Disconnessi e costretti
Il 25 gennaio 1883, nella Chiesa dell’Ascensione di Washington, D.C., si celebrò il matrimonio tra Samuel Dennis Warren II e Mabel Bayard. A distanza di quasi un secolo e mezzo, la notizia può sembrare di scarsa importanza però, all’epoca, attirò l’attenzione di diversi giornali, considerato chi era il padre della sposa: un senatore del Delaware che, in seguito, sarebbe diventato anche Segretario di Stato. Pezzi che descrivevano con dovizia di particolari la cerimonia e i festeggiamenti comparvero, tra l’altro, sul New York Times e sul Washington Post e sembra che fu proprio l’eccessivo interesse da parte della stampa a spingere Warren, di professione avvocato, a scrivere, assieme al collega e futuro membro della Corte suprema Louis Brandeis, un articolo che fu pubblicato dalla prestigiosa Harvard Law Review nel 1890. L’articolo si intitolava The Right to Privacy e sarebbe passato alla storia come una delle opere giuridiche più influenti di sempre, visto che è a questo che si deve la definizione della privacy quale diritto a essere lasciati in pace, ossia, riprendendo le idee dei due autori, a che ciò che viene sussurrato in luoghi riservati non sia proclamato dai tetti delle case. Grazie a quello scritto furono poi introdotte adeguate garanzie negli Stati Uniti e, progressivamente, altrove.
Quasi certamente, né Warren né Brandeis potevano aspettarsi che le loro riflessioni avrebbero avuto ricadute tanto profonde e che, in seguito, proprio dal diritto a non essere disturbati si sarebbero ricavate nuove modalità di tutela, per esempio, per quanto riguarda la protezione dei dati personali, diventata sempre più importante in ragione degli sviluppi tecnologici degli ultimi cinquant’anni.
Ancora, può ritenersi che sia Warren sia Brandeis resterebbero stupiti se venissero a sapere che la loro “invenzione”, con le sue origini così altoborghesi, ha fornito la base per l’individuazione di una nuova fattispecie di diritto che riguarda i lavoratori. Infatti, a partire dagli inizi degli anni Duemila e dall’opera di un giurista francese, Jean-Emmanuel Rey, si parla sempre più di diritto alla disconnessione. Ed è stato proprio Rey a definire questa sua creatura il diritto alla privacy del XXI secolo. La ragione è semplice: la vita privata dei lavoratori è messa in pericolo dall’uso massiccio di dispositivi digitali (laptop, smartphone, tablet) al fine dello svolgimento delle loro mansioni. Si è diffusa la cultura del sempre connesso, la quale ha avuto come conseguenza che la distinzione tra orario di lavoro e periodi di riposo, un tempo segnata in maniera netta dalla timbratura del cartellino, è diventata porosa, con conseguenze deleterie per la salute fisica e mentale. Dipendenza dalle tecnologie, ansia e burnout sono solo alcuni dei problemi identificati al riguardo dal Parlamento europeo in una risoluzione del gennaio 2021, con la quale si chiedeva alla Commissione europea di formulare una proposta di direttiva in materia di diritto alla disconnessione, identificandolo come «diritto fondamentale che costituisce una parte inseparabile dei nuovi modelli di lavoro della nuova era digitale» e «importante strumento della politica sociale a livello dell'Unione al fine di garantire la tutela dei diritti di tutti i lavoratori». Quello che deve essere protetto, si badi bene, non è il diritto a stare offline, come detto da alcuni, ma il diritto del lavoratore a riposare, così da evitare il verificarsi delle conseguenze negative derivanti dall’iperconnessione.
Alcuni Stati europei hanno introdotto una normativa in materia, il che è certamente un bene, anche se le garanzie tendono a variare da Stato a Stato. In alcuni casi la disciplina si applica solamente ai telelavoratori, in altri a tutti i lavoratori. Ora le tutele vengono definite a livello di contrattazione collettiva, ora la questione è disciplinata dai singoli contratti di lavoro e anche le sanzioni previste per la violazione del diritto in parola tendono a variare.
Proprio per questo si renderebbe necessario un intervento di armonizzazione da parte dell’Unione europea, in modo da arrivare all’introduzione in tutti e ventisette gli Stati membri di standard simili, che dovrebbero riguardare, tra l’altro, le modalità per scollegarsi dagli strumenti digitali, la misurazione dell’orario di lavoro, le valutazioni relative a salute e sicurezza, mezzi di ricorso per i lavoratori il cui diritto alla disconnessione sia stato violato e, ovviamente, le conseguenze per i datori di lavoro che non lo rispettano. Come detto, il Parlamento europeo ha sollecitato la Commissione in questo senso, arrivando anche a elaborare una proposta di direttiva dalla quale l’esecutivo dell’Unione sarebbe potuto partire. In un primo momento, è parso che la Commissione preferisse che fossero le parti sociali a livello europeo a definire un accordo sul tema ma, visto che le trattative si sono risolte in un nulla di fatto, la palla è ritornata nel campo dell’istituzione guidata da Ursula von der Leyen, che ha avviato una consultazione tra i portatori di interessi. Quindi, bisognerà ancora attendere prima che l’Unione realizzi qualcosa sotto questo punto di vista. Nel frattempo, si potrà contare sul diritto nazionale, se dispone qualcosa sul punto.
Tuttavia, è emersa un’ulteriore questione, che concerne sempre la presenza pervasiva di strumenti digitali nelle vite di minori e adolescenti. In una comunicazione del giugno 2023, la Commissione europea ha detto chiaramente che sta peggiorando la salute mentale delle generazioni più giovani, le quali sempre più di frequente si confrontano con fenomeni quali ansia, paura, tristezza e autolesionismo. Le ragioni alla base di ciò sono diverse, però tra esse c’è sicuramente l’uso di strumenti digitali e i rischi a questi connessi, in primis la dipendenza, come confermato dal libro di Jonathan Haidt, La generazione ansiosa, che negli ultimi mesi ha riscosso ampio successo e favorito la discussione sul tema negli Stati Uniti e da questo lato dell’Atlantico.
È evidente allora che una protezione adeguata deve essere predisposta. Con riferimento all’Unione europea, il regolamento sui servizi digitali, adottato nell’ottobre 2022, prevede che i fornitori di piattaforme online accessibili ai più giovani devono adottare misure adeguate e proporzionate a tal fine. In particolare, i fornitori di piattaforme e di motori di ricerca online di dimensioni molto grandi devono individuare, analizzare e valutare con diligenza gli eventuali rischi sistemici nell'Unione derivanti dalla progettazione o dal funzionamento dei loro servizi, tra i quali si ricomprendono eventuali effetti negativi per il rispetto dei diritti dei minori. A febbraio di quest’anno, la Commissione europea ha deciso di avviare un procedimento formale per stabilire se TikTok abbia violato il regolamento in relazione proprio ai minori. Il problema riguarda il fatto che il social network cinese potrebbe provocare dipendenze comportamentali. A maggio, un ulteriore procedimento è stato avviato nei confronti di Meta per questioni analoghe relative a Facebook e Instagram.
Sembra che qualcosa si stia muovendo nella stessa direzione anche negli Stati Uniti dove, quest’anno, la proposta di legge bipartisan dal titolo Kids Online Safety Act (KOSA) è stata approvata dal Senato. Se entrasse in vigore, imporrebbe tra l’altro alle piattaforme che forniscono servizi in Internet di conformarsi a un dovere di diligenza, adottando misure idonee a prevenire fenomeni quali bullismo e violenza, e di mettere a disposizione strumenti che permettano ai genitori di controllare meglio le attività online dei figli.
C’è tuttavia un ulteriore profilo che è di importanza fondamentale in questa partita e che attiene alla possibilità di limitare l’accesso dei minori alle piattaforme social. Nel 2023, sempre negli Stati Uniti, è stata presentata un’altra proposta di legge bipartisan, il Protecting Kids on Social Media Act, con cui si vieterebbe l’uso dei social media ai minori di tredici anni, mentre i minori di diciotto necessiterebbero del consenso dei genitori. Lo stesso anno, in Francia, è stata approvata una legge che ha introdotto la cosiddetta majorité numerique, vale a dire la maggiore età digitale, stabilendo che i fornitori di servizi di social network devono rifiutare l’iscrizione di minori di quindici anni, ferma la possibilità che i genitori diano la loro autorizzazione. Poche settimane fa, il primo ministro australiano ha annunciato una normativa che, se approvata, impedirebbe l’accesso ai social ai minori di sedici anni, a prescindere da un eventuale assenso da parte dei genitori. Si prevederebbe anche il ricorso a sistemi di identificazione biometrica per verificare se il divieto sia rispettato. Per quel che riguarda l’Italia, nel 2024 si è registrata una proposta avanzata da due parlamentari, una di maggioranza e una di opposizione, diretta a innalzare l’età minima per accedere ai social dai tredici ai quindici anni e a introdurre adeguati sistemi di verifica.
Dunque, il tema è in costante evoluzione e richiede un’attenzione prioritaria. Come detto dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione di un discorso pubblico, «non possiamo e non dobbiamo abbandonare i ragazzi a una chiusura solitaria, in un mondo dominato dalla tecnologia in cui talvolta rischiano di essere imprigionati» e «non possiamo correre il rischio che lo strumento tecnologico, in continua evoluzione, assorba la quasi totalità delle attenzioni, delle relazioni, della vita».
Quindi, oltre che per quanto riguarda il diritto alla disconnessione per i lavoratori, sembra stia emergendo la tendenza ad adottare normative relative a un vero e proprio obbligo di disconnessione o, meglio, di non connessione per minori e adolescenti prima di una certa età. La prospettiva è evidentemente rovesciata. Non si tratta di tutelare il diritto del lavoratore a scollegarsi così da garantire il suo benessere psicofisico ma, avendo in mente lo stesso scopo, di proteggere i più giovani quando fanno uso di certi servizi tenendoli il più a lungo possibile lontani dallo schermo dei loro smartphone.
Sarà possibile realizzare simili ambizioni? Difficile a dirsi. Di certo, si può presumere che aumenterà la conflittualità tra adolescenti e genitori e che i primi, molto più tech-savvy dei secondi e dei legislatori, non mancheranno di ideare escamotage per eludere i divieti, una volta che questi entreranno in vigore. A prescindere, la battaglia va combattuta, anche se significa scontrarsi con potentati economici e tecnologici: la posta in gioco, che la questione riguardi i lavoratori o i minori, è troppo alta per lasciare spazio a esitazioni. E, del resto, come sosteneva Bertolt Brecht, chi combatte rischia di perdere, ma chi non combatte ha già perso.
In copertina, illustrazione di © Giselle Dekel.
Leggi anche:
Elena Dal Pra | Jonathan Haidt: la generazione ansiosa
Vittorio Gallese | Haidt: quelli che... il digitale