Speciale

Unità operativa Cotugno di Napoli / Appunti da un reparto Covid

15 Maggio 2021

La pandemia legata al covid-19 ha posto innumerevoli, complesse e gravi sfide al sistema sanitario italiano e ha richiesto massicce modifiche che hanno coinvolto tutti i livelli dell’assistenza sanitaria.

In tale situazione di grave criticità, è stata fortemente evidenziata la necessità della presa in carico anche degli aspetti psicologici, emotivi e relazionali sia dei pazienti sia degli operatori sanitari. Per la prima volta nel nostro paese è stata riconosciuta, anche da ampi settori dell’opinione pubblica, l’importanza della salute psicologica come parte essenziale della qualità di vita, in qualsiasi età e in tutte le fasi del ciclo esistenziale. Sta finalmente emergendo la necessità dell’unitarietà dei percorsi di cura, che non devono essere più centrati esclusivamente sulla malattia, ma sulla persona, con i suoi bisogni soggettivi, il suo vissuto emotivo, le sue relazioni. 

Il mio vertice osservativo è particolare, in quanto responsabile dell’Unità Operativa di Psicologia Clinica dell’Azienda Ospedaliera che include il Cotugno di Napoli (uno dei 3 ospedali infettivologici in Italia, insieme al Sacco di Milano e allo Spallanzani a Roma), divenuto Covid Center, con circa 200 posti letto dedicati. 

 

Alcune delle gravi specificità imposte dal covid hanno immediate ripercussioni sul piano psicologico. Mi soffermo su due aspetti che rendono la situazione particolarmente critica. Il primo è rappresentato dalle necessità infettivologiche di contrasto alla diffusione del contagio, giustamente predominanti. Come è noto, impongono un isolamento assoluto, comportante uno stress ulteriore per i ricoverati, essendo opposte ai loro bisogni emotivi. Infatti, contrariamente a quanto di consueto avviene in un ricovero ospedaliero: 

  • Essi non vedono in viso gli operatori sanitari;
  • Sono separati dai familiari e non hanno visite;
  • Possono percepirsi come "colpevoli" o "untori" durante l’isolamento.
  • Possono produrre fantasie catastrofiche attivate dal virus sconosciuto. 

Ma vi è una seconda drammatica specificità: quasi sempre si ammalano più persone della stessa famiglia. Noi psicologi diciamo che ogni malattia importante è sempre una malattia “familiare”: sia perché investe i parenti che a loro volta vivono una condizione di forte stress, sia perché essi sono sempre la risorsa più importante. Quindi proviamo a prenderci cura di tutto il sistema familiare, con questo duplice orientamento. Ma, in questo caso, si ammalano davvero interi nuclei familiari, genitori e figli, coniugi, fratelli e sorelle. Questo, fra i tanti aspetti, è forse il più significativo dal punto di vista psicologico, unendo il timore per la propria salute con quella dei familiari. 

 

Infatti, i pazienti ricoverati ci hanno raccontato spesso che, più che l’isolamento in sé, separati anche dagli operatori sanitari, ciò che li tormentava fosse il distacco dai familiari, sapendo che alcuni di essi erano a loro volta ammalati. Con il miglioramento delle condizioni cliniche subentra l’impotenza per l’impossibilità di essere d’aiuto alle persone che ami, con il desiderio di dare sostegno, mentre invece si è costretti a essere separati. Perfino il rito del funerale, soprattutto nei primi mesi dello scorso anno, in molti casi fu vietato o fortemente limitato. Tra l’altro, non incontrare i familiari è esattamente l’opposto di ciò che suggerisce la psicologia ospedaliera, eppure è assolutamente inevitabile nel rispetto del distanziamento.

 

Un aspetto specifico del mio lavoro, marginale in termini quantitativi ma di rilievo dal punto di vista culturale e clinico, concerne l’assistenza psicologica a coloro che hanno perso un congiunto per covid. 

L’argomento della morte come tappa naturale riveste una centralità assoluta, eppure difficile da affrontare. L’espulsione di questo tema nella società occidentale è un dato di fatto. Le cause di tale disattenzione sono complesse e hanno ragioni di origine religiosa, filosofica, economica, sociale. La rimozione, secondo alcuni, riguarderebbe finanche la psicologia. Infatti, Irvin D. Yalom (Psicoterapia esistenziale, Neri Pozza 2019) crede che l’angoscia legata alla morte, propria e dei propri cari, sia uno dei temi fondamentali nella vita di tutti, fondante del nostro mondo psichico, sottovalutato o negato dagli psicologi, a partire da Freud.

 

 

L’assistenza psicologica nelle fasi di lutto è un lavoro complesso richiedente solida preparazione ma soprattutto un impegno emotivo non da poco. Si tratta di un’attività che dovrebbe essere valorizzata, per la funzione importante che svolge. Agli psicoterapeuti capita sovente di ascoltare pazienti che, a loro avviso, fanno risalire l’origine delle proprie difficoltà, tempo addietro, alla morte di un familiare importante. A distanza di anni, in seduta tentano di trovare un senso a quanto accaduto. 

Recentemente in tutt’Italia sono nate iniziative importanti, a volte attivate dagli stessi familiari e i social media hanno favorito la realizzazione di gruppi di auto-aiuto e di sostegno psicologico. Tuttavia, non è ancora diffusa la necessità di questo tipo di intervento, anche se ovviamente va detto che tra quanti subiscono un lutto non tutti fanno richiesta di assistenza psicologica.

 

Il tema non riguarda la sola psicologia, ma è innanzitutto etico e culturale. Etico perché è un dovere della collettività essere vicino a queste persone (ad oggi 118.000 morti in Italia), così come alle famiglie con bambini oncologici o con deficit psichici. Se l’uomo, di fronte a una tragedia così immane, non è capace di riscatto, non ci sarà alcun progresso. Se le calamità esaltano soltanto gli egoismi, i difetti, il bisogno di accaparramento, inevitabilmente ci attendono tempi tristi. Ci sarà progresso collettivo solo se i tanti dolori personali a cui assistiamo ci aiuteranno a sviluppare solidarietà e rispetto. Il secondo aspetto è culturale: bisogna smettere di eliminare finanche il pensiero della morte dalla nostra società. Occorre dare risalto al tema del lutto, per quanto doloroso e difficile. Ciò servirà a formare operatori capaci di aiutare chi affronta questa tappa, ma soprattutto può contribuire a sviluppare una consapevolezza collettiva. La morte non si sconfigge cercando di ignorarne l’esistenza. Dare dignità al dolore è un compito etico, prima ancora che professionale, per tutta la collettività.

 

Gli psicologi, ovviamente, non hanno il potere di evitare la sofferenza alle persone, ma possono aiutare a dare un senso ad essa.

Questo argomento apre all’altro tema che mi sta a cuore: come convivere con la malattia organica.

Essa è considerata, nei modelli del ciclo di vita, un evento critico con importanti conseguenze psicologiche individuali e familiari. Tuttavia, come ogni evento critico, anche la malattia, oltre al suo carico di sofferenza, dolore, preoccupazioni, può contenere elementi favorenti la crescita personale. 

Me lo fece notare, per la prima volta, ormai oltre 25 anni fa, un paziente sieropositivo. Era stato un tossicodipendente “duro”. Non aveva risolto la sua dipendenza, nonostante percorsi in comunità, carcere e terapie farmacologiche. La scoperta di essere affetto dall’Aids fu invece la molla che provocò un cambiamento radicale. “Io sono diventato una persona migliore”, mi raccontò in seduta, “la malattia mi ha cambiato in meglio. La scoperta di non aver tanto tempo mi ha fatto venir voglia di essere un padre migliore, di recuperare tutto il tempo perduto con i miei figli, di dedicarmi alle persone che per tanti anni mi sono state vicine, nonostante non lo meritassi”. Quest’uomo, di modesta estrazione culturale, era straordinariamente lucido nel descrivere in modo chiaro il suo percorso di cambiamento. Non ho dimenticato le sue parole. 

 

È un’osservazione condivisibile da chiunque lavori in ambito sanitario: le reazioni individuali alla malattia possono variare molto da persona a persona. È indubbio che le più frequenti siano di tristezza, rabbia, depressione, ansia, isolamento. Si tratta di una iattura, una disgrazia, talvolta una tragedia. Ciò non va mai dimenticato e vanno evitate banalizzazioni poco rispettose ma è altrettanto certo si può reagire all’esperienza di malattia in modo diverso. 

È infatti innegabile come per alcuni, certamente una minoranza, ma non tanto rara come si potrebbe pensare, il contatto con la sofferenza, dopo una fase di accettazione, abbia un potere trasformativo. Si riesce a convivere con la malattia senza peggiorare la qualità della vita. In taluni casi, le relazioni diventano persino più ricche, profonde e significative. Chi ha descritto in modo magistrale questo processo è Severino Cesari nel libro Con molta cura, edito nel 2017 da Rizzoli.

Ciò che tale dolorosa esperienza consente è, in pratica, una corretta ricollocazione delle proprie priorità esistenziali, mettendo al primo posto ciò che davvero conta: gli affetti. La possibilità di realizzare tale processo dipende innanzitutto dalle risorse personali e familiari. 

 

A me, però, interessa il ruolo degli operatori sanitari. Come possano sviluppare capacità per aiutare i pazienti e i loro familiari a convivere al meglio possibile, per quelle che sono le loro esigenze, con la malattia. Quali competenze devono possedere medici e psicologi per incidere su queste forti disparità esistenziali, senza essere spettatori passivi della resilienza altrui? Come dovrebbero cambiare i modelli formativi universitari? Si può insegnare a convivere con la malattia, trasmettendo agli altri il senso di profondo rispetto e cura per la vita?

L’accompagnamento nell’ultima fase della vita e l’assistenza alle persone in lutto sono quindi strettamente connessi a questo modo di intendere l’assistenza psicologica e sanitaria in genere. Le conoscenze scientifiche provenienti dalle discipline umanistiche indicano la strada per promuovere, accanto ai progressi tecnologici, una cura medica più globale, più efficace, più vera.

La morte può aiutarci a ricordare che la vita non è solo evitare la sofferenza, non è nemmeno la corsa alla felicità, ma è innanzitutto ricerca di senso e consapevolezza. Sono discorsi complessi e difficili, magari da fare a voce sommessa, ma occorre che siano affrontati da tutti.

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