Bilanci 2019 / Lo spettacolo dell’anno

Per la quarta volta abbiamo chiesto a critici e artisti di raccontarci il loro spettacolo dell’anno, ovvero cosa di importante è successo nello spettacolo, nel teatro, secondo loro nel 2019. Questa volta abbiamo ridotto il numero degli interpellati (delle interpellate). Negli anni precedenti erano una decina, ora sono solo due. Un’artista di cui molto si parla, Daria Deflorian, emersa con la potenza dei lavori creati insieme ad Antonio Tagliarini e ad altri compagni dopo anni di classica “gavetta”; una critica e studiosa giovane, Rossella Menna, autrice di un bel recente libro conversazione con Armando Punzo, sufficientemente pronta a prendere a colpi d’ascia (direbbe san Thomas Bernhard) le troppe comodità e le asfittiche apparenze. Due soli sguardi, ci sembra affilati, impegnati a rompere i recinti. A voi il giudizio, con gli auguri della redazione teatro di “doppiozero”. (Ma. Ma.)

 

Frammenti 2019 (Daria Deflorian)

Gli spettacoli, i cambi di direzione artistica, i grandi temi, le polemiche, i premi, le stagioni. Le novità, le conferme, le delusioni. Non ne parlerò, posso raccontare solo alcuni frammenti di questo 2019 teatrale, chiarendo al lettore che ho visto poco avendo lavorato molto. Repliche, viaggi e stanchezza – ho compiuto sessant’anni, c’è poco da fare – mi hanno tenuta lontano più del solito da un posto che mi piace molto, la sedia, la poltrona, la gradinata dove, spesso al buio, sto di fronte al lavoro che di solito faccio io, ma fatto da qualcun altro. E da quell’altro posto, quello della riflessione e del non fare. Posto prezioso e indispensabile. Quindi in mezzo a tanto fare, eccoli i miei lampi. 

 

Primo frammento. Sono seduta nella sala A del Teatro India a Roma incredibilmente piena per un incontro serale, il 2 novembre. Sul palco vuoto parlano e riescono a parlarsi come se fossero a casa loro e non di fronte a un invisibile schermo come ormai succede in tanti dialoghi pubblici, Bifo e il cardinale Zuppi. Per chi non li conosce sono Franco Berardi (Bifo) filosofo e agitatore culturale, protagonista del ‘77 bolognese, e Matteo Zuppi recentemente nominato cardinale da Papa Francesco, religioso di strada che parla di “misericordia rivoluzionaria”, da sempre accanto agli ultimi. Sono venuta per Bifo, lo conosco di fama dal mio arrivo a Bologna alla fine degli anni Settanta. Fa parte del mio mondo, al di là di quanto poco io sia informata di quello che dice, pensa, scrive. Ma ecco il frammento che mi è rimasto impresso, di una serata tutta molto bella. Al mio fianco un ragazzo giovane, uno spettatore come me, ogni volta che il sacerdote comincia a parlare lo filma, con ardore. Come si può fare per un proprio idolo rock, ma anche per le prodezze di un figlio piccolo. Stargli a fianco è stata un’esperienza. Sana, bella, un incontro con qualcuno diverso da me. Finalmente. Come scrive Byung-Chul Han in L’espulsione dell’altro stiamo disimparando a stare con il diverso da noi, cerchiamo – o ci viene proposto senza che nemmeno ce ne accorgiamo – sempre e solo quello che ci è uguale. Il ragazzo seduto vicino a me mi ha fatto ascoltare, seguire l’incontro in un altro modo, mi permetto di dire, in modo migliore.

 

Secondo frammento. Un piccolo gesto gratuito, mi è costato due ore di tempo. Mentre ero a Milano in primavera, sono andata al Lachesi Lab a registrare (come tanti altri artisti a cui è stato chiesto) un brano per il progetto Nel cuore della notte, un cammino dal tramonto all’alba in sostegno dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. L’idea nata dopo una lettera di Alessandra De Santis e che ha visto coinvolto tra molti altri lo scrittore Antonio Moresco prevedeva infatti degli ascolti durante la camminata. Avevo scelto di leggere l’inizio di Gli anni di Annie Ernaux. È stata un’ora che ricordo con piacere quella passata con Attilio Nicoli Cristiani nel piccolo spazio trasformato in studio di registrazione. Ho capito meglio il progetto, la complessità di un pensiero realizzato senza economie, senza leadership, ma che via via ha raccolto sempre più adesioni. A causa di un altro impegno non sono riuscita il 21 settembre ad andare a Milano quando questa lunga camminata ha avuto luogo. Sono partiti la sera in cinquecento e hanno camminato fino all’alba almeno duecentocinquanta persone. Ma, ecco il frammento: i giorni successivi mi sono arrivati diversi messaggi, dei brevi video da persone più o meno conosciute che dicevano cose come: “Ho camminato con la tua voce…” “Era primissima mattina, ci siamo fermati, quello che dicevi mi ha toccato...”. È difficile definire senza retorica quello che ho provato. Quand’è che siamo più presenti? Quand’è che quello che facciamo prende senso? 

 

Il terzo frammento comincia nel dicembre 2018, segnando poi diversi momenti di quest’anno che sta per finire. Ha a che fare con il desiderio di allargare le pareti del teatro, abbattere qualche confine, stringere legami con altro. Quando abbiamo debuttato a Parigi con il nostro ultimo lavoro, Quasi niente, ho scritto a François Jullien, il filosofo con cui avevamo “dialogato” a lungo durante le prove, in particolare sulla questione della presenza e sul suo concetto di intimità. Jullien ha risposto, è venuto a vedere lo spettacolo, ci siamo fermati dopo a parlare, io gli ho scritto ringraziandolo e lui mi ha risposto così: “Cara Daria Deflorian, grazie per il vostro notevole spettacolo e per il gentile messaggio che mi ha scritto. Proprio come lo presentivo, il vostro spettacolo ha avuto su di me un effetto dirompente, nel senso che questo effetto si è prolungato e anche modificato nei giorni successivi. Ne sono ancora segnato ed è uno stimolo per pensare. Le vorrei chiedere un testo per il volume collettivo Chantier conceptuel de François Jullien / ateliers d'artistes in preparazione (…) che rifletterà sulle interazioni possibili tra alcuni miei concetti e la loro pratica artistica. Sarei felice che il teatro fosse presente fra questi grazie a lei. (…)” A giugno gli ho mandato il mio contributo, a inizio 2020 uscirà la pubblicazione in Francia. Niente di più semplice, niente di più impensabile. Niente di più necessario. 

 

Sempre più frammenti che rimangono impigliati nella memoria riguardano gli allievi, gli studenti, gli incontri di studio. Nel 2019 ho passato tanto tempo, più di due mesi complessivamente, a insegnare. È un momento di teatro importantissimo, vitale, che mi mette in crisi, che mi dà sempre molto da pensare. Tra tutti i frammenti un momento, di nuovo a Milano, una domenica mattina di ottobre in cui con Maddalena Giovannelli, la meravigliosa critica di “Stratagemmi” (dico meravigliosa perché c’è una passione nel fare questo lavoro così poco pagato e bistrattato che è fare il critico che mi sembra importante sottolineare) sono andata in uno spazio di cui non ricordo il nome a vedere una prova filata di un lavoro, il primo spettacolo che stavano allestendo un paio di studenti dei nostri laboratori. La prova era organizzata ‘apposta’ per me, Federico uno di loro mi aveva scritto qualche settimana prima “La proposta/minaccia di Daria ‘se non possiamo vedere il vostro lavoro a giugno, ottobre ci fate vedere qualcosa di bellissimo’ ci ha scaldato il cuore, e dopo un attimo di panico, ci siamo rimboccati le maniche”. Loro erano molto emozionati, io dopo sono stata forse un po’ troppo severa, mi ascoltavano, mi hanno fatto domande, senza giustificarsi. Poi ci siamo scritti ancora. Qual è il frammento? Quel chiedere, quel dare, quel costruire a fatica tra impegni reciproci un’occasione di incontro. Quel sentirmi adulta io, quel sentire loro giovani. Quello stare insieme come se un lavoro teatrale potesse cambiare le sorti del mondo, anche se il mondo non lo sa. Quella fiducia in me, quel bisogno della mia presenza. Nessun bando, nessuno scambio, nessun vantaggio, nessun post, nessuna foto. Uno degli infiniti momenti di vita non registrati. Che ora registro. 

 

Due letture tra le tante. Totò raccontato da Fellini in “Fare un film”, dove dice come quasi cieco sul set, accompagnato dal regista passo dopo passo, il comico appena veniva dato il ciack si muoveva in scena come se ci vedesse, grandioso, per poi tornare vacillante appena la ripresa si interrompeva. Amelia Rosselli nel libro di Emanuele Trevi, Sogni e favole che nel casino infernale di Castelporziano, durante il festival dei poeti nel 1979, con i giovani contestatori sul palco crea, con la sua semplice presenza, con la sua personalissima assenza, un silenzio e una concentrazione inimmaginabili in quel bailamme. Io e Attilio (Scarpellini) leggiamo queste e altre storie fino alle dieci del mattino per la festa dei 20 anni del Teatro India. L’ultima lettura la facciamo a un gruppetto di artisti sopravvissuti alla notte e alla pioggia, con le persone sdraiate su un tappeto che un po’ ci ascoltano e un po’ dormono e si crea quella magia di stare bene insieme che tanto cerchiamo tutto il tempo. 

 

Un appunto su un quaderno estivo (24 luglio): “Non bisognerebbe mai uscire di qui, mai avventurarsi troppo fuori dalla sala prove. Bisognerebbe stare e provare sempre o stare in vacanza”. 

 

L’incontro pubblico con Thomas Ostermeier, a novembre a Roma all’Auditorium, incontro più interessante dello spettacolo appena presentato con la sua regia, Ritorno a Reims, dal bellissimo libro di Didier Eribon. Ostermeier, la sua intelligenza, la sua generosità quando parla di un suo collega (Milo Rau) con vero entusiasmo, dicendo di lui che è sicuramente l’artista più significativo del momento. La pausa prima di rispondere a una domanda, quando dice che il teatro non cambia le cose, le cose le cambia la strada e parla delle manifestazioni degli studenti ad Hong Kong, parla delle manifestazioni in Cile. Il teatro al massimo può riflettere su alcune cose dice, e ripete, le cose le cambia la strada. Io che lo ascolto in una sala semivuota dell’Auditorium (a chi interessano gli incontri dopo lo spettacolo?) e vedo la marea di ombrelli di Hong Kong, vedo i gesti delle donne cilene. 

 

Un attore, Cédric, conosciuto tre anni fa al Theatre de Vidy a Losanna, lui in scena proprio con Ostermeier in Il gabbiano, noi lì con Reality e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Un’amicizia nata subito, al bar, e mantenuta come si riescono a mantenere le amicizie nel nostro lavoro, con incontri e messaggi saltuari, ma sempre calorosi. Ci scrive quest’anno dopo aver visto Quasi niente, non subito, alcuni giorni dopo, lo leggo in camerino prima di un’altra replica. Mi fa piangere. Glielo scrivo. Il suo messaggio diceva: “Daria e Antonio (…) ho perso drammaticamente mia cognata due anni fa. Si è suicidata. Ho riso molto guardando Quasi niente… non ho pianto… anche se ero molto commosso… ma, non so come dirvelo… ho pensato molto a lei e non ricordo quando ma durante lo spettacolo io ho improvvisamente pensato: lei ora sta bene. E ovviamente il vostro lavoro NON è una apologia del suicidio. Per niente! Per la prima volta in due anni ho avuto questo pensiero e questo pensiero mi ha risollevato. Un po’. Grazie”.

 

Dicembre, Marsiglia, una fermata della metro durante il Prélude del Festival Parallele. Sara Leghissa sta facendo una sua azione legata al progetto Tonight not poetry will serve, un vero e proprio lavoro di attacchinaggio su uno spazio pubblicitario cittadino. Mezzora molto bella, la gente si ferma, legge. Il senso della protesta scivola continuamente tra non senso e compiutezza. A uno dei pali è legata una bicicletta, arancione come la tuta da lavoro che indossa Sara. Il frammento è piccolo, ma si incide. Sara, finita l’azione, prima di andarsene pulisce la bicicletta dagli schizzi di colla. Lo fa con attenzione, precisione, amore. 

 

Ancora dicembre. L’orchestra sinfonica, le ballerine dell’Opera di Parigi in tutù bianco e sullo sfondo due cartelli di protesta. La Vigilia di Natale, i lavoratori dell’Opera hanno voluto sottolineare, a modo loro, la propria opposizione alla riforma pensionistica voluta da Macron. Sotto il grigio cielo parigino, han scritto “Le Monde”, hanno eseguito alcuni stralci di Il lago dei cigni davanti a una piccola folla nello spazio antistante il teatro, in pieno centro città. 

 

Locale estivo a Zante, in Grecia. Una balera, si potrebbe definirla, si chiama Logos. Non vado quasi mai nelle discoteche, nei locali, mi sento soffocare e non mi diverto, musica ad alto volume, semibuio, so di perdermi belle cose, ma non ce la faccio. Ma il Logos è un’altra cosa, molti ragazzi, bambini, famiglie, gente del paese e turisti italiani e austriaci. Musica così così con grandi revival. Ultimo frammento. Una bambina sulla pista semideserta. La gioia totale del ballo. Penso che tra qualche tempo ballare diventerà anche per lei esibizione, ma che per ora è solo gioia totale, non ha bisogno di essere guardata. Gioia del ballo in sé, nemmeno gesto sociale, balla in mezzo ad altri ma ‘per sé’. O, scriverò il giorno dopo, balla con qualcuno, con qualcosa che non c’è, che è al di là di lei. Mesi dopo quando vedrò Joaquin Phoenix in Joker rimarrò altrettanto estasiata, per ragioni diverse. Il ballo, il corpo, la danza che mostra l’indicibile, il risvolto delle cose, il loro rovescio. 

 

Nota: Sto consegnando questo articolo e compare on line una lettera a nome di Il campo innocente che riprende e rilancia la questione che si è aperta in primavera dopo la denuncia di alcuni collaboratori e collaboratrici di Jan Fabre accusato di comportamenti ricattatori e violenti sul lavoro. Una cosa è certa. Cominceremo il 2020 parlando (anche) di questo. 

 

 

Passioni e delusioni (Rossella Menna)

Ogni anno sotto Natale, interrogata sui bilanci, mi ritrovo nella frustrante condizione di dover ammettere con me stessa che il teatro visto durante l’anno mi ha delusa, e che a dire il vero il teatro mi delude sempre, che mi delude da così tanto tempo che neanche mi ricordo quando, perché e davanti a quale opera io abbia cominciato a credere che dalla frequentazione di quest’arte (e di tutte le altre) avrei potuto trarre qualcosa di buono se non addirittura il meglio della vita: la massima capacità di comprensione, compassione, libertà; uno strumento, insomma, per farmi beffa di me stessa, della mia specie, delle mie radici culturali, del destino che porto scritto sulla nuca. Salvo poi, con la stessa puntualità, ritrovarmi al principio di ogni anno nuovo a difendere il valore e la meraviglia di questo linguaggio antico, e ancor di più a sostenere con tutta me stessa chi lo pratica, come si fa con la persona che amiamo di più e che magari sì, avrà pure tradito le nostre aspettative, ma perché erano davvero altissime, e comunque in potenziale rimane la cosa più preziosa che abbiamo tra le mani, perciò guai a chi s’azzarda a sposare il nostro sfogo e a metterci sopra un carico da undici. 

 

Tra le ragioni di questo mio sentimento potrei annoverare problemi di ideologismo e circostanze produttive. Potrei lamentare il fatto che nel circuito della prosa gira un ciarpame al limite della truffa aggravata, ma pure che molti degli spettacoli e delle performance che si (auto)presumevano radicali e dissidenti che ho visto quest’anno erano un megafono (anche violento) del politicamente corretto; che è avvilente dimenticarsi che l’arte è potente proprio perché non fotografa i fatti ma lo spirito, e che lo spirito, ci piaccia o meno, è un coacervo di contraddizioni, di sentimenti sublimi e di schifezza; sarei tentata di insinuare il dubbio (consapevole di rischiare manganellate da più fronti) che questa storia dei classici che saprebbero parlarci dell’attualità ci sta un po’ sfuggendo di mano, perché a me pare, a dire il vero, che ciò che rimane immutato nei millenni non sia affatto la struttura delle relazioni sociali e famigliari, la politica, i valori, ma solo i sentimenti più intimi e segreti, come la necessità di amare ed essere amati (che però è un tema passato di moda a teatro, perché appare pop, borghese e poco engagé); e potrei aggiungere che no, non è vero che andare a teatro (come leggere un libro) fa bene a prescindere, anzi, turismi ed eclettismi culturali fanno proprio male, e bisognerebbe porsi il problema di riverificare il valore di tutto, anche e soprattutto dei testi canonizzati dalla scolastica. E naturalmente potrei denunciare (anch’io!) l’assurdità del fatto che chi sta appena cominciando a far teatro sia incoraggiato (e si lasci incoraggiare) a scrivere pagine e pagine di progetti su ciò che ancora non ha creato, e a passare il tempo a cercare residenze a cinquecento chilometri da casa per provare spettacoli che presenterà in infinite prove aperte in attesa di un debutto, e che è umiliante che anche gli artisti più affermati e i loro eroici amministratori debbano compilare infiniti resoconti in cui viene chiesto loro di documentare finanche quanti post fanno sui social per pubblicizzare il proprio lavoro, quale impatto hanno sulla città, sui parchi, i laghetti e le case intorno, sui giovani, sugli anziani, sugli animali, sull’aria, e quante convenzioni, patti, reti e carte fedeltà hanno firmato con altri attori del territorio, come se il valore della loro arte si misurasse solo sulla capacità di allineare loghi sulla carta intestata per le conferenze stampa. Però mi fermo qui, perché il nervo davvero scoperto per me non è questo.

 

Qualche settimana fa, parlando appunto di quanto passioni e delusioni vadano a braccetto, un amico scrittore mi faceva notare che in fondo le opere contemporanee, spettacoli o romanzi che siano, hanno un valore più sociologico che estetico. Per parte mia, il sunto che ho tratto dagli oltre trecento spettacoli che ho visto quest’anno, tra Italia ed Europa, tra grandi sale, festival internazionali e salotti privati in cui qualcuno muoveva i suoi primi passi, non variava molto da quello che ho disseminato in qualche articolo qua e là negli ultimi anni: il teatro contemporaneo mi pare di fatto inscritto in una semiosi artistico-culturale fondata sulla missione della demistificazione, della disautomatizzazione della percezione e di quel “realismo globale” di cui parla Milo Rau nei suoi scritti pubblicati di recente da Cue Press. Insomma, più siamo sommersi di fake news e di big data, più l’arte dal vivo si assume il compito di farci aprire gli occhi, svelare l’inganno, renderci cittadini più consapevoli, arrabbiati, attivi e attivisti, oppure (ma più raramente, e soprattutto nella danza) di farci esperire, attraverso la scena, una vita paradossalmente più vitale e vera dell’esistenza opaca di ogni giorno. Al di là delle forme e delle ideologie, insomma, il teatro di ricerca traffica quasi sempre con la realtà perché gli artisti rivendicano un fatto comune: che mentre fuori avanzano il deserto e l’idiozia, la scena rimane una sorta di avamposto dove si può lavorare controcorrente e prefigurare un modello diverso di società. 

 

Tra parentesi: su questo fronte, in mezzo a molta retorica, le parole più convincenti e nuove che ho ascoltato nel 2019 provengono dal mondo della danza. Le hanno pronunciate Chiara Bersani e Michele Di Stefano alle cerimonie UBU di gennaio e dicembre durante i rispettivi discorsi di ringraziamento per i premi vinti. Bersani, premiata come migliore performer del 2018, ha finalmente smascherato quell’equivoco tanto diffuso per il quale i corpi e le voci eccezionali, portatori di biografie non ordinarie, guadagnerebbero la scena solo per raccontare la propria condizione, per affermare il proprio diritto politico a stare su un palco (ovvero nella società). Prospettiva alquanto ottusa, dal momento che l’essere attori è facoltà che presuppone piuttosto la possibilità, per un corpo singolare, di farsi carico di un generale, ovvero di potersi fare simbolo non della propria condizione puramente contingente, ma di un rilancio del sé verso altre, sorprendenti opportunità dell’essere. Nel ringraziare per il riconoscimento a Bermudas Forever, proclamato spettacolo dell’anno 2019, il coreografo di MK ha voluto invece rilevare che il premio è stato dato a un’opera che lavora sul perimetro dell’identità dissolvendolo, che non si chiede da dove veniamo ma da dove stiamo andando, per sottolineare quindi che ha vinto una danza “che non lavora sull’inclusività ma sulla permeabilità, una permeabilità molto dolce tra le identità”. 

 

Ora, senza squadernare ridicoli blocchetti di voti a opere e artisti, quel che voglio dire è che questo nostro teatro, o almeno il teatro che ricerca e che mi interessa e a mio parere ci dovrebbe interessare tutti, promette moltissimo, e ciò che mi colpisce quasi ogni volta che esco dalla sala, al di là del fatto che abbia visto qualcosa di più o meno lontano dai miei gusti o dai miei interessi, è che il miracolo promesso, qualunque esso fosse non si realizza. Che io, e con me il pubblico in mezzo a cui me ne stavo seduta, ce ne andiamo serenamente a cena, nel migliore dei casi discutendo di come l’opera a cui abbiamo assistito fosse provocatoria, perturbante, emozionante, senza che tuttavia ne siamo stati autenticamente turbati. Per farla breve: gli spettacoli non funzionano quasi mai per come è previsto da chi li scrive e descrive, la peste che dovrebbero causare si riduce a poco meno di un solletico blando e prevedibile. E per un patto culturale non scritto noi fingiamo, anche con noi stessi e in buona fede, di avere subito una qualche trasformazione intellettuale o sentimentale che raramente abbiamo subito davvero. Eccolo qui, il nervo scoperto, la delusione sempre in agguato. Provo a rintracciarne qualche ragione, ripromettendomi di proseguire l’anno prossimo. 

 

In un bel saggio sul futuro della narrativa, Saul Bellow dice che un errore tipico del narratore contemporaneo è quello di affermare idee e fare discorsi vincolando l’immaginazione a punti di vista ottusi. “Il romanzo – scrive l’autore statunitense – per riprendere forza e rifiorire, ha bisogno sì di idee nuove sull’umanità, ma queste idee non possono vivere di vita propria. Se vengono semplicemente affermate, non dimostrano altro che la buona volontà dell’autore. Devono essere scoperte, quindi, e non inventate. Dobbiamo vederle manifestarsi, in carne e ossa”. Gli fa eco Carver quando dice che “gli sperimentatori devono scoprire tutto da soli e devono voler portare a noi notizie dal loro mondo.” Ecco, quello che mi pare di notare in egual misura nel campo del teatro e della performance, eccezion fatta per certi esiti di danza (che comunque è avvantaggiata dalla sua natura prevalentemente asemantica), è che nonostante la buona volontà, le intenzioni oltremodo lodevoli e difendibili degli artisti, troppe opere non riescono a uscire dal campo della descrizione, del manifesto, del pamphlet drammatizzato, non trovano il modo di lasciare spazio a una forma autonoma in grado di evocare. Sembra che i nostri artisti non portino notizie da un mondo personale di cui hanno scontato battaglie e ferite sulla propria pelle, ma dalla somma della retorica del mondo che passa attraverso un discorso comune, mediatico o di nicchia che sia. E che a causa di questo processo di programmazione del senso non trovino l’autenticità là dove si annida sempre, ovvero nel dettaglio, che non riescano a volgere il reale in fenomeni, in figure capaci di toccare davvero la sensibilità degli spettatori. È un dato di fatto che solo le opere in cui la realtà viene resa immagine sensibile emozionano, toccano, ci modificano. E quante sono? Quanti spettacoli riescono a far diventare il racconto che portano parte della nostra esperienza? Quante figure incontrate su un palcoscenico quest’anno sono rimaste impresse nel nostro immaginario?

 

Nel sostenere le ragioni di un suo teatro ideale che operasse nel campo dell’immaginazione (sola vita reale in arte, diceva), Gordon Craig scriveva, riferendosi nello specifico alla rappresentazione “si pretende che tutto ciò sia un modo intelligente di suggerire un pensiero. Ma perché, perché? È     proprio come se un pittore disegnasse su di un muro un animale con le orecchie lunghe, e poi ci scrivesse sotto: ‘Questo è un asino’. Già è abbastanza chiaro, penseremo noi, anche senza l’iscrizione: qualunque ragazzo di dieci anni sa fare altrettanto. La differenza fra il ragazzo di dieci anni e l’artista è questa: l’artista è colui che tracciando certi segni e certe forme crea l’impressione di un asino ed è tanto più grande se riesce a suscitare l’impressione del genere ‘asino’, della sua  ‘essenza’”. Quello che noto è che il teatro, tutto teso nello sforzo di dimostrare d’essere qualcosa di necessario e d’impegnato, invece di formulare da capo le grandi domande ponendosele con la propria lingua (quella che suscita impressioni giocandosi il suo rapporto con il reale nella relazione autentica con qualcuno che gli sta di fronte, vivo, nel qui e ora), provi troppo spesso a compendiare ricerche filosofiche, antropologiche e sociologiche in opere che finiscono per fornirne nulla più che illustrazioni godibili. Quale sia la scaturigine di quest’attitudine non saprei dirlo con fondatezza. La mia persuasione personale è che in questo nostro presente culturale la lotta (e quindi la ricerca e la narrazione) l’abbiamo posta troppo fuori di noi, come se il campo di battaglia più arduo non ce lo portassimo dentro, come se non ci ricordassimo che i limiti degli altri sono a immagine e somiglianza dei nostri, anche se si esprimono in altre forme e gradazioni. 

 

Di certo c’è che il teatro parla, spiega troppo, perfino quando non dice una parola, e questo succede perché ha studiato e sa già tutto quel che ha da dire prima di cominciare a cercare una forma. O meglio, cerca una forma quando ha già pronto il pensiero, e così finisce per illustrarlo invece di rivelarlo a chi lo concepisce e a chi gli sta di fronte. Quest’arte può essere mille cose diverse, fanno sempre un po’ sorridere i discorsi ontologici, ma su una cosa siamo per forza tutti d’accordo: anche quando è puro dibattito, deve far accadere qualcosa, non si può limitare a dire. Ora, vorrei chiarire che quanto scrivo non ha niente di mistico né di romantico, è un fatto tecnico, concreto, verificabile. Mi vengono in mente quei passaggi fulminanti di Parise o di Simenon, in cui con una sola riga ci presentano nel dettaglio psicologia, corpi e attitudini dei personaggi facendo appena cenno a un dettaglio. “Il gendarme non osava correre. Aveva paura del ridicolo”: bastano due parole, e riusciamo già a immaginare com’è vestita questa figura di Simenon, che corporatura e che carattere ha, quasi quasi ci pare di sapere anche cosa mangerà a cena. Come c’è riuscito? Curiosamente, nella sua descrizione di questo personaggio non c’è neppure un aggettivo. Solo azioni. Funziona, fantastichiamo sulla sua vita, ce lo ricordiamo. Esattamente come ci ricordiamo (chi l’ha visto, naturalmente) la figura del padre nel magnifico spettacolo L’Abisso di Davide Enia, per fare un esempio teatrale. E ce lo ricordiamo perché del padre l’attore siciliano non ci regala che qualche tratto, qualche movimento, ma così dettagliato, così puntuale, così tanto autentico, che la tragedia degli sbarchi a Lampedusa che ci racconterà poi ci colpisce più di quanto possa fare un telegiornale o un documentario proprio perché noi ci ritroviamo a vederla tutta attraverso gli occhi di quest’uomo silenzioso, che immaginiamo immensamente saggio, capace di una compassione senza fronzoli, di un dolore onesto di cui ci sentiamo per osmosi investiti anche noi. Mi viene in mente allora un’altra cosa: che in un laboratorio a cui ho assistito due anni fa, Daria Deflorian suggeriva continuamente ai suoi allievi attori di costruire immagini per descrivere la grana dei pensieri, di “provare a uscire dall’aggettivo per entrare nel verbo”. Mi è parsa un’indicazione illuminante.  

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