II / Cinque domande sullo scenario futuro

Con queste cinque domande ci prefiggiamo di individuare i nodi che la crisi sanitaria del Covid-19 con le sue conseguenze ha provocato a livello mondiale, con l’idea che, come disse anni fa un economista americano, la crisi, per quanto terribile, è un’occasione da non perdere.

 

Francesca Rigotti, filosofa

 

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

 

La pandemia ha prodotto ovunque un immenso ricorso agli strumenti hightech, oltre che biotech. Ora, si sarebbe immaginato anche soltanto negli anni '90 di chiudere in casa tanta gente (non tutta: la società è stata spaccata in due: chi doveva/poteva lavorare e comandare e chi no, mentre i bambini sono stati privati di diritti essenziali)? Ci sarebbero state queste chiusure se non ci fosse stata Internet? Se non si fosse pensato: “Faranno il telelavoro, giocheranno e forse seguiranno le lezioni con smartphone e tablet, passeranno la giornata dietro alle notizie o visitando siti online di musei, ascoltando musica, scambiandosi notizie sul nulla”? Penso di no. L'esistenza di Internet ha giustificato e permesso l'arresto domiciliare e impedito di pensare ad altre misure; e questi strumenti continueranno a imperversare portando danni all'istruzione, limitando la privacy, intensificando i controlli. A ogni crisi recente abbiamo assistito alla recrudescenza di queste misure. Qualche aspetto positivo ci sarà, se il telelavoro permetterà di non doversi più spostare ogni giorno. Temo di più comunque gli effetti negativi che si adotteranno, ricorrendo alle nuove tecnologie, per sorvegliare e risparmiare (sull'istruzione e sulla sanità, dove altrimenti?).

 

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose? 

 

Immagino che la Cina cercherà di estendere la sua egemonia presentandola come benevola; sarà l'amico forte e bonario che in realtà avvolgerà e soffocherà con le proprie condizioni i paesi in difficoltà che se ne lasceranno morbidamente avvolgere, senza capire o senza tener conto del fatto che la attuale Cina è una dittatura capitalista antiliberale basata sul disprezzo dei diritti umani e sulla sorveglianza generalizzata che verrà estesa agli stati vassalli.

 

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamente della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

 

Temo, temo molto che al di là del rispetto che ancora troverà nelle anime belle, il culto della tecnologia (di cui al punto uno) soffocherà i pochi luoghi dove l'umanesimo è ancora presente, riducendolo a un'orchidea secca. Lo temo anche se io personalmente continuerò a battermi perché ciò non avvenga e mai mi arrenderò a chi ritiene la partita definitivamente persa.

 

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

 

Élites? Quali élites? Magari ci fossero delle élites tra i governanti dei paesi. In Italia di sicuro non ne vedo. Ci sono in senso letterale, perché i governanti sono stati “eletti”. Ma che siano degli “eletti” nel senso di persone pregevoli e di alta qualità, mi dispiace, no. Mi ero illusa sulle sardine, ma quando ho sentito il loro leader dichiarare in televisione che il presidente del consiglio si comporta bene perché agisce “da buon padre di famiglia” ho colto nell'uso dell'immagine paternalista (diffusa anche dalle terribili ripetute sentenze “state a casa” o, ancor peggio, “lo facciamo per il vostro bene”) la profonda ignoranza dei principi democratici. Della Cina ho detto, che esce incredibilmente rafforzata nel suo sistema economico finto comunista e vero capitalista autoritario. Per gli USA vedo un forte declino.

 

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

 

Spero intensamente che i movimenti verdi riescano a imporre altre condizioni di sviluppo che oltre che far del bene al pianeta potrebbero anche spianare alcune disuguaglianze grossolane, imponendo misure che evitino gli incassi spropositati dei giganti del Web. Se qualcosa di nuovo verrà la immagino proveniente dai paesi del Nord nei quali la coscienza ecologica è molto più avanzata che nel sud dell'Europa. 

 

Davide Sisto, filosofo

 

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

 

Per misurare i cambiamenti che sta producendo la pandemia del coronavirus occorre, a mio avviso, porre la propria attenzione sul vocabolario attualmente in uso. All’improvviso, lo spazio pubblico ha cominciato a utilizzare in modo reiterato parole come “assembramento”, “distanziamento sociale”, “lockdown”, “patologia pregressa”. 

L’aspetto più interessante è il legame tra la situazione di emergenza e l’attribuzione di un significato positivo a termini che generalmente indicano un che di negativo (il “distanziamento sociale”) e, viceversa, di un significato negativo a termini che generalmente indicano un che di positivo (il “contatto fisico”). Ora, questo tipo di attribuzione di significato ha un suo senso specifico nel periodo temporalmente limitato di una emergenza. Ma, se ha ragione Yuval Noah Harari quando sostiene che i provvedimenti d’emergenza a breve termine diventano parti costitutive della quotidianità, poiché è la natura stessa delle emergenze a determinare un’accelerazione dei processi storici, allora si corre il rischio di creare patologici modelli sociali a partire da condizioni di vita del tutto eccezionali e temporanee. Sono giorni che leggiamo, per esempio, sui giornali previsioni di un futuro privo di abbracci tra le persone, in cui la didattica online e lo smart working diverranno predominanti nel mondo dell’istruzione e del lavoro, in cui si baratterà la visita “fisica” ai musei con quella “virtuale” stando nelle proprie abitazioni, in cui i cinema si muteranno nei drive in di “paninara” memoria e in cui, infine, gli unici concerti che vedremo saranno quelli registrati e condivisi su YouTube. Addirittura, circolano in Rete diversi – deliranti – articoli sugli Hikikomori quali modelli da seguire nella nuova vita post-Coronavirus.

In altre parole, il cambiamento generato dal Coronavirus sembra tradursi nel baratto della vita offline con una vita interamente online, creando un danno epocale per un numero incalcolabile di lavoratori. Congelati i corpi nei singoli appartamenti, si lascia libero arbitrio alle identità digitali, non soggette ai rischi che corrono le identità fisiche. Questo baratto, in fondo già in parte previsto da una società intesa a puntare tecnologicamente sugli avatar e sugli ologrammi degli esseri umani, non tiene conto che la medicina è peggiore della malattia che intende curare. Sotto molteplici punti di vista: da quello sociale a quello psicologico, da quello economico a quello culturale. 

Al di là della necessaria prudenza in un’epoca segnata da una pandemia molto pericolosa, lasciare campo libero alla paura dell’altro – che mi può contagiare o che, viceversa, io posso contagiare – significa creare una società ipocondriaca che accentua la sfiducia nei confronti delle relazioni umane ed enfatizza le differenze. Lo “stare a casa” in modo non problematico implica, infatti, specifici confort nelle abitazioni, un limpido benessere psicofisico, lavorativo, economico e familiare, nonché una marcata capacità a utilizzare gli strumenti digitali. Tutte varianti che, in linea generale, sono assenti nella maggior parte della popolazione. Inoltre, sorvolando sui disastri economici che l’emergenza produrrà e sull’eterogeneità del mondo del lavoro, la diffidenza nei confronti dell’altro rischia di accentuare quella chiusura in sé – e all’interno del proprio piccolo nucleo di appartenenza – da cui non possono che seguire conseguenze nefaste sul piano politico e culturale (del tutto a vantaggio dell’estremismo nazionalista e delle peggiori forme di sovranismo populista). 

Ecco che si ritorna al punto di partenza: il linguaggio. Sarebbe opportuno pensare che i cambiamenti, con cui ci dovremo confrontare, non devono implicare situazioni di “aut-aut”, accentuate dal facile uso di termini che attribuiscono un valore qualitativo all’alienazione. Bisogna, cioè, gestire con la corretta dose di razionalità la vita pubblica, investendo sulla sanità e integrando la dimensione offline con quella online: non è positivo creare un mondo in cui l’essere un Hikikomori rappresenti la norma corretta, in quanto alla mercé di un sistema sanitario carente per colpa della miopia politica. Facendo così, si debella un virus per svilupparne molti altri, più devastanti a lungo termine. 

 

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose? 

 

Preferisco non addentrarmi nel campo della globalizzazione economica, per non dire banalità da bar in quanto privo delle competenze necessarie per fornire una chiave di lettura che sia quantomeno acuta. Mi soffermo, invece, sul tema della comunicazione planetaria, che rientra nelle mie competenze di ricerca. Ritengo che il Covid-19 abbia portato alla luce due tendenze radicalmente contrapposte relative al rapporto tra la dimensione online e la dimensione offline. 

Da una parte, ha evidenziato quanto le due dimensioni siano integrate l’una nell’altra. Nel momento in cui i nostri corpi sono stati congelati negli appartamenti, ci siamo affidati alle nostre identità digitali, il cui compito è la narrazione collettiva dell’evento in corso. Camus, in La Peste, racconta che, almeno nella prima fase di quarantena, i cittadini non hanno più modo di comunicare tra loro: vietato lo scambio di corrispondenza cartacea (le lettere possono, infatti, diventare veicolo di contagio) e limitate le comunicazioni telefoniche per i casi urgenti (la morte, la nascita e i matrimoni), restano a disposizione delle persone i soli telegrammi. «Creature legate dalla mente, dal cuore e dalla carne – scrive Camus – furono ridotte a cercare i segni dell’antica comunione nelle maiuscole di un dispaccio di dieci parole».

A leggere oggi questa frase viene da sorridere. I social network, quali autobiografie culturali collettive, mettono ciascuno di noi nella condizione di contribuire alla narrazione collettiva e intergenerazionale della pandemia. Le parole, le immagini e i suoni danno forma alla nostra corporeità digitale, la quale coincide con il messaggio che veicoliamo con e verso gli altri. Pensiamo alle video-chiamate, diventate gli strumenti essenziali per mantenere il legame tra i sani e i malati, e ai funerali in streaming, alternative tecnologiche ai classici riti funebri. Non solo autobiografie culturali collettive, anche enciclopedie dei morti. Pensiamo, a proposito, a una destabilizzante pagina Facebook come “Noi denunceremo”, in cui i parenti dei morti in Lombardia raccontano nei minimi dettagli le loro vicende personali, taggando – molto spesso – i cari che non ci sono più e, pertanto, rinviando i lettori ai loro profili colmi di dati biografici. 

 

 

La quantità di dati prodotti nei social network, nonché in ogni luogo frequentato in Rete, modifica in maniera sostanziale la dialettica tra scrittura e lettura a cui siamo abituati, rivoluzionando le regole delle narrazioni e delle comunicazioni. Come osserva Kenneth Goldsmith, «il web funziona sia come luogo di lettura che di scrittura: per gli scrittori è una grande scorta di testo da cui costruire letteratura; i lettori fanno la stessa cosa, tracciando sentieri attraverso questo groviglio di informazioni e finendo per fare anche da filtro» (CTRL+C, CTRL+V – scrittura non creativa, p. 187). Le sintassi normativo-descrittive, che connotano in particolare il tipo di scrittura sviluppato man mano dai social network, permettono agli stessi lettori di diventare a loro volta scrittori, trasformando sé stessi da creatori e accumulatori seriali di dati a biografi della propria vita. Essi plasmano, cioè, la propria memoria autobiografica giorno dopo giorno, contribuendo a tratteggiare contemporaneamente il profilo biografico altrui. 

Da un’altra parte, invece, il Covid-19 ha evidenziato quanto le due dimensioni online e offline possano essere in contrasto tra loro. L’ho sottolineato nella risposta precedente. L’aver barattato – per emergenza – la presenza fisica con quella digitale spinge molte persone a credere che la seconda possa fare a meno della prima. La sostituzione, già ampiamente in corso là dove l’iperconnessione diviene patologica e si fanno esperimenti per renderci immortali sottoforma di spettri digitali, è enfatizzata dalla precarietà della attuale situazione sanitaria. Sembra che sia in corso la rivincita della più ingenua forma di dualismo cartesiano, per cui ai corpi mortali si contrappone la forza immortale dei loro avatar digitali. Sono all’ordine del giorno gli scenari distopici relativi a una vita in cui il congelamento dei corpi, necessario per proteggerli, va di pari passo con la realizzazione del mind uploading nella sua versione meno estrema (l’identificazione del sé con il profilo social). 

Come già evidenziato, occorre essere molto attenti a fare in modo che la sostituzione non prevalga sull’integrazione, scambiando quindi la protezione della vita biologica con una sua reclusione forzata a tempo indeterminato. Tale scambio dimentica volutamente il ruolo inevitabile della morte quale elemento costitutivo del nostro stare al mondo. 

In definitiva, occorre cercare di trarre le opportunità che ci offrono le identità digitali, messi i corpi momentaneamente in standby, senza – per questo – identificarci completamente con loro. 

 

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

 

Mai come oggi le discipline umanistiche devono avere il coraggio di entrare in scena nello spazio pubblico. L’incredibile sviluppo delle tecnologie digitali e della scienza, quali principali motori del cambiamento in corso, rischia di generare più criticità che opportunità se non sostenuto dalle discipline umanistiche. Negli ultimi 15-20 anni abbiamo vissuto trasformazioni tecnologiche che non hanno precedenti nella storia. Per comprenderle e interpretarle, nonché per trarne i vantaggi più proficui per tutti, è necessario utilizzare gli strumenti concettuali e razionali forniti dallo studio attento e reiterato delle materie umanistiche. 

Invece, noto che il mondo umanistico, a tratti eccessivamente reazionario e tradizionalista, tende ad assumere un atteggiamento di distacco o di critica pregiudizievole nei confronti di ciò che definisce – in maniera anacronistica – come “Tecnica”. Non serve a niente autoflagellarsi, esclamando con le lacrime agli occhi “O tempora, o mores!”; serve invece maturare uno sguardo vigile ed equidistante tanto dal facile entusiasmo quanto dal melodramma apocalittico. I problemi dell’umanità sono sempre gli stessi, semplicemente mutano forma man mano che prolunghiamo noi stessi tramite le nostre identità digitali. La filosofia, la psicologia, la sociologia, l’antropologia, ecc. sono discipline che permettono di offrire soluzioni e risposte che le discipline tecno-scientifiche non sono in grado di dare. 

Personalmente, lo noto nel campo in cui mi sono specializzato, la Digital Death: la morte è sempre la più grande paura e il più grande mistero per l’essere umano. Soffriamo per la morte altrui nello stesso identico modo di chi ci ha preceduti. Il morto resta, per definizione, l’incarnazione della presenza di un assente, spingendoci a inventare ogni sotterfugio per plasmare la memoria individuale e collettiva, di modo da trattenere il morto con noi. Oggi, disponiamo di particolari strumenti tecnologici e scientifici che forniscono soluzioni inedite al nostro desiderio di essere eterni e alla volontà di ricordare e mantenere viva la memoria. Per rendere tali strumenti proficui e non problematici le discipline umanistiche sono fondamentali. Tuttavia, tali discipline devono svegliarsi e uscire dalle sabbie mobili in cui tendono, troppo stesso, a stare con assoluta convinzione. 

 

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

 

Si sostiene generalmente che il sistema tecnico-scientifico si stia posizionando al centro della scena del mondo, mettendo in disparte le élites politiche ed economiche. La pandemia attuale ha evidenziato, indubbiamente, il ruolo primario degli scienziati che si pongono accanto ai capi di Stato per affrontare l’emergenza. Penso che sarà sempre più consueta un’integrazione tra il piano politico “tradizionale” e quello – diciamo – più tecnologico e scientifico. Dove ciò possa portare non lo so, non essendo un esperto. Così come, a naso, non sono molto convinto che la crisi sanitaria rappresenterà un duro colpo per il sistema capitalistico vigente, come in tanti auspicano. Temo, semmai, che tale sistema sarà molto abile a reinventarsi e a mettere a frutto, a danno dei più, le sue prerogative in una fase storica di enorme debolezza sociale, culturale, economica e lavorativa.

 

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

 

Sono estremamente pessimista a riguardo. Pertanto, credo che le diseguaglianze sociali, ben enfatizzate dall’emergenza sanitaria, tenderanno ad aumentare. Abbiamo visto, in questo ultimo mese e mezzo, che tanto è facile dire “tutti a casa” quanto è difficile stare concretamente a casa. Non è scontato averne una, non è scontato potersi permettere di non andare a lavorare in un posto fisico, non è scontato disporre di una abitazione le cui caratteristiche rendano agevole la quarantena, non è scontato disporre di un equilibrio psicofisico che permetta l’immobilità dei corpi, non è scontato disporre di una serena condizione familiare e sentimentale, non è infine scontato avere gli strumenti tecnologici necessari per sopperire alle mancanze fisiche. Contemporaneamente, abbiamo visto che, come sempre succede, non tutti i malati hanno avuto gli stessi trattamenti e che molte morti sono il risultato di un’incuria gestionale e di anni e anni di devastazione della sanità pubblica. 

Dubito che, una volta usciti dalla condizione di emergenza, queste diseguaglianze non verranno ulteriormente ampliate. Ciascuno pensa per sé e gli Stati non hanno né la capacità di affrontare razionalmente la situazione né i mezzi economici per venire incontro a tutte le esigenze. Temo che ognuno dovrà arrangiarsi e che i più deboli soccomberanno facilmente. A meno che non si riscopra, in extremis, una solidarietà sociale e collettiva autentica che, andando oltre gli inutili inni nazionali suonati alle ore 18, renda concreto il senso di appartenenza all’umanità. 

 

Luigi Zoja, psicoanalista

 

1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.

 

A. Metto in una unica risposta l’elemento sociale e quello culturale. Per valutare l’impatto sui nostri stati d’animo profondi, e quindi sui comportamenti, bisognerebbe sapere quanto durerà il lock-down. Più dura e più cambieremo. E, se ci fosse una seconda ondata di virus, a parità di durata della chiusura totale lo scossone alla nostra ingenua onnipotenza sarebbe più profondo. Se i politici dessero la priorità alla nostra salute, come dicono, dovrebbero proseguire la chiusura – con poche selezionate attenuazioni – fino a quando non sarà pronto un vaccino o altro medicinale almeno parzialmente di concreta efficacia: cosa che non avverrà. Supponiamo che si torni al lavoro intorno ad agosto. Di “vacanze” ne avremmo già fatte, e il concetto stesso di vacanza andrebbe riformulato. In Italia e nel mondo per l’individuo medio potrebbero cambiare un poco le priorità: meno consumi esteriori – vesti, automobili, viaggi, cene e aperitivi – più consumi interiori: letture, buoni spettacoli, musica. In Italia in particolare, paese estroverso e molto colpito, il riadattamento sarà una mazzata su certi lati di temperamento “simpatici” ma adolescenziali e che ci rendono fragili. Nel comportamento quotidiano potrebbe per es. esserci un certo ritorno alla cucina tradizionale: richiede più tempo ma è comunque un nostro “capitale storico-sociale” che si stava diluendo. Potrebbero diminuire i “giochi di semi-coppia” (stiamo insieme ma intanto incontro, nascostamente o apertamente, una terza persona) sostituiti da posizioni più adulte (ci separiamo; oppure: data la mia età considero il rapporto di coppia definitivo). Le coppie ora costrette a stare insieme potrebbero dividersi in modo più deciso. Oppure, fra 9 mesi, potremmo constatare che, dopotutto hanno una buona intimità. Nel post-moderno ci sono coppie che sembrano mal assortite, perché confessano di non avere, o quasi, rapporti. Ma di fatto non passano tempo insieme, e quando capita sono troppo stanche.

B. Dal punto di vista economico, l’Italia si è lentamente auto-promossa a “borghesia di massa” (per attenuare lo slogan un po’ eccessivo di Ricolfi: Società signorile di massa). Una conseguenza è stata lo spostamento elettorale a destra, malgrado i nuovi raggruppamenti di destra fossero caratterizzati da poche idee. Anzi, forse proprio per questo: e la nuova mentalità consumista è poco compatibile con finalità di lungo termine, come quelle cattoliche o comuniste. Più che di un “ceto medio di massa” si potrebbe parlare di un “ceto medio di magma”: che si trova ad aver elementi comuni quasi casualmente, non perché abbia un programma comune. Una seconda conseguenza è stato il rifiuto di misure straordinarie, come una imposta patrimoniale, anche quando il debito rischiava di scappare di mano rendendola attuale: ognuno, infatti, credeva di avere ormai un serio patrimonio da difendere. Ma di serio c’era soprattutto, fra i politici che decidono le tasse, il desiderio di compiacere ai proprio elettori oggi, anziché prevedere la tenuta del paese domani. Ora ci sarà un taglio trasversale immenso della ricchezza, quindi una imposta patrimoniale di fatto se non di nome. La FED ha promesso liquidità illimitate: stamperà Dollari. La BCE ha meno libertà, ma verosimilmente troverà accordi per imboccare una via simile. Pompando la liquidità che manca, pur con fallimenti sanguinosi l’economia ripartirà. Ma i patrimoni posseduti almeno per un po’ perderanno sensibilmente valore, perché non ci sarà un mercato con molti potenziali compratori che ne tengano su le quotazioni. E, se le banche centrali metteranno masse ingenti di nuova liquidità in circolazione, la loro unità di misura ($ o € o altro) potrà rapidamente passare dalla scarsità alla inflazione: che corrisponde a un altro, strisciante impoverimento di tutti: ma soprattutto dei più indifesi (nell’economia classica l’inflazione è detta “l’imposta sui poveri” perché erode particolarmente i redditi da lavoro dipendente).

 

2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?

 

A. La globalizzazione dovrebbe essere temperata da misure protettive dei mercati interni e delle fasce sociali deboli: e questa, ragionevolmente, è uno dei pochi cambiamenti socio-economici che si potrebbero realizzare con relativa concordia. Il problema esisteva ben prima del coronavirus ed è stato fatto ben poco per affrontarlo: anche perché le fasce sociali deboli sono state le prime – per mancanza di informazione – a favorirlo, a circolo vizioso. Molto schematicamente: se nel secolo scorso un indumento-base come la T-shirt costava € 5, con l’arrivo di Cina e Asia sul mercato europeo è sceso gradualmente a € 1 al pezzo. Ormai assuefatto ad automatismi consumisti, invece di comprarne una come prima e tenersi in tasca € 4 da investire nel futuro (libri, mutuo) l’italiano medio ha improvvidamente comprato 5 T-shirt, di colori diversi, dando l’ultima botta alla nostra industria tessile.

Da tempo si dice che ormai gli stati, con le loro leggi, contano meno delle multinazionali, o almeno del commercio internazionale. Questo è vero fino a un certo punto. Gli USA, e Trump in particolare, riescono a proteggere il loro mercato. L’Italia da sola quasi non conta. La UE avrebbe una “leva” quasi corrispondente a Trump, ma manca di un esecutivo con vasti poteri e ha un bilancio molto povero, rispetto a quelli degli stati che la compongono. I cittadini dei paesi europei, e gli italiani in particolare, vorrebbero più aiuto dalla Unione, il che comporterebbe ampliare i poteri e le finanze di Bruxelles: ma, al momento delle elezioni, il partito che più spinge in quella direzione, e che quindi si chiama Più Europa, riceve voti minimi. I voti vanno a chi strilla: Meno Europa! come la Lega: un masochismo che forse ha l’uguale solo nel fervore con cui masse considerevoli (non maggioranze, come a volte si dice) portarono al potere Hitler e Mussolini. Con la crisi attuale, in teoria i movimenti più europeisti dovrebbero esser finalmente favoriti. Invece, la UE è al più basso livello di popolarità, complice la stampa di destra ma soprattutto la quasi totalità dei canali televisivi, che alimenta un nuovo “scontro di civiltà” tra Bruxelles e l’Italia o addirittura tra Europa del Nord e del Sud: mentre un appello all’azione congiunta firmato da 300 intellettuali e docenti universitari italo-tedeschi è passato sotto silenzio. 

In pratica, si rendono comunque necessari – ora, ben prima di qualunque elezione – interventi e organismi straordinari per gestire l’emergenza sanitaria ed economica. Questa novità potrebbe portare – nostro malgrado –a una maggiore collaborazione fra governi, a un ampliamento di budget e poteri europei e alla creazione di organismi sovranazionali che possono restare. 

B. La comunicazione è pure da tempo scappata di mano, e finita in buona parte nelle mani di una Silicon Valley: dove risiedono persone abbastanza colte, ma motivate troppo esclusivamente dal loro interesse personale. Internet ha sostituito in parte la carta. All’inizio ha ampliato infinitamente le possibilità di conoscenza, ma presto ha prodotto il “paradosso di internet”: passata una certa soglia, aumenta la confusione anziché la conoscenza. I “social” hanno agilizzato ancor più la comunicazione: ma favorendo messaggi concentrati, tanto aggressivi quanto falsi (fakes). La crisi del virus ha portato però una novità. Nella stampa e soprattutto in TV è balzato in primo piano un protagonista antico, ma insieme “nuovo”: lo scienziato. Malgrado l’esibizionismo e la frettolosità dei presentatori, sono questi che ora “bucano lo schermo”. Stiamo assistendo a una inattesa correzione della perversa “legge” di Dunning – Kruger, secondo cui le persone che non sanno diventano gradualmente convinte di sapere. Per il momento, questa è un’inversione molto positiva. Durerà? Sono uno psicoanalista, di profeti ne abbiamo avuti anche troppi. (Si vedano in internet gli artt. sul Dunning – Kruger Effect; per quanto sopra, si veda anche il mio TED Talk 2018.)

 

3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamento della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?

 

Dovrebbe tornare di attualità. Non attribuirei però all’umanesimo una qualifica, un aggettivo. Se così facessimo, rischierebbe di essere l’umanesimo di una qualche élite, di qualche accademia. Una ulteriore parte della scuola e dell’università, visto che già è stata costretta a farlo, si digitalizzerà. Questo rende l’umanesimo ancor più necessario perché gli schermi conservano le informazioni e la conoscenza, ma allontanano l’uomo.

 

4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?

 

Preferisco non parlare di un “sistema”. Questo personifica, può sottintendere un centro con delle intenzioni, un po’ come si pensava che lo fosse Mosca per il “sistema comunista”: mentre abbiamo constatato che Mosca non riusciva a controllare l’URSS e neppure il Partito. Concettualizzare un “sistema” rischia di diventare un alibi per puntare il dito anziché fare i compiti più elementari, che da generazioni vengono rinviati. Preferisco anche non riferirmi troppo alla presente crisi sanitaria mondiale, che segnerà una generazione: e sulla quale, quindi, il 2020 permette ancora di dire ben poco. Scrivendo in febbraio ho già ricordato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva avvertito in diverse occasioni - l’ultima volta nel 2018 – dell’arrivo probabile di una pandemia, che chiamava Disease X. Quasi niente è stato fatto, soprattutto in Italia. Praticamente nulla in Europa, per la mancanza di poteri già sottolineata.

Non so se esiste un “sistema capitalistico”. Forse ne esistono tanti. Esistono infiniti sottosistemi, anche loro poco definibili, perché alla fine chi esiste sono gli uomini. Cinquant’anni fa esisteva il capitalismo all’italiana, misto, con molte partecipazioni statali. Funzionava decentemente e dava benessere. Avevamo anche legislazioni sociali e ci illudevamo di essere un paese progressista: ci illudevamo, nel senso che l’eccezione italiana corrispondeva a un progressismo dominato dal Partito comunista. Col risultato che, quando il comunismo è scomparso, è scomparso il progressismo. Anche il capitalismo all’italiana non ha funzionato più e ha fornito soprattutto corruzione. Esisteva il capitalismo scandinavo: la proprietà era privata, ma aveva ferrei correttivi sociali. Nella globalizzazione non ha retto, ma i compromessi che ha lasciato corrispondono alla più giusta delle società umane di tutti i tempi. (Quanti pazienti, reduci del ’68, mi hanno detto: Come vorrei che mio padre fosse ancora vivo per dirgli che aveva ragione, quando diceva che la soluzione sarebbe stata una socialdemocrazia scandinava!) La globalizzazione – che ci domina – non è tanto un modello produttivo quanto un tipo di relazioni internazionali. Per modificare veramente l’incastro internazionale ci vorrebbe un accordo tra i grandi attori: USA, Cina, UE. Questo sistema, invece, è difficilmente alterabile perché permette – in misura diversa a seconda degli attori – redditi crescenti contemporaneamente a una disponibilità di merci crescenti: di fatto, quest’ultima procede più rapidamente, così c’è sempre qualcosa che vorremmo comprare e non abbiamo ancora acquistato. Tutto il circolo perverso si basa dunque su un certo “consenso consumistico della massa”. Parola che uso intenzionalmente, al posto di popolo: perché quello che chiamavamo popolo, come già diceva Hanna Arendt, si è gradualmente trasformato in plebe. In un certo senso, almeno inizialmente, il tentativo del comunismo era di lasciarlo popolo. Aveva fatto male i conti: perché, poniamo, gli inglesi vorrebbero trasformarsi in plebe e i russi no? Anche i russi sono umani, certo non diversi dagli altri nel loro fondo umano. (In Russia corre un detto: Il comunismo è stato una invenzione delle élites per giocare col popolo.

Naturalmente sarebbe necessaria qualche altra distinzione fra i nuovi attori mondiali. In Cina e India crescono sia redditi che merci disponibili. In Occidente, e in modo particolare in Italia, crescono le merci ma aumentano solo i redditi alti. Nel nostro paese, come dice per esempio Cacciari, il mondo irrigidito della politica e della comunicazione dovrebbe andare a casa, essere in gran parte sostituito. In Francia, piaccia o no, è arrivato Macron, politico diverso. In Germania, il nuovo secolo è segnato da Merkel: indipendentemente dal gradimento, donna e dell’Est. Che in 30 anni è stato quasi integrato nel resto del paese. In Italia dopo oltre un secolo e mezzo non abbiamo integrato il Mezzogiorno.  Qui dovrebbero succedere più cose che altrove, ma è possibile che ne succedano di meno. Fra quelle che possono succedere: Potrebbe esserci una Terza Repubblica. Ma anche la Seconda non ha cambiato molto. Potremmo uscire dal G 8, perché l’Italia non sarà più fra le prime otto potenze economiche del mondo. Ma anche questa non è una vera novità. Dopo il successo stellare del Rinascimento, che portò l’Italia a essere sia culturalmente sia economicamente il primo paese del mondo, il solo periodo di crescita economica (e, forse non a caso, anche culturale) dell’Italia sono stati gli anni dopo il 1945. Si veda la Storia economica d’Italia, a cura di Ciocca e Toniolo, addirittura nell’Introduzione. Altro che “in questo momento l’Italia non cresce”, come dicono dei politici che evidentemente non aprono un libro: la crescita è l’eccezione, la stagnazione è la regola secolare.

 

5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?

 

Io credo che neanche Keynes e Roosevelt, agli inizi degli anni ’30, sapessero dove sarebbe finita l’economia. Speravano di indirizzarla: e, sicuramente, avevano a disposizione più strumenti di quanti ne abbiano ora i politici o gli economisti. Per una serie infinita di motivi, ma anche per una ragione molto facile da riassumere e che riguarda la nostra mentalità, la psicologia prevalente, in particolare in Italia: poteri pubblici e privati cittadini, nel nostro paese ritenuto così sollecito verso i figli e attento ai valori famigliari, hanno pensato ad accrescere le attuali comodità, non le possibilità future. 

Per restare al tema: qualunque sistema fiscale ha due finalità complementari,  da un lato finanziare attività e servizi pubblici, dall’altro correggere le differenze di ricchezza. Per far questo ha bisogno non solo di leggi impositive, ma anche della partecipazione dei cittadini. Personalmente ho vissuto a lungo fuori d’Italia e viaggiato molto. In nessuno dei paesi incontrati ho trovato meno attenzione che in Italia alla psicologia del contribuente: che deve pagare le tasse, ma va anche convinto e reso partecipe. Il sistema fiscale italiano non sembra mai orientato a cercare questo consenso, solo a riempire le proprie immediate esigenze di cassa. Col risultato che, in momenti di drammatico bisogno come questo, in cui bisogna cercare finanziamenti enormi e rapidi, si trova privo del principale know-how: il dialogo tra l’istituzione pubblica che deve chiedere e il cittadino che deve dare. O la base impositiva per una equa imposta patrimoniale, che in altri paesi esiste al di fuori dell’emergenza economica.

Quanto all’emergenza sanitaria, non sappiamo quando terminerà. Azzardare previsioni rischierebbe di farsi partecipe di quell’atteggiamento di sufficienza mista a incompetenza che – ho cercato fin qui di sottintendere – è fra i virus culturali dei nostri mass media.

Poiché anche delle pandemie che erano state previste è stato difficile prevedere la durata, non possiamo neppure rispondere con certezza come fece Freud. Ottantenne e malato, quando nel settembre 1939 gli chiesero: “Pensa anche lei che sarà l’ultima guerra?” rispose: “Sarà la mia ultima guerra”.

 

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