesana, della mondina emiliana, poi è una star, un poco dark. La bellezza è difficile da portare, e Annarella la maltratta e insieme l’accentua. Vuole essere una diva e anche la ragazza normale.

 

 

Allora, all’epoca delle esibizioni dei CCCP, non avevo ancora visto le fotografie di Cindy Sherman, di qualche anno prima. Ma mi era evidente che quella di Annarella, come di Danilo, era una performance che riguardava il «genere». Erano istantanee, scatti fotografici, non solo film che scorrevano sotto i nostri occhi. Lei era in passerella, per mostrare «qualcosa» che nelle canzoni di Ferretti e Zamboni non era direttamente visibile. La femminilità dei CCCP? Anche questo, e allo stesso tempo qualcosa d’altro che non è facile dire, perché la gran parte della forza dei CCCP non era nel detto, bensì nel non-detto. E Annarella la Benemerita era la forma del non-detto (benemerita per questo). Allora non era probabilmente possibile cogliere tutto questo, anche se Ferretti, parlandone in seguito, con il senno del poi, dimostrava di averlo già pensato o almeno ipotizzato (l’aspetto inesplicabile del gruppo).

 

Nel travestimento di Emilia Paranoica, il culmine della prima fase dei CCCP, la donna-Madonna Annarella appare sotto le vesti di una suora-sposa-infermiera. Sta esplicitando il senso di quella canzone d’amore: amami, soccorrimi, prendimi con te, cullami e consolami. Un grido che si levava dal pezzo più cult dei CCCP in quel momento. Brandiva una bandiera, perché era lei la bandiera: tricolore, e anche falce e martello. In Europa, sezione di questo libro che riassume, e riespone, il look di Annarella (apparenza come identità, identità come apparenza), lei si veste da Unione Sovietica: è Madame URSS. Transita nel cabaret del XX secolo rivestendone ruoli e forme: «il nostro pianeta è poco adeguato per l’allegria», così recita un biglietto scritto in italiano e in cirillico, frase tratta da Majakovskij. Ragazza-Matriosca è un personaggio dentro un altro personaggio. La maschera è la sua identità profonda. Gli abiti si fanno sempre più raffinati. Non è più il guardaroba della prima rozza ora dei CCCP, vestiti del trovarobe casalingo reperiti all’usato. Ora diventa un abito costruito come una madamina francese capitata alla corte degli zar a Mosca, o a Pietroburgo. Disegna i vestiti, è presa da un delirio di sartoria ultraraffinata. Entra ed esce da un film di costume. Meglio: entra e non vi esce più. Il Carnevale della Storia è al suo culmine: «È senza prezzo: è finito il moderno ecco l’età di mezzo».

 

I CCCP sono stati un’avanguardia e insieme il kitsch. Erano il kitsch dell’avanguardia – decenni e decenni dopo –, e anche l’avanguardia del kitsch che ci stava per conquistare definitivamente. Era quella l’età di mezzo: medioevo del capitalismo avanzato. Erano la messa alla berlina della televisione berlusconiana nell’epoca del suo trionfo inarrestabile. Ne costituivano la scena estetica meditata e rifatta. Non ce ne siamo accorti che molto dopo.

 

E l’Islam? Anche qui un ricordo degli inizi, o quasi. Era il 1986 forse 1987. Non sono mai stato bravo con le date. C’è una fotografia scattata da Umberto Negri nel cortile dell’Istituto d’Arte con me Annarella e Danilo. Erano venuti i CCCP a suonare per gli studenti. Se ne ricorda ancora Alioscia Bisceglia (non erano ancora nati i Casino Royale). Si esibivano dopo le band giovanili della scuola e della Brianza, lì intorno. Annarella era arrivata con i suoi abiti islamici, finto islamici: «Islam punk Islam punk / islampunkundpunkislam / punkislamundislampunk». Danzava, pregava.

 

S’inginocchiava, mostrava i veli, il suo corpo sotto il vestito; univa (mi sembra di ricordare, ma non ne sono sicuro) il copricapo e il velo e il reggiseno. Contraddizione e scandalo. Attoniti, abbagliati, abbacinati, seguivamo quelle mosse sul palco molto provvisorio dell’I.S.A.: «Orsù balliamo». Lo avremmo fatto e di corsa nei due decenni a venire.

 

Lasciami qui

 

«Lasciami qui / lasciami stare / lasciami così / non dire / una parola / che non sia / d’amore / per me / per la mia vita / che è / tutto quello / che io ho / tutto quello / che io ho / e / non è ancora finita». Ferretti ha raccontato di aver scritto questa canzone pensando a suo padre, a lui che era morto prima della sua nascita, cui si rivolge. Una sorta di dialogo muto – il carme, la preghiera all’antenato, al progenitore, a chi ti ha generato in vita e in morte. Questa canzone, registrata sulla soglia della fine del gruppo, a Rio Saliceto, dentro Villa Pirondini, nell’aprile del 1990, ha preso il titolo di Annarella dopo una discussione, quale risarcimento amoroso (il voler bene di Ferretti) nel momento in cui i CCCP si stavano sciogliendo. Era il momento culminante del gruppo, e ascoltata (e letta oggi) è probabilmente la più bella canzone del gruppo.

 

Porta il nome della Benemerita Soubrette, non a caso. L’elemento femminile è la radice prima di quei versi e di quella canzone: sincopata nelle parole, dolce nella musica. Sussurrata e gridata. Un grido rivolto all’interno che diventa armonia nello spazio esterno. La fine era vicina. La fine ha il nome di Annarella, bambola sexy e madre dolorosa, soubrette e icona santa. Il più e il meno, l’alto e insieme il basso, dei CCCP.

 

Nelle ultime pagine di questo libro Annarella torna a essere Antonella da Vallisnera, nella serie degli scatti di Giovanni Ferretti (era Giovanni prima di diventare Lindo), a Fellegara. Tutto torna all’indietro. Si riavvolge il nastro delle immagini.

 

La Soubrette è restituita al suo inizio, quando il travestimento non era ancora la sua «forma». Sono ancora scene, anzi le prime scene della trasformazione in atto. Ce l’ha fatte vedere, forse per indicare, inconsciamente, là dove tutto era iniziato. C’è la ragazza che diventa modella, diva, santa. Sta per accadere. Tutto nell’occhio di Giovanni che la guarda e scatta. Ma tutto è già in Annarella che sta per vestirsi d’altro e di sé.

 

Un’immagine per tutte: seduta sulle scale della casa di Fellegara, sulle piastrelle di cotto della vecchia casa contadina diventata l’antro del Lupo. È Cappuccetto Rosso, anzi Bianco, come il maglione anni Settanta che indossa. Ci guarda da sotto in su. Tutto in quello sguardo: stranito, perplesso e anche un poco risentito. Da lì in poi Cappuccetto diventerà il Lupo. Quanta ingenuità le sarà mai servita per quella trasformazione? 

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