(Cicerone, De Officiis, quel che è giusto fare.) / L'etica spiegata a mio figlio

28 Novembre 2019

Cicerone. Un nome così famoso da esser diventato sinonimo di guida (ancorché turistica), sulla base di quel procedimento noto come antonomasia – e tuttavia non ha mai goduto di buona stampa, Cicerone.

A cominciare dai suoi contemporanei.

Per Catullo, che gli dedicò un bigliettino grondante d’ironica riconoscenza, era “optimus omnium patronus”, complimento ambiguo, dato che può significare sia “il migliore di tutti gli avvocati”, ma anche, e forse più, “il migliore avvocato di tutti”, nel senso che qualunque cliente era buono per lui.

Per Virgilio poi era uomo di “ventosa lingua” e di “fugaces pedes”, ossia molto verboso ma poco coraggioso e lesto nel darsela a gambe, se è vero che va identificato nel personaggio di Drances, influente membro del concilium dei Latini che compare unicamente nel libro undicesimo dell’Eneide. (Che sotto le spoglie di Drance si celi in realtà Cicerone è dato molto discusso, ma Ettore Paratore nel suo commento inclina a credervi.)

 

Per il fondatore della moderna storiografia romana, il celebre Mommsen, il nostro autore era niente meno che “un giornalista, nel senso peggiore del termine”.

Eppure un poeta antico, vissuto un centinaio di anni dopo di lui, Giovenale, riconobbe che fu proprio la sua rigogliosa eloquenza a consegnarlo nelle mani della morte (“largus et exundans leto dedit ingenii fons”). Non fu solo un chiacchierone opportunista, dunque, ma uno di quei pochi che pagò davvero cara la propria libertà di parola e indipendenza di giudizio.

A queste riflessioni siamo indotti dalla recentissima ristampa dell’ultimo trattato filosofico scritto da Cicerone, di cui quest’edizione, a cura di Giusto Picone e Rosa Rita Marchese (Einaudi), mantiene il titolo originale De officiis, aggiungendovi opportunamente il sottotitolo “quel che è giusto fare”, mentre di solito le altre, correnti, traducono con il semplice e tradizionale “I doveri” o, anche, “Dei doveri”.

E già su questa parola officium ci si potrebbe distendere a lungo, dati i suoi molti significati, non solo “dovere”, ma anche “obbligo”, “impegno”, “fedeltà”, “servigio”, “favore” eccetera. L’Ernout-Meillet (il dizionario etimologico latino ancor oggi più usato) dice che il senso originario (da *op(i)fici-om) è quello di “travail, exécution d’une tâche, ou tâche à executer”, esecuzione d’un compito o compito da eseguire. Il bello è che lo stesso Cicerone intavola, nell’autunno del 44 a.C., una discussione epistolare con il suo grande amico e confidente Attico proprio sulla legittimità dell’uso di questa parola officium. Attico non era d’accordo che la si usasse per tradurre il greco kathêkon. Infatti Cicerone si basa su un trattato per noi perduto di Panezio, filosofo stoico che di questo si occupava, il kathêkon, cioè il dovere medio, comune, mentre il dovere perfetto si chiamava katòrthoma, ed era appannaggio solo del sapiente.

Alle obiezioni di Attico, Cicerone risponde: “non è forse vero che noi diciamo consulum officium, senatus officium, imperatoris officium (dovere del console, del senato, del comandante)? Non c’è un termine più adatto. O se c’è dimmelo tu”.

 

Attico tacque, evidentemente non c’era niente di meglio che officium.

Il destinatario di questo trattato sui doveri, o su ciò ch’è giusto fare, è Marco, il figlio di Cicerone, che, al momento, si trovava ad Atene, ad ascoltare le lezioni del peripatetico Cratippo.

Possiamo quindi dire, come i curatori dell’opera, che questa si presenta come una sorta di Etica spiegata a mio figlio, dove è chiaro che il figlio rappresenta simbolicamente tutta la giovane generazione romana, alla quale Cicerone affida una sorta di testamento spirituale e, nel contempo, la speranza che lo Stato, prossimo alla rovina definitiva, possa rinascere, su rinnovate basi morali.

Forse anche per questo il De officiis non è un dialogo, come le altre opere filosofiche ciceroniane, dove sono messe in scena attraverso vari personaggi varie posizioni e tesi alternative, ma un testo dove risuona solo la sua voce, con una certa sfumatura dogmatica e addirittura imperiosa. La voce di chi sente di aver poco tempo, per sé stesso e per la collettività nel suo insieme.

Sulla base di Panezio, e del suo discepolo Posidionio, Cicerone divide la materia in tre libri. Il primo tratta dell’honestum, il secondo dell’utile, il terzo del conflitto tra honestum e utile.

 

 

Le traduzioni correnti di solito rendono honestum con “l’onesto”, questa di Picone e Marchese, elegantemente, sceglie “la moralità” o “ciò ch’è morale”. Sapienza, giustizia, fortezza, temperanza sono le quattro virtù stoiche in cui si articola “il comportamento pienamente morale”. Ma noi non seguiremo passo passo lo sviluppo di queste partizioni, anche perché non lo segue nemmeno Cicerone stesso, il quale, preso dalla foga del suo argomentare, a volte si ripete, accavalla e mescola i temi. Infatti quest’opera, dato che le è mancata l’ultima mano, si presenta meno accurata, meno “leccata”, rispetto al solito. Abbondano le parentesi quadre, a racchiudere porzioni testuali che non si sa se siano interpolazioni di copisti o versioni parallele dell’autore stesso, che non è poi riuscito a correggere in via definitiva.

Un elemento su cui i curatori insistono giustamente è la nozione di decorum esplicitata nel primo libro, ma il cui senso si riverbera un po’ in tutta l’opera. È anch’essa derivata dal greco e da Panezio. Corrisponde a prépon, un termine che nel filosofo stoico valeva come “conveniente”. Ma tale termine non è certo un’invenzione paneziana, semmai un’estensione. È in effetti parola corrente nell’ambito della retorica e della teoria dell’arte antica. Il filosofo stoico ne amplia l’ambito d’applicazione usandolo anche per la morale. Cicerone si era soffermato già sul prépon e sull’omologo decorum nell’Orator di due anni prima. L’oratore rispetta il decorum, quid decet o quid deceat, quando il suo discorso è ben armonizzato nelle sue parti fondamentali e nessuna deborda rispetto all’altra e, soprattutto, quando è adatto all’uditorio. Non c’è uno stile oratorio buono in assoluto, esso si deve plasmare sulle attese di chi lo ascolta. Per conquistare il suo pubblico l’oratore vi si deve conformare camaleonticamente. E ciò non diversamente accade per l’etica. I comportamenti non sono giusti o sbagliati in sé: dipende dall’occasione, dalle svariate circostanze in cui si opera. Allorché Sofocle attirò l’attenzione di Pericle, stratega come lui, sulle grazie di un fanciullo, il politico redarguì il poeta dicendogli: a uno stratega si addice non solo tenere a posto le mani, ma anche gli occhi (“decet non solum manus sed etiam oculos abstinentes habere”). [Incidentalmente osserviamo che Cicerone latinizza la strategia in praetura]. Se Sofocle avesse espresso il suo apprezzamento nel corso di una parata di atleti, data l’occasione, non sarebbe incappato nel rimprovero pericleo.

 

Siamo colpiti da questa sorta di estetizzazione della morale, non solo dalla sua palese relativizzazione.

Su questa strada ancor più colpisce la “teoria delle personae”, sempre in questo primo libro, ma con ripercussioni negli altri due. Ognuno di noi, sostiene Cicerone, ha varie maschere (“personae”, appunto). Una comune a tutti, quella che ci mette addosso la natura. L’altra, specifica dei caratteri individuali. Un’altra ancora è quella che ci impone la sorte (“fortuna”) e la quarta è quella che ci scegliamo noi, per recitare la nostra parte sulla scena del mondo. Dobbiamo quindi conseguentemente prendere a modello per le nostre azioni gli attori (“scaenici”), i quali non selezionano per se stessi i drammi migliori, ma quelli più adatti alle loro qualità, vocali e gestuali. Sorprende un po’ questo pirandellismo ante litteram.

Il decorum ci impone comunque di sorvegliare ogni nostro movimento, ogni nostro comportamento. Anche lo sguardo, le sopracciglia, il modo di parlare, il tono della voce. Cicerone pare a volte anticipare la minuziosa casistica di certi famosi trattatisti rinascimentali, il Castiglione o, ancor più, il Della Casa.

Così come poi abbozza una vera e propria teoria della beneficienza. Se sia meglio beneficare con il denaro o con le opere; se si debba considerare, del beneficando, lo stato patrimoniale o il suo modo di essere; se si debba beneficare chi può restituire il beneficio o meno e così via.

 

Abbastanza normale in una società fondata sui rapporti di clientela e di patronato.

Quanto all’utile e al suo conflitto con l’onesto o, se si vuole, al contrasto tra morale e utilitarismo, va detto questo: Cicerone, sia nel secondo che nel terzo libro batte e ribatte su un concetto cardine, quasi un’ossessione per lui, e cioè che l’utile è morale e il morale è l’utile. Non c’è né frizione né attrito tra i due. Sono la stessa cosa. Se un uomo si comporta in modo morale, le sue azioni saranno anche utili. E se agisce per l’utilità, l’utilità vera, che è quella collettiva riguardante l’intera umanità, sarà senz’altro sempre morale.

Esempio luminoso in tal senso è quello di Attilio Regolo. Non a caso presente sia nel primo che nel terzo libro, quasi a comporre una figura circolare (Ringkomposition) del testo, oltre che una autentica “figura di ricordo” nel senso di J. Assmann, uno di quei personaggi attorno a cui finisce per coagularsi l’identità di un gruppo sociale intero.

Si sa che il console Attilio Regolo, fatto prigioniero dai Cartaginesi nel corso della prima guerra punica, fu rimandato a Roma per trattare la pace sotto giuramento che sarebbe ritornato a Cartagine se non l’avesse ottenuta. Regolo a Roma parlò contro la pace, tornò a Cartagine dove andò incontro, perfettamente consapevole, a morte atroce.

Benché oggetto di forti critiche già da parte dei suoi contemporanei e ancor di più da parte dei contemporanei di Cicerone, Regolo, dato che reputò utile per la patria la continuazione della guerra, si comportò in modo morale, e anche utile, dato che la sua utilità individuale ricadeva nell’ambito di quella collettiva, dell’intero Stato. Il suo comportamento fu utile e onesto, come sempre (“quia utile, honestum, sed, quia honestum, utile”).

 

Probabilmente dev’esser stato questo aspetto, questa ferrea identità e reversibilità tra onesto e utile (o morale e utile) ad affascinare i molti appassionati lettori del De Officiis, tra cui i santi Ambrogio e Tommaso d’Aquino. Noi, più maliziosi lettori moderni, a volte abbiamo quasi la tentazione di farne una lettura in negativo. Quando scorriamo la lista dei comportamenti ingannevoli biasimati senza appello da Cicerone, ci capita di chiederci: e se fosse oggi questo il vero senso dell’opera? Ossia mostrarci, col pretesto di emendarle, tutta una serie di porcherie effettuali dei Romani antichi, come vendere case pestilenti a ignari compratori o vino divenuto aceto o animali moribondi o schiavi inutilizzabili; del resto già il quesito che ci si pone nel capitolo 23 del terzo libro, sulla scorta di uno analogo di Ecatone (ossia: vale di più la perdita di un cavallo prezioso o di uno schiavo di scarso valore?), non ci pare molto morale, quanto istruttivo del carattere fondamentale di una società.

 

Del resto noi veniamo dopo Gadda, che nel famoso racconto San Giorgio in casa Brocchi massacrò a sufficienza sia Cicerone sia il suo ultimo trattato, con i sali di una satira senza appello.

Se poi ci si domanda: e Marco, il figlio di Cicerone, destinatario e dedicatario dell’opera, che fine ha fatto? Gli è servito sul serio il De officiis? Non a molto, se è vero, com’è vero, che la sua fu una vita tremendamente dissipata. Gaston Boissier ci ricorda che la sola fama di cui poté menar vanto fu quella d’essere il più gran bevitore del suo tempo. Riuscì a battere, in questo, persino Antonio, maestro di gozzoviglie (oltre che mandante dell’omicidio del padre). Povero Cicerone!

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