La signora dell’inverno

19 Dicembre 2014

A mitigare la struggente spigolatura autunnale delle ultime rose ci soccorre la Camellia sasanqua. Più simpatica e amabile della japonica (dai fiori primaverili troppo lourds ai miei occhi), la sasanqua possiede due qualità impagabili: fiorisce per tutto l’inverno con un’abbondanza di boccioli che si schiudono uno via l’altro e – a dispetto dell’opinio communis che pare conosca solo le japonica – sprigiona da corolle e foglie un sottile profumo di tè verde.
 

 

Anch’essa, infatti, appartiene al medesimo genere della Camellia sinensis, la pianta del tè per l’appunto; benché dalle sue lucide, seghettate foglie non si ottenga l’eccitante bevanda, gli orientali sono usi aggiungere in tazza petali di sasanqua per un surplus d’aroma. Vano, per l’etimologia, sfruculiare i gibbuti mammiferi pur essi asiatici: più banalmente, Linneo la dedicò al gesuita Georg Joseph Kamel (1661-1706) per i suoi meriti in campo botanico, tra i quali (al contrario di quanto si suole scrivere) non va annoverata la diffusione della pianta in Europa.

 

 

Prediligo le sasanqua anche per i fiori semplici (o semidoppi), grandi e leggeri che esaltano il bottone giallo degli stami e, sfioriti, si sfogliano senza marcire grevi sui rami. Chi ha la fortuna di avere in giardino un grande esemplare di quest’arbusto dalla lenta crescita non può che convenire con questo haiku di Iida Dakotsu (1885-1962): solo le piume di sasanqua al suolo possono suggerire l’immagine analogica con il domestico pennuto:

 

hyaku kei wo

hanateru kami ya

rakutsubaki

 

Camelie cadute:

dee che sanno liberare

cento galli!

 

Nella mia antologia trovo anche questo haiku di Kawahigashi Hekigodō (1873-1937):

 

akai tsubaki

shiroi tsubaki to

ochinikeri

 

Una camelia rossa

è caduta

insieme a una camelia bianca

 

Di analogia in analogia, questi haiku sembrano riassumere in un nipponico tweet la breve esistenza dell’eroina che ispirò anche Verdi per la sua Traviata. Margherita Gautier, giovane cortigiana uscita dalla penna di Alessandro Dumas figlio, più nota come La Dame aux camélias, era solita apparire in pubblico con un immancabile mazzo di camelie bianche che, tuttavia, in alcuni giorni, mutavano colore. Così il sobrio e malizioso narratore:

 

Ogni qualvolta si rappresentasse una commedia nuova, si era certi di vederla apparire con tre cose che non la lasciavan mai, poste sul parapetto del suo palco di prima fila: l’occhialino, un sacchetto di dolci e un mazzo di camelie.

Venticinque giorni il mese le camelie erano bianche; gli altri cinque giorni, rosse; né mai si seppe la ragione di questo cambiamento di colori (io lo noto, non lo spiego) che i frequentatori dei teatri dove ella più andava, e i suoi amici, avevano, come me, rilevato.

 

 

La Dama, minata dalla tisi (non certo per questo, ma anche per questo le rosse erano adatte), cadrà tra l’indifferenza dei galli parigini attenti solo al colore del suo bouquet, e il rimpianto dell’unico amante sincero, che avrà cura della sua tomba con sempre rinnovate camelie: ormai, ça va sans dire, solo candide.

Come ogni anno, mi aspetto il solito articolo strillante allarmi climatici portando a prova (come se non ve ne fossero ben altre) immagini di camelie o ciliegi invernali (prunus subhirtella) fioriti in dicembre o gennaio, documenti semmai d’ignoranza giornalistica. Ogni Natale, con o senza neve, il mio centrotavola sbeffeggia l’insipienza dei pennivendoli sfoggiando camelie fresche di giardino e bacche d’agrifoglio.

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