Il popolo degli anziani

14 Novembre 2024

La questione demografica assomiglia un po’ alla questione climatica. Perché tutto quello che si può fare oggi avrà effetto fra parecchi anni, e tutto quello che è successo nel passato lontano dispiega ancora oggi i suoi effetti. Così come l’anidride carbonica emessa dalle nostre fabbriche 100 anni fa sta ancora nell’atmosfera attuale, così si vedono nelle “piramidi demografiche” di oggi i segni delle guerre passate, delle epidemie, dei baby boom, delle politiche restrittive. Per esempio, oggi è drammaticamente visibile in Cina l’effetto delle politiche adottate mezzo secolo fa: in figura, vediamo i dati del censimento del 2020. Si possono osservare cinque “buchi” nel profilo delle generazioni, sia fra i maschi che fra le femmine. Il primo nella fascia 59-64 anni: questi adulti erano bambini nel 1958-62, quando Mao lanciò il “Grande balzo in avanti”, la politica economica più disastrosa mai concepita sul pianeta Terra, che ammazzò o non fece nascere 30 milioni di bambini. Il secondo buco si può vedere nella fascia 40-45 anni, cioè dei nati nel 1980 o poco dopo, quando si applicò la politica del figlio unico. Altro calo, il terzo, nella fascia 34-37: questi sono i nati dalle (poche) donne che sono sopravvissute al Grande balzo in avanti. C’è poi un quarto ammanco di giovani nella fascia 15-25 anni: sono quelli nati dalle donne scampate alla politica del figlio unico. Infine, pochi bambini di 0-3 anni: qui osserviamo un calo delle nascite che in parte è dovuto al retaggio del passato (osservate quante sono le loro madri, donne di 18-25 anni), in parte è “autonomo”, cioè derivante da un genuino cambio di stile di vita: oggi il tasso di fertilità in Cina è sceso a 1,09 (meno che in Italia, dove è arrivato a 1,20).

Popolazione della Cina, novembre 2020

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Immagine tratta da Wikipedia, Demographics of China (contributo originale dell’autore dell’articolo).

In sintesi, quando si parla di demografia si parla di lungo periodo. È uno di quei temi che richiede uno sguardo lungo, al passato e al futuro.

Detto questo, come stanno andando le cose? Qui la questione climatica e quella demografica cominciano a divergere, per due motivi. Primo, ciò che succede in Italia non ha impatto su quel che succede in Cina, e viceversa (mentre invece le emissioni di anidride carbonica si spandono in tutto il mondo); secondo, l’invecchiamento della popolazione (è il fenomeno cruciale, di cui parleremo diffusamente) è un fenomeno dalle conseguenze importanti, ma non così grave e urgente come il cambiamento climatico. Vediamo perché.

Leggiamo un recente report dell’Istat, datato 29 marzo 2024: “Aumenta il numero di ultraottantenni, i cosiddetti grandi anziani: con 4 milioni 554mila individui, quasi 50mila in più rispetto a 12 mesi prima, questo contingente ha superato quello dei bambini sotto i 10 anni di età (4 milioni 441mila individui). Questo rapporto, che è ora sotto la parità, era di 2,5 a 1 venticinque anni fa e di 9 a 1 cinquanta anni fa”.

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Il grafico (prodotto dall’Istat) mostra il numero dei nati nell’ultimo ventennio, ripartiti fra primogeniti (blu), secondogeniti (rosso) e nati successivi (verde).

Il tanto deprecato invecchiamento. Ma, prima di strapparci i capelli, c’è bisogno di una riflessione ampia sul lavoro, sul benessere, sulle classi di età della popolazione. Dal punto di vista economico, due sono i fattori chiave che vanno tenuti d’occhio nell’osservare una popolazione. Il primo è il rapporto fra il numero di quelli che lavorano, gli occupati, e la popolazione residente. Il secondo è la struttura della popolazione per età (ritratta nella piramide demografica, come quella che abbiamo appena visto per la Cina e che vedremo per l’Italia).

Cominciamo dal rapporto fra gli occupati e i residenti. È un numero importante perché, in ogni momento storico, ciò che viene prodotto è prodotto da chi lavora, mentre è tutta la popolazione che consuma. E questo indipendentemente da quanti hanno pagato o non hanno pagato i contributi. I contributi servono per stabilire dei diritti, ma il fatto economico di base è che in ogni momento le persone che non lavorano (comprese quelle che hanno pagato i contributi) sono mantenute, materialmente parlando, dalle persone che lavorano.

In Italia, questo rapporto è cresciuto negli anni settanta e ottanta, dal 36 al 41 per cento circa (effetto di una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro) poi ha subito una flessione negli anni 10 di questo secolo, per risalire al 40 per cento nel 2024 (mia elaborazione su dati Istat). Come si concilia questo fatto, abbastanza rassicurante, con il tanto temuto invecchiamento della popolazione? Si concilia se teniamo presenti quattro fenomeni. In primo luogo, come sappiamo, diminuiscono i bambini, che ovviamente non lavorano (questo fa calare la quota di chi non lavora); in secondo luogo aumenta la partecipazione delle donne al mondo del lavoro (in soli 6 anni, dal 2018 a oggi, il tasso di inattività delle donne è sceso da 43,9 a 42,0); in terzo luogo gli immigrati, nonostante il loro tasso di disoccupazione sia relativamente alto, rimpolpano la quota dei lavoratori, perché hanno l’età giusta per lavorare; infine, anche gli anziani contribuiscono di più: nella fascia 65-89 anni, gli occupati sono saliti da 343 mila nel 2005 a 487 mila nel 2015 a 787 mila nel secondo trimestre del 2024 (dati Istat).

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Quest’ultimo dato è largamente sottostimato. O meglio, è un po’ sottostimato se accettiamo le definizioni ufficiali: perché una bella fetta di lavoro retribuito, soprattutto nelle classi di età più avanzate, sfugge completamente al fisco come alle statistiche. Ma è enormemente sottostimato se guardiamo alla sostanza piuttosto che alla forma del lavoro. Infatti, tantissime persone che tecnicamente non lavorano, in realtà lavorano dalla mattina alla sera (come le casalinghe). Discernere la realtà del lavoro è molto difficile, anche perché gli apparati statistici di tutti i paesi avanzati si sono formati, dal 1945 in poi, più per misurare il ritmo di funzionamento della macchina economica, rappresentato dal Pil, che per dirci quanto siano soddisfatti i bisogni delle persone. In tale ottica, fa poca differenza che qualche milione di anziani e di donne svolgano lavori di ogni tipo in casa, negli orti, nelle case dei vicini, nelle associazioni. Ma se guardiamo le cose dal punto di vista del benessere le cose cambiano.

Conviene, per chiarirci le idee, ripassare un momento lo statuto che le varie classi di popolazione hanno avuto nella nostra storia (parlo di classi d’età, oltre che di classi sociali). I bambini. Fino all’Ottocento alla stragrande maggioranza dei bambini non era riconosciuto un ruolo particolare, oggi diremmo un diritto all’infanzia: erano piccoli adulti, che contribuivano secondo le loro capacità all’economia familiare (e anche, nei primi decenni dell’industrializzazione, lavoravano in fabbrica). La stessa cosa per gli anziani: tutti ricordiamo l’epica figura di Padron ’Ntoni che, pur vecchio, capitana la Provvidenza colla sua ciurma di nipoti. Ora andiamo nel mezzo, fra gli adulti: troviamo che per due degli “stati” dell’antico regime – nobiltà e clero – il lavoro era anatema. Il contributo di queste due classi alla società consisteva nella guerra, per i primi, e nella cura delle anime, per i secondi. Si trattava di classi completamente esenti dal lavoro, anche direttivo. Ne era ovviamente consapevole il nostro Leopardi, che del proprio ceto scrisse in una poesia, come al solito sconsolata, indirizzata all’amico conte Carlo Pepoli: “Ma noi, che il viver nostro all’altrui mano/ provveder commettiamo…”. Si avverte un’eco – anzi più che un’eco – del radicale cambiamento di prospettiva nell’articolo 1 della nostra costituzione, che proprio sul lavoro fonda la Repubblica.

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Viva il lavoro dunque, in tutte le sue forme. Ma chi lavora ha poi diritto anche al riposo. Per molto tempo, dopo che l’Italia è diventata un paese ricco, si è concepito l’anziano come uno che “riposa”. Infatti si diceva che fosse in “quiescenza”. Quiescenza vuol dire quiete, in pratica far nulla, se non quasi un anticipo della morte (la “fatal quïete”, scrisse Foscolo).

Invece è ora di riscoprire il contributo di lavoro e di idee degli anziani. Il nome della cosa già c’è: si chiama “invecchiamento attivo”. Significa incoraggiare, considerare, valorizzare il contributo degli anziani, sempre più numerosi, alla nostra società.

Incoraggiare spetta alla politica. Vedo soprattutto due fronti aperti. Il primo è quello della salute: gli anziani contribuiscono se sono in salute. Non vuol dire soltanto ospedali, ma anche, per esempio, investimenti per rendere sicure le case degli anziani, al fine di prevenire gli incidenti invalidanti. Il secondo fronte è quello del diritto del lavoro; qui vale una parola semplice e antica: semplificare. La legge n.33 del 23 marzo 2023, che ha istituito il Comitato interministeriale per le politiche in favore della popolazione anziana (CIPA), è un passo nella giusta direzione, ma è ancora troppo orientata all’assistenza piuttosto che alla partecipazione attiva.

Considerare spetta alla statistica. Oggi che le statistiche sono fatte sempre più con metodi campionari, è possibile dedicare energie a catturare il vasto, multiforme contributo che gli anziani tecnicamente non occupati danno alle loro famiglie e alla società intera: cura dei bambini, cura di altri anziani, insegnamento, riparazioni, consulenza, sostegno economico, lavoro agricolo e mille altre occupazioni.

Valorizzare, invece, è compito della società tutta intera. Vuol dire letteratura, scuola, fotografia, cinema. L’anziano è ancora oggi rappresentato per lo più come il vecchio saggio, oppure come il delinquente incallito, o anche come il patriarca che non vuole mollare il comando (Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati: “Io nun moro, nun moro!!). È rarissimo incontrare un anziano propositivo, costruttivo.

Prima di chiudere, una parola sulle pensioni. Abbiamo visto quanto è importante il rapporto numerico fra chi lavora e chi non lavora. Chi non lavora sono soprattutto i bambini e (in parte) gli anziani. C’è però una differenza sostanziale. Il mantenimento dei bambini è quasi invisibile dal punto di vista dello Stato (l’assegno unico universale, più altri benefici come il congedo di maternità, non raggiungono i 20 miliardi l’anno), mentre il mantenimento degli anziani pesa molto, poiché quasi tutti godono di una pensione (il solo INPS eroga ogni anno circa 350 miliardi).

Dice l’INPS nel suo ultimo rapporto annuale: “lo scenario demografico attuale, caratterizzato dall’aumento dell’età media della popolazione, dal calo della fecondità e dalla riduzione della popolazione in età lavorativa, non compensati dall’immigrazione, sta determinando un peggioramento del rapporto tra pensionati e contribuenti. Questo processo di invecchiamento, comune agli altri Stati membri dell’Unione europea, influenza negativamente la sostenibilità economica di quasi tutti i sistemi previdenziali”. Chiarissimo.

E tuttavia, il problema delle pensioni (che deriva dal “peggioramento del rapporto tra pensionati e contribuenti”) è sempre risolvibile se il sistema dell’economia regge dal lato reale, cioè se il lavoro di quelli che lavorano, formalmente e informalmente, è sufficiente per mantenere quelli che non lavorano. E poiché l’economia reale può reggere (grazie anche al lavoro degli anziani) le pensioni, sia pure con progressivi aggiustamenti, si potranno sistemare. Ma è cruciale, perché questo avvenga, che l’enorme potenzialità della popolazione anziana sia messa a frutto.

L’Istat prospetta periodicamente gli scenari della popolazione italiana futura (compresi gli stranieri residenti, naturalmente). Un rapporto del 23 settembre 2023 disegna uno scenario “mediano” (a metà fra le previsioni di massima e di minima decrescita) in cui si prevede che la popolazione passerà dagli attuali 59 milioni di individui a circa 46 nel 2080. Si intravedono in questo periodo 21,5 milioni di nascite, 44,9 milioni di decessi, 18,3 milioni di immigrazioni dall’estero contro 8,2 milioni di emigrazioni.

Alcuni vedono la decrescita della popolazione come un male, altri come un bene, a livello mondiale. Il mondo è oggi sovrapopolato? C’è su questo uno sterminato dibattito fra gli studiosi, che non si può sintetizzare in poche righe. Tuttavia, una cosa non si può contestare: mitigare la crisi climatica con una popolazione di 12 miliardi di persone sarà più difficile che con una di 6 miliardi. E siccome la decrescita della popolazione ne presuppone l’invecchiamento, penso che nel fare un bilancio dei pro e dei contro dei trend attuali, questo punto non lo si possa dimenticare.

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