Perché festeggiare "Necrologhi"

11 Febbraio 2016

Prima di parlare del libro di Maria Nadotti (Necrologhi - saggio sull'arte del consumo, Il Saggiatore) e della sua importanza, stabiliamo il campo.

 

Gli uomini di lettere oggi non sanno niente della pubblicità. Non la studiano, non la annoverano tra i fenomeni d'interesse. Costoro si occupano volentieri di cinema, tv, giornalismo, design, fumetti, raccolte di figurine e di ogni altro linguaggio della modernità, ma quello della pubblicità rimane loro estraneo e lo lasciano volentieri allo studioso settoriale. Come dire che non è adatto a un discorso collettivo, dunque politico.

 

La crepa di questo distacco si è aperta nel tempo e inesorabilmente. La progressiva scomparsa dell'Italia industriale (Gallino) oggi ha separato gli intellettuali dal mondo della produzione e dai suoi linguaggi. Eppure nel 1961 un editore come Giangiacomo Feltrinelli presentava "La pubblicità" di Walter Taplin descrivendo luoghi comuni che sembravano sul punto di essere superati: "Uno studio senza divagazioni moralistiche sulla pubblicità come fenomeno tipico dell'economia moderna (...) un fenomeno-chiave della società contemporanea su cui tutti quanti son pronti a straparlare. Questo libro non si compiace di descrivere i pubblicitari come maghi o bari della psicologia di massa, ma conduce un ragionamento serrato misurandosi con i fatti – e con le teorie degli economisti, che sinora, non diversamente dall'uomo comune, hanno parlato della pubblicità in termini superficiali".

 

C'è nel nostro passato una relazione tra intellettuali e linguaggio delle merci. Il primo in Italia a parlare di umanesimo pubblicitario, cioè della necessità di un linguaggio alternativo alla "pubblicità autoritaria" fu Vittorini nel 1939. Anni nei quali era concepibile per l'uomo di lettere entrare nel mondo della produzione, cercare un rapporto tra l'oggetto fabbricato e le mani dell'uomo che lo realizzavano. A quel punto diventava naturale soffermarsi sul linguaggio pubblicitario, che del processo produttivo era la fase conclusiva. Olmi nel 1969 entra in un'agenzia pubblicitaria di Milano, non la guarda da fuori: la studia e ne trae il più informato e profondo film italiano su quell'ambiente professionale, Un certo giorno.

 

Non si trattava di artisti che citavano la pubblicità o erano pagati per farla artisticamente ma dell'idea secondo la quale sotto la patina quotidiana di quel linguaggio potesse trovarsi altro: nuove possibilità, inedite forme di comunicazione, forse anche imprevedibili possibilità democratiche. È ciò che di positivo Pasolini intravide nello slogan dei Jeans Jesus (1975): la nascita di un linguaggio espressivo, infinitamente interpretabile, capace di contraddire la fissità della produzione. Quello slogan così prepotente e atipico forse annunciava, scrisse, qualcosa di impensato, forse il futuro che a noi religiosi e umanisti appare come fissazione e morte, sarà in un modo nuovo, storia.

 

Di lì in poi, i cicli produttivi diventano opachi e inafferrabili. Si spezza un legame tra gli uomini di lettere e il moderno. La pubblicità perde il suo ruolo nel processo materiale, diventa un'apparizione fantasmatica e per gli intellettuali inizia un'epoca di ricezione distratta. La pubblicità – si dice – come fatto di costume. Non a caso nel 1994 Vanni Codeluppi intitola La sfida della pubblicità un'antologia delle non molte riflessioni colte sul tema. Stupisce soprattutto – scrive – che la pubblicità sia stata scarsamente analizzata dagli intellettuali proprio per il ruolo sociale che svolge. Una sfida non più raccolta.

 

Ora viviamo, direbbe Churchill, in un periodo di conseguenze. Mentre il linguaggio pubblicitario dilaga, occupando nella vita pubblica uno spazio senza precedenti e giungendo fino ai video di Isis, l'intellettuale assiste ammutolito. Anche volendo, come potrebbe interpretare per noi questa trasformazione? Egli non dispone di analisi mature, consapevoli, informate, soprattutto davanti a un linguaggio che ormai sfugge agli esperti e non è più semplicemente leggibile come puro segno. Inoltre nel frattempo comunicazione, consumismo – e anche pubblicità – così per come li intendiamo, potrebbero essere termini che appartengono a una fase dello sviluppo capitalistico ormai passata. Vecchi strumenti, che danno più problemi che soluzioni.

 

Viviamo semmai in un "nuovo linguaggio pubblico" – del quale la pubblicità è struttura portante – che accomuna politica, arte, informazione, merci, media. Qualcosa di cui Bernbach aveva intuito l'esordio e che con la rivista Bill cerchiamo di cogliere. È chiaro però che tutto ciò attende una nuova materia di studio capace di coglierne i nessi, ma anche di realizzare una conoscenza profonda del linguaggio pubblicitario – il quale non coincide con il capitalismo – studiandone storia, estetica, autori, scuole nazionali, insomma il valore oltre che il funzionamento. Così come latino e greco sono indispensabili alla conoscenza umanistica, il linguaggio pubblicitario è cruciale per la comprensione di questo nuovo linguaggio pubblico. Nell'attesa, viviamo in una condizione di semi-impotenza intellettuale, a causa di una sottovalutazione che, scrive Coccia, rischia di rendere inintellegibile una buona fetta della realtà culturale del presente (Allegoria n. 68).

 

Finché mancheranno interpretazioni che aiutino a comprendere il fenomeno, la sua pervasività continuerà a spaventare, a creare mostri. In fin dei conti, persino il trionfo di Renzi alle primarie PD perché "bravo a comunicare", e la sproporzionata enfasi su questa qualità salvifica (Angela Merkel è forse un asso dei talk show?) è frutto di inadeguatezza culturale, della fretta di mettersi a pari con il mistero dei media. Allo stesso modo, molti intellettuali sono sbrigativi nel liquidare la rozzezza della réclame. Tuttavia, c'è qualcuno tra loro che per il proprio libro rifiuti una campagna pubblicitaria con propaganda da cavernicoli del tipo "il nuovo imperdibile capolavoro di..."? Non è semplice opportunismo. È improntitudine. Affrontata senza consapevolezza, qualunque contraddizione diventa un rebus.

 

Certo, anche se disdegna di occuparsene, l'industria culturale vive all'ombra della pubblicità, nella speranza di trarne sostentamento. Si crea una soggezione di fatto, che rende necessario girarle intellettualmente al largo, insomma far finta di niente. Uno sguardo distratto diventa quasi indispensabile. Quello sul linguaggio pubblicitario – uno dei veri possibili discorsi critici del nostro tempo – si riduce così all'argomentazione più modesta, marginale per eccellenza, ossia il moralismo. La pubblicità cioè può solo essere affrontata con lo scandalo, il biasimo, la censura: insomma con una cultura utile soltanto a difenderci dal mondo, non a capirlo. Tantomeno a trasformarlo.

 

In questo stallo è da festeggiare l'uscita di Necrologhi, il libro di Maria Nadotti nato intorno alla cosiddetta pubblicità sessista. Perché, come già fece nel 2014 "Il bene nelle cose" di Emanuele Coccia per parte filosofica, la cultura italiana torna ad accorgersi della pubblicità e di come ci riguardi. Sono testi che in modi diversi abbandonano la lunga età della distrazione, forse altrettanti capitoli iniziali di una nuova stagione intellettuale. Quella di una riflessione sul linguaggio pubblicitario finalmente diffusa ai diversi saperi, adeguata, contemporanea, che arriva proprio dall'Italia – paese che più di altri negli anni passati ha assorbito pubblicità in dosi da cavallo.

 

Nadotti analizza l'incontro tra pubblicità e sesso, ovvero il piatto più ricco e aggrovigliato di luoghi comuni, malintesi ed effetti perversi. Sbriga subito i conti con ideologie inservibili, ma dedica pagine entusiasmanti al moralismo che in questi anni e proprio su questi temi ha fatto parecchie vittime: non soltanto tra commentatori e raccoglitori di firme ma anche tra i politici, nelle istituzioni e persino tra gli stessi pubblicitari. Tutti bene intenzionati, ci mancherebbe. Tuttavia come definire il regolamento sulla pubblicità del comune di Milano scritto – si legge – a tutela di una sessualità normale? O la presidente della Camera quando dichiara che la pubblicità può spingere alla violenza (il passo è breve)?

 

Sono germi di un pensiero inquisitorio – la pubblicità, testo proibito, entra nell'uomo e lo agisce, deviandolo dalla norma – travestiti da buon senso. Anche il generico cittadino-consumatore-vigilante evocato dall'Istituto Autodisciplina Pubblicitaria, con il suo invito a denunciare la pubblicità che sbaglia non convince Nadotti: chi è il cliente che ha sempre ragione? Chi è il soggetto sensibile all'offesa, alla falsità, alla violenza, alla volgarità? Io, tu, noi, voi, loro? Né, si può aggiungere, è convincente il compitino progressista che ogni campagna pubblicitaria sarebbe invece tenuta a svolgere, poiché tra il può e il deve ci passa tutta la libertà espressiva del mondo. Tutto sommato, anche risultare sgradevoli rientra tra i diritti inalienabili: quello di non intonarsi al correttissimo gusto altrui.

 

Nadotti dimostra che è possibile scrivere intorno a questo tema senza impalcarsi a salvatori della patria decenza, anzi chiedendosi quale sia il legame profondo tra quelle immagini e noi. Ogni censore vuole cancellare anzitutto le proprie, di tracce: Allorché affiliamo le spade e andiamo alla crociata, lo facciamo per bonificare il campo dalla cosa che abbiamo davanti agli occhi o da qualcosa che è dentro di noi e che a essa si associa?

Crociate poi che non andrebbero certo intraprese con i politici, i quali – ricordiamolo, non si sa mai – per statuto si occupano di intervenire sulla realtà e non sulla sua rappresentazione.

 

Sbarrando ogni accesso ai mantra consolatori che ne impediscono una visione lucida, si torna dunque a guardare la pubblicità. Allora sbucano dalla nebbia i protagonisti attuali – per i quali Nadotti inventa una parola, Necrologhi – ossia le icone dei marchi diventate quasi avvisi di morte. Sono quasi tutte campagne fashion, con corpi senza vita apparente, di modelli e modelle esangui, estrema conseguenza visiva della pulsione di morte insita nell'accumulo liberista e nel desiderio morboso di liquidità (Keynes). Quante volte nella storia della pubblicità si è presentato questo snodo tra merce e morte. Lo stesso termine slogan, scrive Canetti, deriva da sluagh-ghairm, un'antica parola gaelica che significa il grido di battaglia dei morti. I popoli delle Highlands ne avvertivano la presenza di esercito dolente, perennemente in guerra.

 

Uno dei claim più celebri del novecento –– il Just do it di Nike, in apparenza un vitalistico invito all'azione – fu ispirato dalla notizia di un condannato a morte che esclamando Let's do it aveva invitato il suo boia a velocizzare l'esecuzione. Riecheggia qui l'invenzione di Majakovskij, che fu copy pubblicitario a sua volta: un uomo ingaggiato per gridare "Bevete Cacao Von Houten!" al momento della decapitazione, in cambio di soldi per la famiglia. In quella testa che rotola dicendo lo slogan c'è una geometrica somiglianza con Isis, i cui ostaggi prima d'essere decapitati davanti alla telecamera sono costretti a pronunciare parole di propaganda.

 

Gary Gilmore mentre viene portato all'esecuzione capitale per fucilazione nel 1977. In questa circostanza disse la celebre frase "Let's do it", ripresa in seguito dalla Nike per il suo slogan

 

Anche il terrorismo del resto si colloca nel nuovo linguaggio pubblico – Moravia dichiarò che le BR agivano come un'agenzia pubblicitaria – e utilizza quindi la pubblicità come suo fondamento. In quest'alternanza di vivi e morti persino Bernbach, nella prima campagna sociale della storia, trattò di cadaveri. Il cliente era l'azienda di carburanti Mobil: il grande mad man li convinse a parlare di sicurezza stradale. Con il più schietto realismo la campagna mostrava un'auto schiantatasi contro un palo e un titolo più che esplicito "Perdiamo troppi clienti in questo modo", mentre un claim concludeva l'annuncio dicendo We want you to live. Era il 1966. La pubblicità metteva il naso fuori dal supermercato e lo faceva in grande, affrontando la morte e la vita, in altre parole alzando la posta del dicibile.

 

Oggi pubblicità di morte (ancora Moravia) è gran parte di quello che vediamo, non solo il terrorismo, come ci suggerisce Necrologhi. Alcune bellissime pagine di questo libro consistono, infatti, proprio nell'accostamento silenzioso tra le immagini luttuose della cronaca e quelle pubblicitarie, rintracciando tra di esse somiglianze profonde quanto evidenti, da Abu Ghraib a Dolce&Gabbana, dai profughi ai fotomodelli. Questa circolarità tra merci e corpi, tra mutande di marca e tragedia umana – che ci sconcerta, certo – dimostra però nel modo più plastico la natura complessiva e avvolgente del fenomeno in corso. E sono proprio queste gallery a metterne in scena l'ampio raggio.

 

Come già fece Erving Goffmann in Gender Advertisementes (1979, l'edizione italiana è uscita nel 2015 a cura di Angelo Romeo per Mimesis) o, ancora con altri modi, John Berger in Ways of Seeing nel 1972 (in Italia, Questione di Sguardi, Il Saggiatore, a cura di Maria Nadotti), lo strumento razionale delle parole fa posto alle immagini, che servono a pensare di più. Libri nei quali visione della pubblicità viene ricollocata, associata ad altre figure, disposta sulle pagine bianche perché si possa osservarla nel modo più completo.

 

Necrologhi è una nuova scuola dello sguardo. Davanti ai suoi incontri figurativi, diventa evidente come il distogliere lo sguardo sia ormai il nostro passato. La distrazione è la storia da cui veniamo: una condizione non più riproponibile nel tempo presente. La sola urgenza è imparare a guardare la realtà per quello che è.

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