I cinocefali di Aleksej Ivanov / Uomini e bestie, contadini e santi
I santi sono permalosi e spesso vendicativi. Si offendono in particolare quando viene confuso il giorno della loro morte. Litigare con loro è pericoloso.
(Aron Gurevič, Contadini e santi. Problemi della cultura popolare nel medioevo)
Un affresco effigiante San Cristoforo con la testa da cane (cinocefalo secondo la tradizione bizantina) in un rudere di chiesa di villaggio, a sua volta ridotto a brandelli, dev’essere salvato dall’incuria che disgrega la provincia russa post-sovietica e trasferito in un museo. Tre giovanotti moscoviti, scelti in base ai risultati di un algoritmo, sono incaricati dell’impresa e lasciano la capitale per la provincia. Questo è l’assunto, colmo di ottime intenzioni e lodevoli propositi, che sta alla base di una delle narrazioni più complesse, articolate e intriganti della letteratura russa contemporanea. (Aleksej Ivanov, I cinocefali, Voland, Roma 2020, € 20. Traduzione, cura e postfazione di Anna Zafesova).
Ivanov (classe 1969) scrisse il suo Psoglavcy nel 2011 e in patria fu subito grande successo. A prova del fatto, forse, che il grosso pubblico dei lettori russi ha raggiunto una maturità che gli permette di rapportarsi alla trattazione letteraria dei conflitti socio-ideologico-culturali del Paese senza reagire con l’indignazione che era stata caratteristica degli anni della perestrojka, dei primi tempi successivi al crollo dell’URSS in cui, al di fuori dell’intelligencija illuminata, si condannava ogni testo artistico-culturale che non fosse improntato all’ottimismo di stato, alla beskonfliktnost’ (l’assenza di traumi), che si staccasse da quanto il canone aveva decretato. Il romanzo non nasce dal nulla. Molte sono le narrazioni che letteratura e altre arti russe hanno offerto nei secoli passati muovendo dal rapporto delicato e complesso tra la capitale e il resto dello sterminato territorio: la sublime quanto famigerata natura-campagna-provincia. Locus non certo omologabile in un’unica definizione: prostory (spazi sconfinati e selvatici), prima di tutto. Attraenti e perturbanti nei canti popolari, nel gioco continuo di claustro e agorafobia dell’uomo russo antico. E poi campi coltivati, steppa, bosco, villaggio, cittadina industriale, periferia, idilliaca sperdutezza, abominevole lontananza.
Territori-spazi che sono diventati topoi nella cultura del Paese e hanno subito destini anche molto diversi tra loro nelle varie epoche. Dalle atroci condizioni di vita della servitù della gleba che emergono dalle pagine del Viaggio da Pietroburgo a Mosca di Radiščev (1790), alla desolazione dei campi e dei villaggi nelle Anime morte di Gogol’ (“Tutto è povero in te, disordinato, inospitale…” 1842), alle elegiache pagine delle Memorie di un cacciatore di Turgenev (1852-74) in cui i contadini comparivano come ideali mediatori tra l’idealistica natura a cui appartenevano e il cittadino-cacciatore dal cui fucile non partiva mai un colpo. Pochi anni più tardi Tolstoj avrebbe affidato ai contraddittori atteggiamenti di Levin nei confronti dei contadini, in Anna Karenina, il compito di ragionare sulla realtà conflittuale della campagna russa. Čechov avrebbe giocato (come il nostro Ivanov), soprattutto nelle sue commedie, sulla successione di confini da varcare che segnavano le diverse “zone” nelle residenze della nobiltà rurale colta nel momento del decadimento, della fine dell’epoca “feudale” nella storia agraria del Paese. Un racconto čechoviano pare stare in diretto rapporto con le vicende dei Cinocefali, Contadini, del 1897. Non tanto per l’intreccio, anche se impostato sulla continua tensione tra Mosca e la campagna (più realisticamente che in Tre sorelle). Soprattutto per l’immagine inquietante della mentalità contadina che, a più di cent’anni di distanza, ritorna immutata nella sua staticità fatta di atavica indifferenza, ignoranza, abbrutimento. Di fronte a un episodio drammatico, in entrambe le opere letterarie, i contadini osservano ma non intervengono per cercare di sanare la situazione.
In entrambi i casi sarà un forestiero a intromettersi e agire, suscitando nella popolazione locale irritazione e fastidio. Il potere sovietico avrebbe affrontato su molti fronti le realtà della campagna, dei contadini e dei non facili rapporti con le città, o per meglio dire, con la città per antonomasia, Mosca. Milioni di contadini, ex servi della gleba (rappresentanti delle campagne) e milioni di operai (rappresentanti delle città) sarebbero dovuti pacificamente confluire nella nuova categoria dei proletari, senza distinzioni né rivalità. L’utopia avanzava, ma la realtà faticava a starle al passo. L’era dello stalinismo avrebbe, con la sua invadente realtà virtuale, risolto ogni problema e proclamato la trionfalistica realizzazione di ogni aspettativa e impresa. Fanciulle-Cenerentole, nelle fortunate commedie musicali cinematografiche dell’epoca, avrebbero lasciato le arretrate campagne dell’impero per raggiungere Mosca e acquisirvi competenze e strumenti, talora tornando alla base per illuminarne il sottosviluppo, talaltra restando nella capitale a ricoprire ruoli di eccelsa responsabilità.
Un manifesto del 1936, dedicato alla mitologica nuova Costituzione staliniana, bene si presta a comprendere come fosse illustrato il discorso geo-politico di quegli anni.
Stalin è la nuova e illuminata costituzione e giganteggia in primo piano. Mosca, rappresentata dal Palazzo dei Soviet (utopia staliniana per antonomasia, mai edificato ma percepito come esistente grazie alla convincente propaganda visuale), è il centro dell’universo, alle cui spalle si estende a perdita d’occhio arata, coltivata e luminosa l’immensa distesa della natura culturalizzata dall’uomo sovietico. In realtà, una serie di auspici che non trovavano riscontro nella realtà effettuale, ma all’epoca ciò che faceva testo era la rappresentazione, non la concretezza. Le fattorie socialiste, frutto dell’efferata collettivizzazione delle terre, avevano in teoria sostituito i latifondi e gli arcaici villaggi zaristi. Uno specifico filone di letteratura, detta kolchoziana, ne celebrava i trionfi e promuoveva l’ammirazione che i nuovi contadini provavano per la capitale, faro luminoso e magnetico in nome della quale erano pronti a ogni investimento. Cinema, pittura e altre arti riprendevano questi concetti e li facevano circolare. La Canzone colcosiana su Mosca del 1939 recitava tra l’altro:
Tu [Mosca] ci spalanchi le tue porte,
Ci incanti con la tua bellezza,
Accogli gli ospiti dei kolchoz
Come tuoi figli prediletti.
Sarebbe toccato a Chruščëv (1956), contadino d’origine, smascherare anche questi inganni tra i molti perpetrati da Stalin. Un articolo sulla rivista letteraria “Novyj Mir” del 1953 (stesso anno di morte del dittatore) già reclamava “sincerità in letteratura”. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, i giovani avrebbero raccolto l’appello chruščëviano di lasciare le città per immergersi nella natura selvaggia e dissodare le terre vergini. La sua fissazione per il granoturco avrebbe inferto un ulteriore colpo di grazia all’economia agraria sovietica già stremata dalle folli sperimentazioni dell’agronomo Lysenko.
La letteratura dei kolchoz sarebbe stata sconfessata ma per cedere il passo a una prosa contadina (derevenskaja proza) che di sincerità in vero ne conteneva assai poca. Fino a tutti gli anni Settanta scrittori quali Rasputin, Astaf’ev, Zalygin colmarono le proprie pagine di accenti nazionalistici che inneggiavano alla storica purezza delle campagne russe, ai valori perduti, alla mitica semplicità contadina. Con l’eccezione di Vasilij Šukšin che nelle sue opere dedicate alla campagna avrebbe privilegiato una visione autenticamente legata allo spirito della natura che non faceva sconti né edulcorava il quadro esistenziale. L’eccesso di stereotipi antistorici avrebbe suscitato non poche reazioni in scrittori meno allineati (Sokolov, Sorokin) che avrebbero realizzato gustose parodie della prosa rurale in voga irridendone la cieca vacuità nazionalistica. Non si può non citare il romanzo-poema Mosca-Petuški di V. Erofeev, uscito in samizdat nel 1969, che fin dal titolo affronta con ironia la storica relazione-opposizione capitale/provincia trasformando la brutta cittadina industriale di Petuški in luogo paradossalmente incantato dove “gli uccelli cantano senza sosta e il gelsomino non smette mai di fiorire”. In parallelo sbocciava la letteratura del lager, l’epos del Gulag.
Tra riabilitazioni e condanne, l’universo dei campi di concentramento che aveva trasformato molte campagne in zone desolate e terrificanti veniva lentamente alla luce e raccontava le proprie drammatiche storie. Il crollo dell’impero sovietico avrebbe rimesso in discussione anche l’economia agraria oltre che il problema delle sperdute terre “lontano da Mosca”, per dirlo con il titolo di un famoso romanzo realsocialista del dopoguerra staliniano. Anche la religione tornava in auge dopo decenni di ateismo di stato: chiese e monasteri venivano recuperati e tornavano a colmarsi di fedeli, in parecchi casi tanto infervorati da rasentare il fanatismo.
Aleksej Ivanov si innesta sulla tradizione, di cui ho citato sommariamente alcune tra le tappe più significative, e, facendo tesoro del considerevole bagaglio di materiali a cui attingere, scrive un romanzo che rimanda indirettamente a moltissime situazioni passate, pur riuscendo a creare un’opera assolutamente nuova e originale. Difficile identificarne il genere: storico, thriller, fantapolitico, fantasy, esoterico? Un sapiente montaggio di tante componenti che mette in scena la variante contemporanea di conflitti plurisecolari e che può essere affrontato su molteplici livelli, dai più diversi lettori. I tre giovani che arrivano, per un’apparente spedizione culturale, dalla rutilante Mosca del 2000 nel semi-abbandonato villaggio di Kalitino (regione di Nižnij Novgorod) piombano nel passato, per meglio dire nei passati, del Paese. Fantasmi, incubi, ombre, superstizione, violenza, religiosità, arretratezza, alcolismo, degrado, storia e leggenda si intessono mirabilmente per creare un intreccio che appassiona e costringe chi legge a non staccarsi dalle pagine. E i costanti passaggi di confine, a cui si accennava nelle pagine precedenti, diventano protagonisti.
La trama si sviluppa attraverso continue scoperte di “zone” tabù (la foresta, il fosso, la torbiera, la torre) e conseguenti violazioni e sovrapposizioni di territorio, concrete e banali, metaforiche e mentali. In epoca sovietica il villaggio era stato “fiorente” grazie alla presenza di un campo di lavoro forzato (ecco il Gulag che occhieggia), la zona gergalmente detta dei campi di concentramento, ovviamente dai confini ben difesi e blindati. Oggi vanta la realtà di zapovednik (territorio protetto), riserva naturale, anche se la natura che emerge dalla narrazione è desolata: il cielo ottenebrato dai fumi della torba in incessante combustione, l’aria infestata dagli stessi e dalla calura, il fiume inquinato. La stessa torba, unica “ricchezza” di quel mortificato angolo di mondo, diventa oggetto di traffico e speculazione. Degrado è la parola chiave che dal paesaggio si trasferisce al villaggio e ai suoi abitanti: residui, reali e metaforici, di un trascorso pseudo dignitoso che ha perduto ogni decoro. Sanja Omskij, ex galeotto, che degli anni di lager ha mantenuto atteggiamenti e lessico, è il testimone di come il passaggio di epoche sortisca uno scarso impatto in determinate zone e di quanto i mutamenti politici poco influiscano su una certa fascia di popolazione. Liza, la bella ragazza bionda pressoché muta e straziata, riporta ai bož’i ljudi della tradizione religiosa e culturale (figure a metà tra la santità e la superstizione, vicine a Dio proprio a causa del loro essere minorate). La miseria infame che domina il villaggio evoca il Marmeladov dostoevskiano: “La povertà non è un vizio; ma la miseria, l’indigenza è vizio”.
La nobiltà dei sentimenti si è persa in quelle lande. Il vizio imperversa: si beve smodatamente fino ad annientarsi. La sessualità è sinonimo di violenza. La cultura è scomparsa. Non si ride mai. Troneggia su tutto la dacia-bunker del riccone moscovita, boss del villaggio, che la usa come base per i proprio sollazzi. La “missione” dei ragazzotti moscoviti, modaioli e tecnologizzati, suscita sospetto e risentimento. Le loro costanti incursioni in territori altrui, nel tempo e nello spazio (ecco l’esoterismo), li espongono all’ira dei locali (di ieri e di oggi). Il machismo atavico e deteriorato li fa apostrofare ripetutamente come “frocetti”, “checche moscovite”. Mosca passa dal balenare come luogo di ipotetico, ma irraggiungibile, rifugio a entità istituzionale responsabile di ogni male. I turisti che arrivano dalla capitale, eredi dei deprecati villeggianti del Giardino dei ciliegi čechoviano, sono a loro volta insignificanti figuri che neppure realizzano lo squallore locale e si fanno spennare dal negoziante del posto illudendosi di vivere una vacanza alternativa e naturale. Vengono derubati del motore della barca, ma si abboffano di neo-capitalistico junk food mescolandolo a pastorali lamponi d’antan. I tre protagonisti si affannano nel tentativo di portare a termine il proprio mandato. Scoprono in ciò che resta della vecchia chiesa, che l’URSS aveva trasformato in officina, le tracce di una setta di vecchi credenti, gli scismatici russi che nel 1666 si erano staccati dalla chiesa ortodossa in segno di protesta contro le riforme ecclesiastiche introdotte dal Patriarca Nikon.
L’ignoranza dei ragazzi in storia è pressoché totale, ma internet viene loro in aiuto nell’esplorazione della rete alla ricerca delle radici dei cinocefali e i computer di cui sono dotati svolgono la loro funzione. Significativo è che per farli funzionare si abbia bisogno della corrente elettrica e la si possa ottenere soltanto attraverso un collegamento improvvisato con una delle case, metaforicamente dotata di una presa traballante e male ancorata nella parete. Sprecano ore a cercare catene e lucchetti per difendere il minuscolo territorio che hanno conquistato e su cui hanno parcheggiato il pulmino Mercedes avuto in dotazione. Trascorrono notti trepidanti di paura a inseguire indizi inquietanti o smanettare alla ricerca di informazioni. Si introducono nelle case non perché, secondo la tradizione rurale, le porte restino sempre aperte per l’ospite, ma poiché la necessità li spinge a violarne i limiti. Gli interni delle abitazioni in cui penetrano, salvo rare eccezioni, non conoscono intimità, non sono accoglienti. Tutto è fatiscente e trasandato, respingente. Eppure, in quella realtà avvengono fatti prodigiosi: il santo dalla testa di cane pare muovere gli occhi dal proprio affresco, umanoidi cinocefali, custodi-penati dei sacri confini, paiono comparire dai boschi circostanti e terrorizzare i presenti. Apparenza o sostanza? Il passato remoto della Russia seicentesca e quello prossimo del Paese sovietico sembrano allearsi per contrastare l’azione dei protagonisti e scoraggiarli a continuare.
C’è spazio addirittura per un’improbabile storia d’amore. Un inseguimento-fuga mozzafiato, su un arcaico mezzo di trasporto, trascina il lettore verso il finale. Trascina è la parola giusta: la lettura si fa forzatamente frenetica e incalzante. Lo scioglimento (se esiste un vero scioglimento) con l’esplosione di colpi di scena e la rivelazione di un determinante artificio (forse il più azzardato di tutta la storia) pare porre fine alla narrazione. Pare, perché le certezze non esistono. Sarà coronato da successo l’ultimo e definitivo passaggio di confine?
La superba traduzione, culturale e non solo linguistica, di Anna Zafesova rende godibilissimo anche il gioco lessicale dell’originale: le diverse parlate, regionali, generazionali, sociali, gergali dei personaggi. Le essenziali note alla traduzione sono di grande aiuto per penetrare più a fondo in realtà non scontatamente familiari e la postfazione costituisce un breve ma prezioso saggio di cultura russa. Procedendo nella lettura ci si immerge in un Paese non consueto, attualissimo e autentico, ma sconosciuto ai più. Si impara che Russia non è soltanto il Cremlino con la sua piazza Rossa o un affascinante distesa di betulle al suono della balalajka.
Alcuni ne saranno forse delusi, ma è opportuno che si vada finalmente oltre gli stereotipi. Sergej Ejzenštejn poco meno di un secolo fa ribadiva la necessità di un “cinema pugno” che scombussolasse gli spettatori invece di cullarli nelle loro fragili certezze. Ivanov (Zafesova che lo ha tradotto e Voland che lo ha pubblicato) ci offrono un “romanzo pugno” che fa pensare, costringe a ragionare e non lascia tranquilli nelle proprie comode poltrone. “Tout autour de Paris il y a la France” recitava uno slogan turistico alcuni decenni fa. Più attuale che mai la sua trasposizione geografica: anche Kalitino e i suoi cinocefali sono la Russia (di oggi), non soltanto gli sfavillanti negozi e ristoranti della Mosca-Las Vegas.