Voi siete qui

28 Maggio 2012

Tra le varie avventure che possono capitare a chi insegna in una scuola superiore c’è anche quella di occuparsi dell’Orientamento in uscita dei propri studenti: chi assume il ruolo di ‘funzione strumentale’ ha il compito di tenere i rapporti dell’istituto con l’università, il mondo del lavoro e il ‘territorio’ (qualunque cosa questo voglia dire) e di fornire un’interfaccia tra questi e gli studenti.

Da quando ho accettato quel compito mi arrivano mail da enti formativi privati di ogni tipo che bramano di poter venire a presentare la loro offerta formativa nella scuole; corsi professionali, diplomi universitari, lauree on line, università di mezzo mondo; per quanto riguarda le Università pubbliche italiane constato che, fatto salvo gli uffici preposti all’Orientamento in ingresso, le singole facoltà (che presto spariranno) si trincerano dietro siti web e informazioni standard e parecchio insoddisfacenti. Tira aria di smobilitazione, insomma: i corsi di laurea a numero chiuso sono sempre più diffusi, fenomeno che si potrebbe correlare al calo alle iscrizioni e all’invito a cercarsi lavori meno qualificati che Governo e Confindustria suggeriscono in questo momento di esubero di laureati inoccupati. Il messaggio è che si vogliono meno studenti parcheggiati in università, tanto dopo non c’è lavoro. Ma l’Europa non ci chiedeva più laureati fino a poco tempo fa?

 

Nel liceo scientifico (di Torino) in cui insegno lo sbocco principale degli studenti è l’Università, cosa che avviene per circa il 70% degli iscritti. Stando ai loro desiderata espressi all’inizio del quinto anno circa il 20% degli studenti è interessato a Medicina e lauree mediche varie, il 15% a Ingegneria e Architettura, il 12 % a Scienze matematiche, fisiche e naturali, il 9% a Giurisprudenza e altrettanto Economia, fino a un 6% Psicologia e scienze della Comunicazione e giù, ognuna sotto il 3%, si trova tutto il resto, da Lettere all’Accademia militare.

La maggior parte di chi si rivolge a me per l’Orientamento è interessata a programmi e meccanismi della formazione universitaria ma soprattutto al lavoro che questa garantirebbe: in realtà sembrano chiedere (a me!?) che cosa potrà mai succedere dello sviluppo economico del paese e se troveranno lavoro: sono io del resto che in classe spiego che il nostro Paese è una Repubblica fondata sul lavoro e alcuni mi prendono sul serio.

Rimango sconcertato dalla mancanza di consapevolezza di chi, più di quanto si immagini, aspiri a studi che la sua storia scolastica sconsiglierebbe: intendo dire rimandati cronici di fisica, chimica e matematica che intendono fare i medici o gli ingegneri o studenti con sufficienza stiracchiata di storia e filosofia o lettere che vogliono fare i giornalisti. Come se quello che succede durante la scuola superiore insomma fosse una cosa che non conta veramente e poi dopo tutto giri diversamente. Non escludo che qualcosa possa cambiare con età e una motivazione differente, in un ambiente diverso e meno claustrale della scuola, oltre al fatto che i docenti possono anche sbagliare valutazioni e gli esami di stato implicano sempre un certo grado di casualità. L’esperienza di ex-studenti che tornano a salutare e nell’imbarazzo confessano i loro fallimenti mi spinge a mettere insieme alcune considerazioni sparse e a riconoscere che sì, c’è molto bisogno di orientamento e probabilmente già dalle scuole medie, visto che molti studenti dal percorso accidentato hanno ignorato i suggerimenti dei loro insegnanti e scontano il frutto di una scelta malponderata.

 

Per molti adolescenti liceali il futuro, in questo caso prima di tutto universitario, è qualcosa di fantasmatico e di irreale ed è soprattutto il diritto irrinunciabile a una vita da studente prima di quella adulta, una pausa prima che il gioco si faccia duro. Ok, direte voi, è stato così per tutti. Vero, in parte lo è sempre stato. Con il fatto che, se state leggendo Doppiozero, molto probabilmente il vostro percorso è stato coronato da successo e l’eventuale rinuncia al vostro progetto ideale nel confronto con il  principio di realtà risulta accettabile. Mi sembra che per la generazione degli attuali quarantenni, con cui ho condiviso gli anni universitari, esistessero obiettivi anche molto ambiziosi e altrettanti ‘piani b’, comunque all’interno di scelte culturali, etiche, estetiche e politiche più chiare, con l’assunzione di livelli di rischio di fallimento tendenzialmente consapevoli.

Tra i miei studenti diciottenni solo pochissimi hanno le idee chiare e sono fortemente determinati nel perseguire un percorso (e sono più bravi e task-oriented che in passato) grazie a risorse personali e sostegno familiare; ma la grandissima maggioranza patisce un disorientamento generale rispetto alle scelte, proporzionale all’esplosione di lauree triennali diversificate e complicate e all’effetto inflattivo che questo ha comportato. A fronte di un aumento dei laureati sono aumentate le richieste di credenziali per accedere a determinati posti. Esiste inoltre un immaginario sui lavori di successo, quello che ha fatto la fortuna dei corsi di laurea in Scienze della comunicazione ad esempio, che ha veramente del fiabesco e che crea una dura disillusione nei laureati.

Se da un lato c’è la diffusa percezione di una crisi del mondo del lavoro, arrivata come una doccia fredda negli ultimi due anni insieme alla narrazione della crisi (prima la crisi c’era già, ma nessuno ne parlava) avverto una forte confusione rispetto ai propri desideri e una seria difficoltà nel riconoscere la propria motivazione intrinseca, il che rende oltremodo problematica la progettazione di sé.

Come la scuola possa occuparsi con successo di questo è per me un mistero: di fatto ogni istituto fornisce ai propri studenti percorsi di orientamento esistenziale e motivazionale, con il coinvolgimento di vari enti formativi pubblici; organizza progetti dedicati che selezionano i più bravi e motivati fin dalla quarta superiore (pratiche tipiche del Politecnico e degli Istituti di eccellenza) e in generale fornisce informazioni sulle attività di orientamento delle Università, sui vari ‘Open day’ e momenti di orientamento e presentazione dell’offerta formativa. Se interpellati, noi insegnanti oscilliamo grossolanamente tra un atteggiamento cinico-realistico e il sostegno alla motivazione personale.

 

Detto questo, continuo a pensare che se la scuola si proietta sull’università e l’università si proietta nel mondo del lavoro tutti rischiano di venire meno al compito di formazione che dovrebbero avere.

Le tendenze ad oggettivare, misurare e produrre percorsi standardizzati che caratterizza le istanze pedagogiche generali mal si conciliano con il tradizionalismo retorico nei contenuti e nelle forme, appena screziato di falsa innovazione, che i programmi ministeriali continuano a produrre nella scuola superiore. Si tratta di logiche insensate che non aiutano gli individui a crescere e autodeterminarsi ma promuovo un insegnamento inteso come addestramento a superare esami, con prove a trabocchetto. L’intero sistema è perverso nel momento in cui i voti contano poi realmente (anche se noi insistiamo che non si studia per il voto) e i test per l’ingresso ai corsi di laurea paiono inidonei alla selezione, per non dire assurdi e insensati, fondati sul nozionismo e sulla scelta multipla. Sotto la patina umanistica dell’“imparare a imparare” che innerva la mission dei nostri P.o.f. (il famigerato Piano di offerta formativa secondo la neolingua ministeriale), il movimento cognitivo paradossalmente insegnato avviene strategicamente attorno alla dicotomia ‘questo serve/non serve’, che i ragazzi colgono immediatamente nell’economia del loro tempo-studio. Mi capita spesso di venire interrotto durante la lezione da una mano alzata che chiede: “ma questo ce lo chiederà?”.

Lascio immaginare quanto questo sia avvilente per gli insegnanti, il cui obiettivo è costruire relazioni con soggetti in formazione attraverso la mediazione di contenuti intellettuali e insegnare qualcosa come la gratuità del sapere, se non la felicità della curiosità teoretica.

Recentemente abbiamo scritto nello Speciale adolescenza di come un appiattimento sul presente impedisca oggi di pensare al futuro: un presente che non include la scuola nella progettazione di sé.

Forse c’è stata un’overdose di aspettative rispetto alla formazione, poi costantemente tradite. Mi piacerebbe che contro l’ossessione del domani si potesse ridare il presente ai nostri studenti: non quello nichilo-edonista che ci lascia senza parole ma un presente in cui il vissuto scolastico abbia valore per le persone, indipendentemente dal lavoro, che della vita non è uno che degli aspetti.

 

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