Seconda parte / Nuove cartoline dai morti (II)

20 Marzo 2016

La signora che faceva la chemioterapia vicino a me leggeva sempre i fotoromanzi. 

Mi piacerebbe che qualcuno lo facesse sapere a Tonino, il carpentiere siciliano che lavorava con me in Svizzera. Non mi ricordo di che paese era e non mi ricordo neppure il cognome. Aveva i baffi e gli piacevano gli spaghetti col tonno.

 

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Tenevo la mia mano stretta nella sua. Lei guidava, mi stava portando in ospedale. Ci stavamo amando e ora io stavo morendo. Fuori pioveva, la pioggia bucava il vetro, arrivava ghiacciata sul mio petto.

 

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Nella tomba vicina alla mia c’è uno che ogni tanto fa un colpo di tosse.

 

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Lo sapevo che sarei morto a marzo. Lo avevo capito a ottobre che sarebbe stato il mio ultimo inverno. E ora sono qui senza cappotto, con un vestito elegante che non mi ero mai messo.

 

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Mia moglie ha aperto l’armadio e io ho chiuso gli occhi.

 

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Chi mi veniva a trovare sotto sotto sperava che io non guarissi, e così è stato.

 

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La malattia mi ha cambiato la faccia, me l’ha fatta più grossa. Sembrava che avessi due facce. Due giorni in ospedale e poi mi hanno rimandato a casa. Sognavo di morire nell’ambulanza. E invece sono rimasta altri tre mesi nel letto. Sono morta una sera di febbraio. Tirava un vento fortissimo. Sentivo che quel vento mi stava cercando, era venuto a portarmi via.

 

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Sono l’avvocato Pandiscia. Sono solo nella cappella di famiglia da più di trent'anni.

 

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Nel buio della bara le mani, una da un lato e una dall’altro. Non si toccheranno mai più.

 

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Non sarebbe male se qualcuno potesse accorciarmi i baffi nella foto sulla lapide.

 

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Erano venuti i parenti dalla Svizzera: antipasto, pasta al sugo, agnello al forno con le patate, frutta, e poi la Viennetta al caffè e l’infarto.

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Quando è arrivato il medico ho sentito le sue dita sul mio polso. Ha toccato l’ultima formica che passava nel mio sangue.

 

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Quando sono morto mia moglie stava cucinando i sofficini. 

 

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Lavoravo al comune. Facevo le vacanze a Vasto, in Abruzzo. Stavo giocando a carte con Gerardo Vigorita quello che si è fatto i soldi vendendo televisori e camerette per bambini.

 

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Davanti alla mia bara aperta nessuno parlava del morto, nessuno piangeva. A un certo punto mi è venuto uno sbadiglio.

 

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Ero andato a fare il piastrellista a Rimini perché non potevo più mantenere la mia BMW di seconda mano. Sono caduto dall’impalcatura in una mattina piena di nebbia. 

 

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Ridatemi un respiro, uno qualunque, un giovedì pomeriggio.

 

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Quel momento in cui finiscono le cure e ti portano all’ospedale del tuo paese. Sei in un posto tranquillo, stai mezzo addormentata, un po’ senti il dolore, un poco senti le parole di quelli che ti vengono a trovare. Non possono stare in silenzio, non sarebbe gentile, non possono parlarti della morte, sarebbe di cattivo augurio, e allora si mettono dire cose che ti possono anche fare uno strano effetto, tipo se parlano di telefonini, di macchine o del furto in una casa di una vecchia. Loro sanno che devi morire e lo sai anche tu, non si sa bene quando, potrebbe essere fra due mesi, fra due giorni, fra due ore. Io sono morta mentre mio figlio diceva a mio marito che doveva partire per Milano, la vita intorno ai morenti non si ferma più come accadeva una volta. Ora si ferma solo chi devi morire, solo tu non puoi progettare più niente. Io sono morta mentre l’infermiera mi chiedeva se volevo un poco di latte. Mio marito era appena tornato a casa, contento che avevo passato un’altra notte.

 

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Sono morto dal fruttivendolo. Avevo comprato le banane perché fanno abbassare la pressione

 

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Avevo appena preso un Moment. Anzi, due.

 

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Io stavo morendo e i medici parlavano di politica. Ho pisciato per l’ultima volta nella busta, poi ho fatto una tosse furiosa, ho sputato un pezzo di cuore sul fazzoletto.

 

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Se proprio lo volete sapere, Dio ha sempre una maglia nera, a collo alto.

 

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Mi avevano operato al cuore, mi stavo riprendendo, i medici mi avevano detto che fra qualche giorno sarei uscito. Intorno a me tutti stavano tranquilli, mi avevano pure dato la possibilità di parlare col telefonino, di riprendere un poco a lavorare. Sono morto mentre parlavo al telefono in un letto d’ospedale. Ho sentito il buio nella testa, è arrivato tutto assieme, c’è un buio nella testa, c’è un buio che è sempre con noi e che si apre all’improvviso, come se si aprisse una botola e ci cadi dentro e precipiti. Loro ti mettono al sicuro in una bara, ma invece tu stai ancora precipitando, stai ancora cadendo in questo pozzo sempre più buio, infinitamente buio.

Ogni giorno mi spuntava una ruga, non sapevo più dove metterle. Alla fine ero così stanca che non ce l’ho fatta a fare l’ultimo respiro.

 

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Sono morto una domenica pomeriggio ad Afragola. Mi chiamavo Mimmo, facevo il muratore.

 

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Eravamo così amici che io sono andato al suo funerale e lui è venuto al mio.

 

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L’ultima rabbia della mia vita mi è venuta pensando al medico che si prese trecento euro per dirmi che se fossi andato da lui un mese prima ce l'avrei fatta.

 

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La morte arriva per tutti ed è arrivata pure per me. È accaduto un giovedi mattina, verso le nove e mezza. Ero andato al bar a bere una birrra. Mi ero svegliato che mi sentivo un poco strano, ho pensato che la birra poteva farmi bene. Al bar non c’era tanta gente. Quando è arrivata l’ambulanza ero già morto. Se vi interessa vi dico che mi chiamavo Alfredo e che ero disoccupato. Vivevo con mia madre, mi occupavo del suo mal di cuore. Aveva quarantanove anni, avevo lavorato qualche anno in Svizzera, avevo una punto arancione. 

La neve, per esempio, è fatta con le nostre ciglia.

 

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Ogni tanto, di notte, vado nella bara di mia figlia. Mi stendo vicino a lei. Il buio ci tiene stretti.

 

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Cento miliardi di galassie. Cento miliardi di stelle nella nostra galassia. Tutta questa roba e io qui chiuso per sempre in una bara. 

 

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Avevo la sciatica, l’ernia al disco, la nevralgia del trigemino, la cataratta e l’ulcera al fegato, la claustrofobia. Dentro la bara mi è passato tutto. Eravamo due fratelli, Pinuccio e Tonino. Io ero Pinuccio e sono qui. Tonino è su una sedia a rotelle.

 

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Il medico mi diceva che non tenevo niente, ma quando sono andato l’ultima volta ha fatto una brutta faccia, mi ha pure rimproverato e mi ha detto che mi dovevo subito ricoverare in ospedale. Quando sono arrivato in ospedale pure lì hanno fatto una brutta faccia e allora ho capito che stavo messo male. Ho detto a mia moglie di avvisare la figlia che si è sposata a Torino e il ragazzo che fa il finanziere in Veneto. Al funerale è venuta molta gente anche se era brutto tempo. Il prete ha detto che ero un grande lavoratore. Mi chiamavo Gerardo. Avevo lavorato in Germania. Ero in pensione da un anno. Ero il presidente della squadra di calcio. Abitavo al paese nuovo in una casa di duecento metri quadrati. Stavo bene, avevo un po’ di soldi in banca e una bella vigna.

 

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Sono al buio dentro la bara, con l’aria che c’era quando l’hanno chiusa.

 

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Avevo il naso lungo e la bocca storta. Ora ho un fosso al centro della faccia. 

 

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Avevo tredici anni. Non muore quasi nessuno a tredici anni.

Mi era venuta una malattia rara. Mi avevano detto che in Italia solo cinque persone avevano questa malattia. Non è che questa malattia rara mi faceva stare tanto male, era più che altro un fastidio. Sono morto una decina di anni dopo di una malattia comune, un infarto.

Francamente dalla morte mi aspettavo qualcosa di più.

 

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Io facevo il camionista. Avevo appena comprato una Volvo V70 di seconda mano.Un tumore alle ossa. Mi è stato dentro per anni. I medici lo spingevano fuori e lui tornava. La fine della storia è arrivata una domenica sera alle otto. Respiravo col cuore fermo, ho respirato col cuore fermo, ho perfino detto qualcosa mentre ero già morto.

 

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E comunque quando sono morto mi sono accorto che fino a quel punto non mi era successo niente. La vita è solo paglia che brucia.

 

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Ero emigrato al Nord da Deliceto, un paese della Puglia. Sono morto a Vercelli o a Torino, non ricordo bene.

 

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Sono morto perché il maestro non mi mandò al gabinetto. Era il 1972. Ricordo benissimo quella mattina. L’odore di vino che arrivava dalle strade. Allora il paese aveva un odore preciso.

 

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Ho sentito dentro il seno qualcosa di duro come un’oliva. Il resto ve lo potete immaginare.

 

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Io sono il maestro Bellisario morto per un ictus un paio di mesi fa. Passeggiavo sempre con Vito Balascio. Mi hanno detto che oggi è morto pure lui.

Ero tornato al paese per il funerale di mia madre e dopo qualche mese sono morto pure io. Non pensavo di morire, in effetti avevo avuto solo un forte calo della vista.

 

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Sono morto davanti a Sky e a una polacca.

 

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Io e mia moglie ci siamo guardati negli occhi senza dirci nulla. Poi le ho detto che c’era da pagare l’abbonamento alla televisione.

 

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Sono morto alle cinque del mattino. Ho guardato alla finestra, ho visto un uccello su un pino. Un lampione si è spento. Un senso di neve fradicia nella testa. Poi più niente.

 

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Ci si deve sporcare per capire qualcosa della vita. Gli ultimi giorni mi sporcavo di merda, gli ultimi giorni finalmente stavo capendo qualcosa.

 

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A vedere i miei occhi annacquati si capiva che dovevo morire. Mi hanno portato al matrimonio di mia nipote.  Il vestito nero era così bello che me lo hanno lasciato addosso per la bara.

 

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La puzza arriva quando ti fermi, quando chiudi la tua vita in una scatola di scarpe. Morire è stato brutto, ma almeno mi ha liberato dalla puzza.

 

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Ho due lapidi: una al cimitero e l’altra in una curva davanti a un platano.

 

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Quando arrivi verso i cinquant’anni conosci quasi tutte le persone che muoiono. Ogni tanto pensi che prima o poi arriverà anche il tuo momento, ma sono pensieri che durano poco. Io facevo un sacco di cose, ero il presidente della squadra di calcio, avevo una ditta di movimento terra, mi ero appena comprato una casa a Roma perché mia figlia voleva fare medicina a Roma. L’altro figlio lavorava con me. Mia moglie aveva un poco di esaurimento nervoso che le era venuto dopo la menopausa. Avevo un fratello che aveva avuto un infarto quando non aveva neppure trent’anni. A questa cosa ci pensavo ogni tanto e mi andavo a fare i controlli al cuore. In uno di questi controlli il cardiologo mi ha detto che dovevo farmi degli accertamenti. Mi ha mandato a Modena. Lì appena sono arrivato mi hanno subito messo sotto i ferri. Sono morto durante l’operazione. 

Ho detto agli altri morti di farci vicini, non ha senso stare pure qui ognuno per conto suo.

 

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Ho solo una cugina. Ogni tanto mi porta i fiori gialli, quelli su cui pisciano i cani.

 

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La lucertola che prende il sole sulla mia lapide.

 

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La cenere, finalmente!

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