Centre Pompidou / Christian Boltanski, i mille volti del tempo

18 Febbraio 2020

Che aspetto indicibilmente terribile deve avere! Certo, il suo volto non può aver sofferto per l'invecchiamento; lo immagino come se avesse più volti, ognuno dei quali riflette uno dei periodi che ha vissuto e tutti insieme si combinano in tratti sempre nuovi, mentre infaticabilmente, e invano, cerca attraverso le sue peregrinazioni di ricostruire dai tempi che lo hanno plasmato, il tempo unico che è condannato a incarnare.” 

Questo è Ahasuerus, l’ebreo errante, nelle parole che Siegfried Kracauer sceglie per descriverlo nel saggio postumo Prima delle cose ultime, così da farne l’allegoria dell’enigma del tempo. Egli è, infatti, una figura dai mille e un solo volto, immaginato alla fine dei tempi nell’atto di voltarsi indietro per gettare uno sguardo d’insieme sulle sue peregrinazioni cronologicamente “fuor di sesto”. Prima di disintegrarsi, questo sarà il suo tentativo disperato di comprendere il tempo presente, unico orizzonte in cui è condannato a vivere.

Christian Boltanski, che al Centre Pompidou presenta Faire son temps, sembra incarnare questa stessa figura: trentacinque anni dopo la sua prima mostra negli spazi del museo parigino, Boltanski concepisce non una retrospettiva, ma uno sguardo d’insieme sulla sua lunga attività d’artista, una peregrinazione non cronologica che ambisce a risolvere gli enigmi del tempo e della memoria. Di volti, anche in questa traversée d’artista, ve ne sono mille e uno: essa si apre significativamente con le 27 possibilités d’autoportrait, 27 autoritratti che ricombinano i tratti del volto di Boltanski, adulto e bambino, in altrettante e sempre nuove combinazioni, preludio ai mille volti che popolano le sale in cui le 40 opere sono esposte. Ahasuerus dunque si mostra, ma ciononostante permane inafferrabile nella sua identità mutante, fallendo già da subito nel tentativo di darsi una forma, un volto. 

 

Laddove Ahasuerus fallisce, riesce però la seconda figura che Kracauer introduce, nel suo testo sull’enigma dei tempi, per interrogarsi sul tempo che appartiene alla memoria: Proust e il suo doppio, Marcel. Come Ahasuerus, Marcel e Proust fanno l’esperienza della discontinuità del tempo, di quegli istanti atomizzati che ne costituiscono l’insolubile antinomia; solo Proust autore potrà però scoprire che la discontinuità degli attimi della vita di Marcel doveva servire al compimento del romanzo, solo l’artista sarà in grado di redimere questi momenti “incorporandoli”, come dice Kracauer, in un’opera senza tempo. Boltanski è allora non solo Ahasuerus, ma anche Marcel e Proust. L’arco temporale che egli ci invita ad attraversare è teso tra un Départ, 2015 e un’Arrivée, 2015, per ritessere le fila di una lunga esperienza d’artista, senza nutrire però nessuna preoccupazione di continuità o di totalizzante intelligibilità: si tratta, come per Proust, di redimere tutti i momenti che hanno costituito ciò che lo stesso Boltanski definisce il suo “continuo fallimento” nella lotta alla scomparsa e all’oblio. 

 

Départ, 2015.


J’ai décidé de m’atteler au projet qui me tient à coeur depuis longtemps: se conserver tout entier, garder une trace de tous les instants de notre vie, de tous les objets qui nous ont côtoyés, de tout ce que nous avons dit et de ce qui a été dit autour de nous, voilà mon but. (Ho deciso di mettermi al lavoro sul progetto che mi sta a cuore da molto tempo: conservarsi interamente, tenere traccia di ogni momento della nostra vita, di tutti gli oggetti che ci sono stati intorno, di tutto ciò che abbiamo detto e di ciò che è stato detto su di noi, questo è il mio obiettivo.)

 

Anche se “tutti i tentativi di lottare contro la morte, contro la scomparsa, sono vani”, l’artista e l’uomo non rinunciano alla possibilità di una redenzione. È così che il volto diventa, in Faire son temps, la cifra di questo tentativo. I molti volti dell’artista si accompagnano, nel percorso della mostra, a tutti gli altri: fantasmi, come nei Fantômes de Varsovie, (2001), i 1200 “umani” di Menschlich (1994), anonimi, bambini, famiglie, Suisses morts (1991), scolaretti, giovani donne, perché nel volto, scriveva Lévinas, “l’assoluto è alla portata del mio sguardo”: nel suo rifiuto di essere contenuto, oltre la figurazione, i tratti, i contorni, il volto sfida e trascende la morte. Ecco forse un escamotage per sfuggire alla vertigine della fine del tempo che ci è dato di vivere. 

 

Et je dis toujours que c’est le rêve d’un artiste de ne plus avoir de visage […] la destruction de lui-même en tant qu’individu pour le remplacer avec une image collective. (E dico sempre che il sogno di un artista è di non avere più volto [...] la distruzione di se stesso in quanto individuo per sostituirlo con un'immagine collettiva.). 

 

 

Svincolarsi dal proprio destino singolare, sostituire al proprio volto degli specchi (Miroirs Noirs, 2015)J’aime dire qu’on a un miroir à la place du visage (Mi piace dire che abbiamo uno specchio al posto del volto) – fare di sé un’immagine collettiva e anonima; fare dell’opera un modo per redimere la vita; e della vita tutta, un’opera. Presagi di morte e giochi d’infanzia (Théatres d’ombres, 1984-1997) convivono nello spazio messo in scena dalla mostra, che è anche un gioco, infatti, libero e serio, come scriveva Georges Didi-Huberman (Remontages du temps subi. L’oeil de l’histoire 2) a proposito dell’artista francese che ha fatto dell’infanzia, della sua in particolare, e della nascita come destino collettivo, il trauma dal quale è possibile creare. La vita diventa l’opera impossibile (La Vie Impossible de C.B., 2001), l’opera l’unica guarigione possibile: L’homme qui tousse (1969) e che vomita sangue, un corto degli esordi proposto in apertura, significativamente accanto alle 27 possibilità di autoritratto, detta così la tonalità emotiva dell’esperienza che il visitatore dovrà compiere. Essa sembra dirci che guarire dal male della vita è una catarsi dolorosa, e fornisce una precisa indicazione su quello che ci aspetta: il visitatore non sarà mai di fronte all’opera, sarà sempre al suo interno, ne farà parte. 

 

On n’est pas devant une œuvre mais on est à l’intérieur d’une œuvre et soi-même on fait partie de l’œuvre (Non si è di fronte a un'opera, ma si è all’interno di un'opera e si fa parte dell'opera). 

 

Quei volti siamo dunque noi, le assenze che essi evocano riguardano ognuno di noi. Forse anche quest’aspetto della sua attività fa parte dell’approccio grand public che Boltanski rivendica, di un’arte che parla a tutti, che cerca incessantemente di incontrare il nostro sguardo. Anche in questo caso, il visitatore non resta deluso, né spiazzato. I temi e i motivi che hanno fatto di Boltanski uno dei maggiori artisti contemporanei sono tutti ben presenti, così come molte delle grandi opere e dei materiali che caratterizzano il suo lavoro: le fotografie e gli abiti in particolare, usati dall’artista quasi fossero sinonimi, presentati entrambi come la traccia di un corpo morto, “un oggetto che rinvia a un soggetto e alla sua assenza”, dice Boltanski. La parete su cui si dispiega l’Album de photos de la famille D., 1939-1946 (1971) e le due installazioni presentate insieme, Le terril Grand Hornu (2015)/Les Registres du Grands Hornu (1997), si richiamano da un punto all’altro dell’esposizione. La prima – opera già presentata in occasione della Documenta 5 di Kassel – mostra una galleria di ritratti, figure vive, sorridenti, scene familiari e comuni che appaiono in fotografie ingrandite e sfuocate, quasi a voler rendere il punctum più fluido e volatile; le seconde evocano invece il motivo dell’assenza e della scomparsa di vite nell’anonimato, nella massa, sommerse dalle stoffe che ne hanno, un tempo, ricoperto i corpi lavoratori. Nomi, date, abiti scuri (evidente il riferimento à Personnes, 2010, presentata al Grand Palais) flebilmente illuminati, si accompagnano alle note scatole, agli archivi, alle lampadine, intermittenti (Cœur, 2005) o evanescenti (Crépuscule, 2015). 

 

Crépuscule, 2015.


La grande storia che fa da sfondo alla vicenda personale e artistica di Boltanski, la crepa da cui nasce l’impulso di creare, lascia spazio alle piccole vite di ciascuno di noi. Il suo uso della fotografia è in questo esemplare, come evidenzia Danilo Eccher (Christian Boltanski, Danilo Eccher, Paolo Fabbri e Daniel Soutif, Christian Boltanski, Charta, Milano, 1997) a proposito di L’abbecedario di CB, associando le parole che il fotografo di Italo Calvino pronuncia nel corso delle sue avventure alle parole di Boltanski: “Forse la vera fotografia totale – pensò – è un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni” (“L’avventura di un fotografo”, in Gli amori difficili).

 

Misterios, 2017.


Le risposte sul segreto dei tempi delle nostre vite e di quello dell’universo si nascondono da qualche parte in queste opere, sepolte forse sotto la massa di abiti sgualciti, o dietro i teli leggermente sollevati da un ventilatore, che concedono pochi e fugaci sguardi sulla violenza, sulla morte (Les Concessions, 1996). O forse altrove, nel nord della Patagonia, dove Boltanski installa le sue trombe attraversate dal vento per stabilire una comunicazione con le balene (Misterios, 2017): la leggenda lì vuole che siano questi cetacei a custodire i segreti del principio dell’universo, e Boltanski ci permette di fare l’assurda esperienza di chiedere loro una risposta sul nostro destino, che fatalmente, l’avrete capito, non arriverà. L’opera mostra e ci fa sentire, su tre schermi attigui, le trombe che risuonano; una carcassa di una balena, che ha custodito con sé il segreto fino all’ultimo; e un vasto orizzonte marino, il vuoto del mancato responso. Queste grandi trombe non resisteranno al tempo, veniamo informati che esse saranno abbattute o portate via dal vento. O forse si disintegreranno, proprio come Ahasuerus, nel momento immaginario in cui riusciranno a captare l’agognata risposta. 

 

Delle sale in cui si articola la mostra, quella che ospita le Réserves. Les Suisses morts (1991) lascia senza fiato: dopo aver attraversato i volti impressi sui veli di Les Regards, 2011, ci si trova davanti ad un’articolata scenografia. Il panorama creato dalle torri di queste riserve, di questi archivi, dialoga con la vista ad ampissimo raggio e dall’alto sulla città di Parigi. La città dei morti e quella dei vivi si contendono l’attenzione dei visitatori, e dei loro smartphone. “Oh, il y a un super panorama ici!”. È facile immaginare quale avrà la meglio.

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