La morale dell’amorale. Meglio Samuel L. Jackson di Di Caprio
Sono appena usciti due western molto simili tra loro in termini di fotografia, effetti tecnologici, paesaggi, suoni. Insomma: in termini cinematografici. Benché The Hateful Eight, di Quentin Tarantino, privilegi gli interni e The Revenant di Alejandro González Iñárritu, gli esterni, i due film sembrano girati insieme. Visti uno dietro l'altro, a parte la breve passeggiata per cambiare sala, avete la sensazione di rimanere negli stessi luoghi, benché in epoca storica differente.
Sul piano psicologico invece i due film sono opposti.
The Revenant racconta la storia di un eroe giusto, padre di un ragazzo “meticcio”. Un Leonardo Di Caprio che ha dismesso la sua espressione ambivalente, tipica dell'antieroe. Ci sono i francesi, alleati con una tribù indiana, e gli inglesi. I francesi sono arroganti e imbroglioni (vecchia storia tra puritani e libertini), gli indiani sono aggressivi perché imbrogliati dai francesi e gli inglesi siamo noi, il pubblico, che fin da subito entra a far parte del gruppo inglese. Ben presto lo schema si riproduce dentro il gruppo inglese. Se si legge la Morfologia della fiaba di Propp, ci si raccapezza meglio. C'è un antagonista che protesta continuamente con il capitano (il capo) per via del fatto che questi si fida dell'eroe. L'eroe non risponde alle provocazioni, il figlio “meticcio” (il buono) reagisce con l'antagonista e l'eroe lo rimprovera, lo invita a non dare sfogo alle passioni. L'escalation simmetrica tra l'eroe e l'antagonista inizia quando l'eroe, dato per morto, torna e sfida l'antagonista. L'eroe vince, anche se muore, e la scarica pulsionale trova consolazione nel fatto che Di Caprio è riuscito a castrare il fuori legge e la parte “al di là del principio di piacere” interna al soggetto che assiste al film.
Film pienamente edipico, secondo i canoni della psicologia dell'Io. L'eroe, nella morfologia del Western, non è buono, è giusto. Distinzione fondamentale e quasi mai colta pienamente. Suo figlio, che è “meticcio”, è buono e si lascia guidare dai sentimenti, l'eroe risponde solo all'inno kantiano: “Dovere! Nome sublime e grande, che non porti con te nulla di piacevole che comporti lusinga; ma esigi la sottomissione [...] presenti semplicemente una legge che penetra da sé sola nell'animo e si procura venerazione”.
Questa la vera natura dell'Western: fiaba puritana. Me ne resi conto solo quando, anni fa, rividi alcuni Western in lingua originale. Il doppiaggio, per quanto ben fatto, contiene un fattore implicito nella nostra lingua, un sentimentalismo che solo Sergio Leone era riuscito a evitare, grazie all'aiuto dello sguardo di Clint Eastwood. Lo sguardo tempera il linguaggio e Eastwood parlava un italiano molto asciutto, tra i denti. Il giusto e il buono per il Self americano, sono due cose linguisticamente distinte, cultura vuole che trionfi la giustizia, non la bontà o l'indulgenza. Un libro di Sacvan Bercovich, The Puritan Origins of the American Self, del 1975, lo spiega molto bene.
Samuel L. Jackson in The Hateful Eight, regia Quentin Tarantino (2015)
Per gli psicoanalisti dell'Ego, la morfologia del Western è catartica, analogamente alla tragedia per Aristotele: la violenza cui assiste lo spettatore, che si identifica con l'eroe, permette di scaricare le pulsioni e porta a riflettere sul male che produce il “fuori legge”. Non vince mai l'indulgente, che cede ai sentimenti – le donne, i deboli, i contadini, i “meticci” sono buoni, ma soccombono e muoiono. Vince il giusto, chi segue l'imperativo kantiano sul dovere. Eroe e antagonista condividono una medesima qualità, sono spietati. Non indulgono mai alla compassione.
Coerente con la morfologia e la morale di questa fiaba è anche l'espressione del volto: non si tratta dell'eroe/delinquente del Giuliano Gemma di turno, ammirato perché faccia d'angelo, che suscita spesso sentimenti di benevolenza, anche se non importa da che parte sta. Non che non ci siano film analoghi negli Stati Uniti, si pensi a Butch Cassidy, o ad alcuni film su Jessie James. Ma nei veri Western – quelli che per noi occidentali hanno la potenza dell'epopea di Gilgamesh per i Sumeri – la morfologia proppiana è quella descritta sopra. Creare un personaggio “giusto” e “non violento” per questa morfologia è impossibile. Il fuorilegge (antagonista) provoca il giusto (eroe). Il giusto non vuole reagire, ma il fuorilegge insiste. Per via della reticenza del giusto a reagire, il fuorilegge prende vantaggio e arriva fino a quasi sopraffare il giusto. Poi il climax: l'escalation si interrompe con la vittoria finale della giustizia e dell'eroe. Questa “schismogenesi” permette allo spettatore di riflettere sull'importanza della giustizia, sul principio che limita il godimento. Il giusto produce la castrazione dello spettatore e lo soddisfa, paradosso puritano.
Di tutt'altro stile il film di Tarantino, che prosegue i suoi esercizi di cinematografia amorale in questo odioso ottavo film, il cui titolo sembra una citazione per ribaltamento dei Magnifici sette, oppure un Otto e mezzo splatter, senza dimenticare l'Hercule Poirot di Agatha Christie e la lettera di Abramo Lincoln nella saccoccia dello spietato uomo nero interpretato da Samuel Jackson. Che piaccia o no, in Tarantino, e in particolare in questo suo ottavo film, nessuno è giusto. Tutti sono canaglie. Ognuno di loro ne ha fatte di cotte e di crude, non c'è alcuna onestà.
Qual è l'effetto possibile sullo spettatore quando non c'è violenza giusta? Qui, al più, sulla scena c'è un cocchiere ignaro e ignorante e i buoni sono già stati tutti massacrati prima, anche se, come nello stile tragico, lo sapremo dopo. Sulla scena, c'è solo menzogna e sopraffazione, sulla scena ci sono solo mentitori e fuori legge. Tutto ciò, rivestito da vecchio Western, è davvero sconcertante! La prima reazione è naïve e moralista. Ci si arrabbia con l'autore del film, ci si trova a pensare che il vecchio concetto stalinista di arte degenerata vada ripreso come norma per il giudizio estetico.
Poi si riflette un po', si indaga nella memoria. Chi non ricorda Intolerance di Griffith, Il gabinetto del dottor Caligari, M il mostro di Düsseldorf di Lang, L'angelo azzurro. Ce n'è per tutti, guerre e distruzioni sociali, linciaggi, omicidi plurimi e follia, disastri sociali e interiori. Eppure...
Forse il punto di svolta sulla via per Tarantino è James Dean, l'interprete di Gioventù bruciata, morto a ventiquattro anni per incidente stradale. A quell'epoca la condanna per i “ribelli senza causa”, questo il titolo originale, era quasi unanime. Forse è ancora precedente, risale a Goethe, condannato dai moralisti dell'epoca perché avrebbe indotto al suicidio i giovani dopo la pubblicazione del giovane Werther. Ogni stagione ha autori che rompono gli schemi e le morfologie rassicuranti, che liberano il personaggio dai vincoli di una narrativa pedagogica che pretende di educare il lettore, lo spettatore. Tarantino non è Mozart, Goethe, Flaubert; non è Allen Ginsberg o Pasolini; vedere al cinema schizzi di sangue e vomito, teste che scompaiono a suon di colpi di fucile, non è idilliaco.
Se proprio devo esprimermi, io sostengo il contrario: si è spesso accusata l'arte e la letteratura che rompe con gli schemi moralisti di essere la causa dell'emulazione di giovani “sconsiderati”. Invece chi esce dal cinema, felice che il giusto abbia ucciso il “fuori legge” – solo un po' dispiaciuto che il “fuori legge” abbia ucciso i buoni – pensa di essere dalla parte dell'eroe e parla di violenza giusta. Poiché però Il mago sabbiolino sta sempre nascosto sotto il letto, e ci minaccia durante il sonno, siamo in una zona chiasmatica, dove ci tocca gridare: “Viva Di Caprio! Il bianco democratico, crepi Samuel L. Jackson! Il nero repubblicano”.