Un breve incontro con Acheng

21 Febbraio 2013

Un sabato pomeriggio incontro il grande Acheng. Dopo un inseguimento di mesi, riesco a farmi accogliere nella sua casa laboratorio oltre il quinto anello, a un’ora dal centro di Pechino. La domanda che ho in testa ha già una sua risposta, ma vale la pena di sentirmela dare dal corpo di questo anziano signore - classe 1949, in Italia non la considereremmo un età così avanzata, ma la Cina è faticosa, soprattutto per uno scrittore che ha ambientato la sua Trilogia (che io, ma non solo io, ritengo ancora il capolavoro insuperato della narrativa cinese degli ultimi trentanni) nelle campagne dove lui stesso, e suoi protagonisti, erano stati mandati a vivere e lavorare durante la Rivoluzione Culturale. La Trilogia dei Re (Degli Alberi,Dei Bambini, eDegli Scacchi), pubblicata in Cina a fine anni ottanta (ed erano anni nei quali qualche velo si poteva squarciare, magari senza nominare in via diretta la Rivoluzione Culturale e le sofferenze di cui era stata origine, ma i tre romanzi, tre novelle in verità, avevano per protagonisti persone ridislocate in campagna) era stata tradotta da Theoria (Il Re degli Scacchi è ora riedito da Bompiani) a inizio dei nostri novanta, a me aveva aperto gli occhi sulla narrativa recente cinese, lasciandomi poi a bocca asciutta per mancanza di epigoni degni.

 

L’area attorno a Pechino, capitale dilatata artificialmente dalle autostrade concentriche costruite su un diametro di cinquanta chilometri e dalle radiali che partono dal centro, si costituisce di blocchi di edifici costruiti sulle intersezioni: ormai più rari gli insediamenti industriali, qui si allineano compounds chiusi, muri perimetrali a circondare edifici tutti uguali (come dice qualcuno: paghi un architetto per disegnare una villetta, e poi ne fai duecento, il margine di profitto dei costruttori in Cina è enorme), muri già bordati dal filo spinato elettrificato, come se qualcuno prevedesse l’allargarsi a dismisura della forbice tra questa classe media (i ricchi di tutto il paese vengono a farsi la casa a Pechino) e le caterve di lavoratori manuali (anche migranti, come nell’edilizia), che prima o poi prenderanno di mira le ricchezze accumulate.

 

Acheng vive, in realtà, in un compound riservato agli artisti – lui mi ha detto: agli artigiani – sembra una fabbrica inglese dell’ottocento, i mattoncini non sono rossi ma grigi alla maniera delle case tradizionali dell’Hebei e degli hutong di Pechino. Alti blocchi cubici, enormi serrande di metallo davanti alle quali stazionano opere d’arte che così, appoggiate al muro, appaiono giocattoli improbabili (il mio interprete, Francesco, riconosce un discobolo vestito come un dirigente di partito che secondo lui è apparso di recente sulla copertina di una rivista). Ma, in una chiacchierata gentile e sfuggente non riesco nemmeno a farmi dire quanto sia artista lui, Acheng: perché so di una recente consulenza a Liu Xiaodong (che con lo Hotan Project ha passato due mesi in un villaggio del Xinjiang a dipingere le fatiche degli abitanti, costruendo una narrazione continua, con personaggi che ritornano – almeno: così l’ho vista io all’inaugurazione: mi ci ha invitato Ou Ning, curatore del progetto), e lui menziona la sua cura per una prossima mostra a Roma, ma non riesce a darmene i dettagli.

 

Siamo a metà strada tra l’atteggiamento di una persona in là con gli anni che non ha più molta voglia di prendere sul serio né quel che fa lui stesso, né i suoi interlocutori – tanto meno questo sedicente scrittore/editore italiano – e quello di chi gioca un po’ a rimpiattino con l’interlocutore: chi sei? Perché devo dirti tutto di me? Quando cito Marco Del Corona, inviato del Corriere della Sera che quasi un anno fa venne a intervistarlo, non lo rammenta, né rammenta l’intervista che gli mostro sull’Ipad, le sue risposte. Conosce bene Andrea Cavazzuti, documentarista italiano, coraggioso mediatore del nostro incontro (lo ho, e lui lo ha, tampinato per mesi), questo sì.

 

La domanda è: perché non scrivi più, da più di un decennio?

Domanda di riserva: hai scritto qualcosa, e non lo vuoi, non lo puoi pubblicare?

La risposta che appare nell’intervista al Corriere è: ho scritto un romanzo, e anche prose più brevi, ma trattano di argomenti che è meglio non menzionare, in questa Cina. Non me lo pubblicherebbero. E pubblicare all’estero (Taiwan), potrebbe crearmi problemi con le autorità, potrebbero impedirmi di lavorare.

La risposta di Acheng oggi è tanto evasiva, quanto di conferma: diciamo di sguincio. Perché accenna al caso di Li Chenpeng, la scorsa settimana, che per aver scritto in favore della redazione di un quotidiano messo sotto attacco dalla censura, è stato aggredito durante una discussione pubblica a Pechino: un pugno arrivato quasi a segno, perfino un set di coltelli da cucina (!) lanciatogli contro da pochi metri.

 

E allora prendiamola alla larga: cosa pensi della narrativa cinese più giovane? Mi piace, dice lui, Li Chenpeng, ed ecco che si è schierato. Poi nomina perfino Han Han, seguitissimo blogger e icona pop generazionale: e gli dico che l’ho pubblicato io, in Italia: lui apprezza soprattutto i saggi. Quando ricordo che però Han Han è stato criticato da Ai Weiwei – Han Han ha scritto a chiare lettere: cari signori del Partito Comunista Cinese, io non metterò in discussione la forma politica della Repubblica Popolare Cinese, non chiederò la democrazia parlamentare: ma voi lasciatemi la libertà di espressione più piena – Ai Weiwei non ha gradito: propugna una intransigenza assoluta. Ma Ai Weiwei si rivolge a un pubblico d’élite, e gode dell’attenzione e della protezione dei media internazionali. Han Han ha milioni di followers, parla ai cinesi, e deve stare attento a come parla.

 

Acheng, che pure di Ai Weiwei è amico, mi lascia una perla: Han Han è più maturo di Ai Weiwei, dice. Ma è una perla, o una frase di circostanza a uno sconosciuto italiano seduto al tavolo della sua casa? Una casa d’artista: un tavolo da cucina dove la frutta secca e la verdura si sovrappongono ai computer, ai libri, ai pacchetti di sigarette – c’è un portacenere strapieno – sovrastato da una grande madia a vetri dove vedo ogni possibile liquore, Maotai cinese, Glenmorangie dalla Scozia, cognac Martell, in un edificio costruito come le case di corte, illuminato da una vetrata aperta su un cortile interno (protetto a sua volta da una vetrata in alto): è un atelier, nei fatti, ma non vedo opere in giro.

 

Acheng, a dar retta a Google, negli ultimi anni non ha fatto molto. Ha curato progetti artistici, ha firmato la sceneggiatura di un paio di film, e lui mi conferma il tutto schernendosi, molto alla cinese, direi: ho un progetto con Hou Hsiao-hsien – un master del cinema taiwanese – ma sono tre anni che non concludiamo. Qualcuno mi ha suggerito che comunque scriva: in forma diaristica, riflessioni sulla scrittura o sui luoghi che frequenta (in Italia è uscito, ma ancora una quindicina di anni fa, un suo Diario Veneziano): è una forma molto praticata in Cina, ma abbastanza introspettiva, più vicina alla poesia che alla prosa.

 

Insomma, non mi resta che manifestargli la mia tristezza, e la solidarietà, per una narrativa cinese che evidentemente non decolla perché ogni generazione trova sulla sua strada come un insormontabile macigno la censura: l’impossibilità di trattare i momenti e i temi più importanti della propria esistenza, quelli su cui si forma la personalità di un artista. La Rivoluzione Culturale per la sua generazione, Tien an Men per quella successiva.

 

E i giovani? I giovani, mi dice lui, sono ancora più in difficoltà rispetto a noi, ancora di più sotto l’occhio del Grande Fratello: perché parlare di questa Cina che cambia vuol dire scoperchiare troppo.

Resta una narrativa dei margini: mi mostra il reportage (noi diremmo ‘narrative non fiction’) di una giovane ragazza dello Xinjiang che ha seguito i nomadi per mesi, a dorso di cammello, lungo le rotte delle loro mandrie nel nord, in condizioni difficilissime: fino a 40 gradi sottozero. Acheng dice che ha riletto due volte il libro, tanto gli è piaciuto: per la capacità dell’autrice di non essere mai noiosa, quattrocento pagine apparentemente a descrivere un’esistenza sempre uguale che invece lei sa riempire di scrittura e interesse.

Ci lasciamo così, lo leggeremo anche noi, questo reportage.

 

E ci lasciamo con una domanda senza risposta: che farai di quel che hai scritto in questi anni? Verrà un momento in cui potrai finalmente ricominciare a pubblicare? Ci sarà un’apertura, in questa Cina già scossa da decine di migliaia di rivolte (spesso operaie) ogni anno? O ci sarà un guerra?

Grazie per il suo tempo maestro, grazie per quest’ora di chiacchiere che una incontrastabile forza centrifuga ha tenuto lontane da un loro cuore appena sussurrato, grazie per il tè che ci ha offerto.

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