Porto, orto e arte / Reimmaginare Palermo, ricodificare Manifesta
Molti confidano che Manifesta cambierà Palermo, e io tra questi, ma sono invece certo che già Palermo ha cambiato Manifesta. E la micro-storia delle relazioni tra Palermo e Manifesta può dare indicazioni preziose ad altre città che scelgano la strada di un diverso presente fondato sull’arte, sulla cultura e sulla creatività, sulla partecipazione e sul welfare culturale, sulla rigenerazione urbana e umana. Perché Manifesta 12 a Palermo è un utile laboratorio per sperimentare la improrogabile territorializzazione delle politiche culturali e creative.
L’incontro con Palermo, ormai due anni fa, ha cambiato Manifesta facendole compiere una metamorfosi di cui le persone e la cultura locale sono stati i catalizzatori. La relazione di Manifesta con Palermo – con il Comune e l’Università, con gli studiosi e i giovani talenti, con gli artisti e gli attivisti, con le associazioni e i cittadini – è stata dirompente per una Biennale innovativa come quella inventata da Hedwig Fijen ventiquattro anni fa e che ha fatto del nomadismo e della fluidità la sua cifra politica e sociale, prima che artistica. Approdando nella fluidità plurale, creativa, conflittuale, policroma di Palermo ne è rimasta sedotta e ne ha tratto l’occasione per rivedere sia la visione che la modalità di relazione con la città ospite: utile indirizzo per altri eventi culturali nomadi. Non è stato ridotto il nomadismo, ma ne è cambiato il carattere: si è fatto urbano. Non è più la leggerezza del passaggio temporaneo alla ricerca di nuova energia la spinta che ne guida il cammino, ma vi è la disponibilità di arare il terreno e seminarlo per far germogliare frutti che rendano rigogliosa la città. Manifesta – sineddoche di altre iniziative artistiche urbane – non ha più la neutralità dell’innesto di arte contemporanea ma ha la responsabilità dell’innesco di processi evolutivi generati dall’arte contemporanea.
Con le sue numerose installazioni e performance articolate lungo un’ampia geografia urbana, il godimento di Manifesta 12 richiede un approccio triplice: da un lato le opere d’arte stimolano una riflessione critica e militante sui problemi del cambiamento climatico, delle migrazioni, del controllo e dei diritti, dall’altro lato i luoghi prescelti, alcuni aperti al pubblico per la prima volta, reclamano attenzione e accendono lo stupore per la loro bellezza dolente ma ancora vitale, infine la città si fa coprotagonista della nostra meraviglia mostrandosi da improvvisi oculi, completando spesso il senso delle opere con l’evidenza di una città che vive sulla pelle della comunità e sulle pietre degli edifici i temi della Biennale. Così Manifesta si fa un po' meno aerea e più tettonica, genera bradisismi delle comunità con cui entra in contatto, agisce come catalizzatore evidente nel suo manifestarsi, disposto a sparire una volta che la catalisi abbia generato una nuova sostanza urbana, culturale, sociale, economica e, perché no, politica. Sì, perché politica è questa nuova vita di Manifesta che nasce dai lombi materni di Palermo, tra Santa Rosalia e San Benedetto il Moro.
E che una nuova etica abbia animato Hedwig Fijen e il Board, e poi la Fondazione Manifesta 12, è evidente nel primo atto della Biennale: iniziare, fin dall’anno precedente, il percorso curatoriale con uno studio urbano affidato ad OMA e in particolare alla sensibilità, rispetto e creatività di Ippolito Pestellini Laparelli e del team dei creative mediator composto, oltre che dallo stesso Pestellini, da Bregtje van der Hawk, Andrés Jaque e Mirjam Varadinis. E il primo esito di quasi sei mesi di intenso percorso della città, di archeologia delle sue comunità e di interpretazione delle diversità è stato il Palermo Atlas. Un atlante che racconta, senza pretese di esaustività ma con stimoli di complessità, le molte Palermo che oggi convivono in un profondo palinsesto di valori e visioni e in un intricato reticolo di spazi percepiti, di spazi concepiti e di spazi vissuti, tutti insieme costituenti quella eterotopia di spazio e società che è sempre stata Palermo. Uno «strumento di sviluppo sostenibile per guidare e radicare l’eredità di Manifesta 12 per i prossimi anni», lo definisce Hedwig Fijen.
Un iper-atlante mi piace definirlo, un atlante di atlanti, un racconto di racconti, una mappa di mappe, un ritratto di persone e di spazi, una quadreria di architetture e paesaggi. Ippolito Pestellini lo dichiara espressamente nella sua introduzione: «non c’è un solo modo per avvicinarsi a Palermo, perché la città non può essere ridotta ad una singola identità o a definizioni precise: essa è un vitale e dinamico mosaico di frammenti e identità che emergono dal palinsesto di incontri e scambi di culture differenti che hanno reso intrinsecamente cosmopolita e sincretica la città. Più che una città, Palermo è lo snodo di una geografia allargata di flussi […], un laboratorio di impollinazione incrociata e un incubatore di condizioni globali. Palermo è paradigma del mondo nuovo».
Iniziare il progetto curatoriale di una Biennale di arte contemporanea con uno studio urbano non vuol dire solo che è mutata la visione e la missione dell’evento, ma vuol dire anche accettare la sfida di compromettersi con la complessa transizione di una città verso la contemporaneità, accettare la battaglia di contribuire a realizzare un futuro possibile.
Manifesta rivela Palermo come Giardino Planetario, un «arcipelago del globale, non una città globalizzata, quanto piuttosto un incubatore di differenti condizioni globali che fanno della città l’affresco più seducente e potente dell’Europa e del Mediterraneo», una città di incompiute e mai realizzate, ma anche di culti e culture, una epifania quotidiana di bellezza archeologica, architettonica e artistica, ma anche uno scrigno dell’immaginario visivo e cinematografico mondiale. L’Atlante è una fonte preziosa per la città, di conoscenza e di ispirazione, di analisi e denuncia. Ma lo è soprattutto per me, urbanista impegnato da anni a capire, progettare e trasformare la città. E non perché vi trovi informazioni che non conoscevo – sì, ci sono anche quelle – ma perché il Palermo Atlas è una potente macchina della verità, ci rivela Palermo attraverso le sue ricchezze e contraddizioni, ci mostra luoghi in ripresa ma anche comunità in attesa, ci mostra come eravamo nel passato e come saremmo in un differente presente capace di attivare un diverso futuro possibile. Dobbiamo vedere con occhi nuovi la bellezza e la ricchezza quotidiana che ci circondano e che abbiamo la responsabilità di arricchire e tramandare: talenti all’opera, scuole di resistenza, paesaggi resilienti, dismissioni creative punteggiano la città offrendo a noi urbanisti, e non solo, potenti punti appoggio per una ascensione senza inutili orpelli, usando mente e mano, verso il nuovo livello di una Palermo che si manifesta.
L’Atlante è ricco di mappe e dati, di immagini e diagrammi, e ogni volta che lo sfogliate vi svela nuove indicazioni, come se ogni volta che lo chiudete il Genio di Palermo si divertisse a spostare le pagine e ad aggiungerne di nuove. Manifesta ci stimola a progettare Palermo lavorando sull’identità senza annullare le differenze, trovando nuovi equilibri ma anche più solide equità, immaginando armonie senza cadere nell’omologazione, riconnettendo le parti diversificandole. Genera progetti che indaghino Palermo come centro di produzione culturale, e la sua relazione con gli eventi culturali, che modellino la natura urbana come modello per lo sviluppo di nuove forme di coesistenza, che governino il ruolo dell’innovazione digitale e sociale nella progettazione delle città resilienti. Per esplorare il progetto di futuro fondato sul diverso presente è stato lanciato nell’ottobre 2017 il progetto Manifesta 12 Studios, curato da Ippolito Pestellini Laparelli e da me, che mette insieme in un’unica piattaforma quattro centri di ricerca di architettura (Palermo Lab dell’Università degli Studi di Palermo, AA Museum Lab dell’Architectural Association School of Architecture di Londra, Complex Project della Delft University of Technology e ADS8 del Royal College of Art di Londra). Gli esiti dei lavori degli studenti, dei tutor e dei mentor (circa 400 persone a cui si aggiunge il centinaio di soggetti locali coinvolti) sono esposti nella mostra omonima allestita all’ex mulino di Sant’Antonino.
La domanda che attraversa Manifesta è: come progettare il futuro di una città contemporanea che ha fatto della coesistenza, dell’ibridazione e della molteplicità il suo carattere distintivo? E questa domanda ci obbliga a una risposta non consuetudinaria. Palermo deve tornare ad essere una città che guarda al Mediterraneo e al Mondo, ai flussi e alle reti che ci attraversano, essere metropoli generosa con le città che la circondano, usare un approccio olistico ma sapere attuare pratiche locali, agire per agopunture che sappiano diramare i loro effetti sul corpo vivo della città. Palermo – e Manifesta l’ha percepito e amplificato – non può più avere un solo centro, perché si sono moltiplicati i centri differenti, i nuovi epicentri di socialità della città metropolitana e progressivamente policentrica. E dalle periferie oggi vengono potenti segnali di innovazione sociale, di ribellione civica, di nuovi modi di abitare e di lavorare. Riserve preziose per la resilienza della città, e fonti di resistenza all’eterno presente.
Questa per me è la sfida più seducente: reimmaginare Palermo mentre Palermo ricodifica il ruolo di una Biennale nomade di arte contemporanea dedicata alla “coltivazione della coesistenza” e – aggiungo io – alla germogliazione della consistenza, nel mirabile senso con cui la proponeva, purtroppo senza completarne l’argomentazione, Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane, in una oscillazione epistemologica tra solidità e coerenza, tra identità e apertura. E il frutto più prezioso della consistenza è la dimensione etica della nostra azione.
Visitare Manifesta 12 richiede un approccio multisensoriale: le opere e le installazioni artistiche colpiranno il vostro senso estetico e politico con la potenza della denuncia di condizioni globali e locali di diseguaglianza e intolleranza. I palazzi, i cortili e le piazze i cui sono collocate colpiranno il vostro lato emotivo con la loro potente bellezza, con la loro decadenza che reclama nuova vita, con la loro precedente clausura che pretende di colmare le storie non raccontate in tutti questi anni. Infine la città, quella che vedete dalle finestre, dagli anfratti, dalle terrazze, dai vicoli, vi richiama all’azione, vi incanta senza sedarvi, e vi spinge ad essere i paladini del suo cambiamento, vi arruola nella nostra battaglia di futuro. E allora, con il Palermo Atlas come sottotesto, immergetevi nella Kalsa, il quartiere epicentro di Manifesta, e iniziate da Palazzo Butera, nuova specie di spazio museale accuratamente restaurato da Massimo Valsecchi per essere un motore di ricerca, un atlante di arti e linguaggi, ma anche edificio poroso che ricongiunge la città al suo mare. Godetevi le policrome installazioni dei Fallen Fruit che contendono agli affreschi del soffitto il vostro sguardo, e poi proseguite per Palazzo Forcella-De Seta, bricolage di architetture ed epoche che contiene le opere di Forensic Oceanography e di Patricia Kaersenhout. Entrate a Palazzo Ajutamicristo e, dopo aver telefonato ad una spia in giro per il mondo in un gioco di specchi in cui lei non sa di essere spiata da voi, salite al terzo piano dove le opere di John Gerratd, Rayyane Tabet e Lydia Ourahmane vi apriranno gli occhi sulla pervasività dei network transnazionali di controllo dei dati, delle risorse, delle persone. Passando dal giardino inconsueto dei Cooking Sections, arrivate all’Archivio di Stato nell’ex Convento della Gancia in cui i Masbedo vi aprono una stanza delle meraviglie stracolma di faldoni, libri, documenti, pratiche – forme pre-digitali di controllo – in cui un burattino animato da Mimmo Cuticchio vi inviterà a liberarvi dei fili che codificano le vostre vite.
E poi l’olio di Per Barclay, su cui si specchia la Cavallerizza di Palazzo Mazzarino, e la sontuosità di Palazzo Costantino vi daranno un momento di tregua, prima di rituffarvi nell’emozione vegetale dell’Orto Botanico in cui Alberto Baraya, Leone Contini, Michael Wang generano nuove nature impollinando materia vegetale e minerale, in connessione con il giardino progettato da Gilles Clément, insieme ad abitanti, scuole e associazioni, per lo Zen. Appena sotto la “vergogna” di Pizzo Sella, aggredito negli anni Settanta dalla speculazione e dal patto scellerato tra mafia, politica, imprenditori e professionisti, in cui i Rotor creano un dispositivo per restituire alla collettività la bellezza di quel luogo, superando l’ipocrisia dell’azione esclusivamente giudiziaria che non rigenera il paesaggio deturpato ma lo cristallizza nel limbo dell’incompiuto. Manifesta non vi propone un programma precompilato, ma siete voi i coder che generano, in un tripudio open-source, una personale geografia di luoghi che ricompone in innumerevoli modi le tre sezioni principali, Garden of Flows, che esplora la tossicità ambientale, Out of Control Room, che investiga il potere di controllo globale, e City on Stage, dedicato alla rigenerazione urbana, lungo i 21 luoghi e 60 installazioni del programma generale e i 90 eventi collaterali, intessuti di ulteriori iniziative che sono scaturite in emulazione, in contrasto, in sintonia, in uno spartito corale dove tutta Palermo risuona delle coesistenze che l’arte contemporanea genera.
Palermo è stata fondata come “tutta porto” e il mare le ha dato per secoli la sua vitalità, poi è diventata “tutta orto”, giardino paradisiaco di diversità botanica e la natura le ha donato la vitalità della sua bellezza vegetale, ed è stata anche “tutta arte”, da sempre luogo di artisti sublimi, di correnti artistiche e di avanguardie, spesso autorevole nel panorama internazionale, anche dell’arte contemporanea. Oggi può rinascere dall’essere simultaneamente tutta porto, tutta orto e tutta arte. Non si tratta solo di un gioco linguistico, ma è la sintesi delle tre identità – anzi re-identità – che possono definire, accelerare e focalizzare la grande metamorfosi della città del diverso presente che rigenera il futuro a partire dal suo migliore passato. Ripartendo dal rapporto d’amore con il mare, dalla simbiosi con la natura e dalla energia creativa dell’arte.
E questa, per me, è l’eredità che lascerà Manifesta, nuovi occhi per guardare la città, ma soprattutto un nuovo modo di raccontarla, di percorrerla, di avere cura della nostra meraviglia, sorgente del nostro desiderio di conoscere, come scriveva Aristotele nella Metafisica I.
Per maggiori informazioni: http://m12.manifesta.org