Speciale

Speciale Aqua / Acqua che sale

30 Ottobre 2018

Acqua che sale, acqua che spinge, acqua che riaffiora. Acqua che cerca e trova la luce. Anzi: la ritrova. Pochi metri in altezza, che sono comunque, moltiplicati per la superficie di quel mare sotterraneo, una massa smisurata. Milioni di tonnellate in movimento. Pesi e contrappesi di un territorio vastissimo che si modificano. Falde stracolme, che tornano a gonfiarsi dopo un secolo di prelievo forsennato, quotidiano, come se qualcuno avesse levato da una vena l’ago parassita che la dissanguava.

 

Il silenzio è un vuoto al termine di un suono e sull’orlo del suono successivo. Nelle cavità incalcolabili degli stabilimenti vuoti, nell’immobilità dei macchinari inerti, nell’assenza impressionante di quelli smantellati, nella fine del lavoro industriale, se si aguzzano le orecchie è possibile udire la remota, profonda vibrazione delle acque sotterranee che risalgono, inesorabili.

È un oceano scuro, perché la luce non lo illumina mai, ma la sua natura è chiara, limpida. È un oceano ossimoro, nero come la notte e trasparente come i sogni. Indifferente alle stagioni, alle volubili correnti di superficie, al gelo invernale e alla canicola estiva, l’acqua di falda ha temperatura costante: tra i dieci e i dodici gradi, mai di meno, mai di più. Lungo i secoli. Lungo i millenni. Lungo le glaciazioni e i disgeli. Tra i dieci e i dodici gradi. Non di meno, non di più. Mentre sotto il cielo la tempesta, la siccità, il vento, l’alluvione, il fuoco modificano continuamente la superficie, sotto la terra l’acqua conserva la venerabile inerzia dell’eternità.

 

L’acqua è salita quanto basta per allagare almeno un paio di stazioni della metropolitana milanese: che senza le idrovore che la pompano via non potrebbe più funzionare, perché l’acqua scorre, là sotto, addosso alle pareti delle gallerie, fiancheggia i binari, sfiora gli ultimi gradini delle scale mobili. L’acqua giace, là sotto, allo stesso livello del passeggero che sta digitando sul suo Iphone e aspetta il suo treno. La suola delle sue scarpe è sulle rive di un oceano. E lui non lo sa.

 

Ph Luigi Ghirri.


L’acqua è salita quanto è bastato al barista Angelo, dalle parti del parco Solari, per accorgersi che il salnitro alle pareti della sua cantina è molto aumentato. Davvero molto. Non solo l’angolino in basso a destra, dietro le casse del Crodino, come è sempre stato da quando Angelo era bambino, e accompagnava suo padre giù per le scale con una certa trepidazione nel cuore, quel buio umido, quello sfiato stantio appena si apriva la porta, quell’odore di polvere fradicia … No, adesso è una parete intera: in un paio d’anni, forse in pochi mesi la macchia ha invaso tutto il muro come un affresco chiaro, cotonoso, misterioso come quei fiocchi fragili e ambigui, metà muffe metà cristalli, metà batteri metà sali minerali. Cammina, il salnitro, dal basso verso l’alto, dal ventre zuppo della terra fino a dove l’ombra riesce a custodirlo. E ci sono goccioline di condensa contro il vetro della bocca di lupo che dà sulla strada, ora bisognerà tenerla sempre aperta … dove torna l’acqua, bisogna far tornare a circolare anche l’aria …

 

L’acqua è salita quanto basta per riaffiorare all’aria aperta dalla bocca incolore di qualche fontanile, che la erutta silenzioso, metodico, tra i fili d’erba pesta dell’umile incustodita campagna che fa da bordo alla metropoli. È solo un piccolo sfiato ma è come quando vedi in mare, a miglia di distanza, il soffio della balena che ti rivela quanto vigorosa e vasta sia la vita, la sotto. È il segno puntiforme di una forza ubiqua e irresistibile. Le sorgenti di pianura sono più sorprendenti, più inattese di quelle dei monti e dei rilievi, perché sgorgano senza una ragione apparente, non favorite dalla pendenza e dallo scorrimento delle acque verso valle. Sgorgano dal basso, contro la forza di gravità, come se il loro sgorgare dipendesse da una misteriosa energia interna. È grazie ai fontanili di acqua risorgiva che l’agricoltura lombarda ha costruito la propria fortuna. La tecnica delle marcite, ora quasi in disuso, consentiva tra i sei e i nove tagli d’erba all’anno. Dislivelli di pochi centimetri bastavano a fare scorrere l’acqua per chilometri, irrigare campi, moltiplicare i raccolti. Gli agronomi e i contadini lombardi conoscevano giustezze da giocatori di biliardo, lavoravano su un panno verde di migliaia di ettari, badavano che i rivi e i fossi, carambolando lentamente, raggiungessero ogni lembo di terra. Ne irrigassero ogni metro.

 

Le marcite della bassa milanese sono all’origine dell’accumulazione originaria del capitale. La falda acquifera della pianura padana è una delle culle del capitalismo europeo. Ma prima di saperlo noi, che l’acqua è oro, anzi prima che noi cominciassimo a dimenticarlo, lo sapevano bene gli antichi. Quasi tutti i luoghi sacri intorno a Milano, le abbazie, le certose, sono sorti nei pressi di acque sorgive, fontanili, polle affioranti, acque limpide e vive che salivano in superficie senza che l’uomo dovesse fare la fatica di scavare pozzi, di frugare nelle profondità. Prima della cristianità in quegli stessi luoghi c’erano templi pagani. Perché l’acqua è sacra. Dovunque zampilla e gorgoglia in superficie, l’uomo si ferma e mette dimora. L’acqua è sacra e lo è da sempre e ovunque, in tutte le civiltà. E ha continuato a esserlo anche durante il nostro lungo evo industriale, che tuttavia per smemoratezza o per pudore o per distrazione – non si sa – al sacro non era molto disposto, e dunque ha usato l’acqua, la terra, il fuoco e l’aria senza mai rendere grazie …

In fin dei conti basta questo, per dare espressione al sentimento del sacro: ringraziare il mondo. Ringraziarlo per esserci: ed essendoci, farci essere.

 

L’acqua è risalita, infine, quanto basta alla pianura lombarda per riconoscere se stessa: la propria natura, la propria consistenza. Quanto basta per chiederci se dobbiamo, sopra tutta quell’acqua, sentirci inquieti oppure rassicurati. Se quell’acqua ci minaccia oppure ci sorregge. Se sta per sommergerci oppure per trasportarci.

 

da Michele Serra, Sull'acqua, Aboca 2018.

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