Speciale
IV / Cinque domande sullo scenario futuro
Con queste cinque domande ci prefiggiamo di individuare i nodi che la crisi sanitaria del Covid-19 con le sue conseguenze ha provocato a livello mondiale, con l’idea che, come disse anni fa un economista americano, la crisi, per quanto terribile, è un’occasione da non perdere.
Andrea Tagliapietra, filosofo
1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.
La catastrofe che stiamo vivendo è nuova ed è la prima, forse, di uno nuovo tipo di eventi catastrofici, per cui varrebbe la pena ricordare ciò che scriveva, giusto quarant’anni fa, Maurice Blanchot: “il disastro rovina tutto lasciando tutto immutato”. Questa catastrofe non è puntuale come un terremoto, un’alluvione, un incidente nucleare o una guerra. Si tratta di eventi che possono essere interpretati con gradi di responsabilità umana diversi e che lasciano danni immani, ma da cui appunto è possibile ripartire, avviando, pur con tutte le contraddizioni e le sofferenze che storicamente si registrano dopo gli eventi catastrofici, la ricostruzione e la successiva normalizzazione. Qui il disastro non è prima, né dopo. È durante: il sole continua a splendere sulle città e sulle campagne intatte, il mare è invogliante come in ogni tiepida giornata di primavera. Le merci stanno là, ci attendono avvolte nella loro seducente aspettativa, come la distesa di automobili fiammanti nei parchi di smistamento dei nodi ferroviari. Eppure il disastro non è passato, ma è presente e futuro. La ripresa, anzi, è un atto che sottolineerà la continuità del disastro, la sua capillarità analitica. Il lutto da elaborare non è del passato, ma del futuro prossimo, di un certo futuro, di un pezzo di futuro – breve o lungo non ci è dato ancora di sapere – che improvvisamente non c’è più. Scopriremo così che è più facile elaborare il lutto del passato che quello del futuro.
Nei giorni di quarantena scenari grotteschi, che forse non si realizzeranno proprio così – almeno speriamo – ma che sono stati immaginati, ipotizzano un mondo di barriere di plastica trasparente, di facce dimezzate dalle mascherine 24/7, di turni e orari differenziati (senza la riduzione del lavoro che ormai le tecnologie consentirebbero), di segregazionismo generazionale e biologico, di misurazioni compulsive della temperatura, di tamponi, di prelievi sanguigni, di applicazioni informatiche per tracciare gli spostamenti, di ossessioni pubbliche e private. Altro che la più o meno comoda estensione della continuità domestica della quarantena in cui, secondo le colorite narrazioni mediatiche, si cucinano ricette elaborate e si canta sui balconi. Parlare di fase 2 inganna l’impazienza collettiva, fornisce una via di fuga che non comprende che, per convivere con il virus, ci vorrà una grande pazienza. Dovremo tenere a bada il nano della teologia che si nasconde nell’automa della scacchiera e che promette, dai tempi dell’abate Gioacchino, la fase 3 della liberazione finale, ma anche del Reich millenario del folle imbianchino. Invece non ci sono fasi, ma solo un perfezionamento del disastro che, a differenza della pandemia propriamente detta, che ha colpito e ancora colpirà dolorosamente singole vittime esposte per un tempo non ancora quantificabile, riguarda e riguarderà tutti per un tempo altrettanto non prevedibile (almeno fino all’arrivo di un vaccino o di una terapia efficace), in cui saremo pervasi non solo dalla paura (soprattutto se dovessero esserci altre ondate epidemiche), ma dal malinconico struggimento per il futuro perduto e da furiosi rigurgiti di rabbia.
Non si tratta della crisi economica, perché quella fa parte dei dispositivi del sistema economico in cui già siamo immersi, da tempo. Aumenteranno i poveri, i ricchi diventeranno ancora più ricchi, la classe media si assottiglierà, il cinismo degli individui e dei capi politici diventerà più sincero e sfrontato. Quali novità? Sono solo, semmai, l’accelerazione di processi in corso. Ma è questa crisi del futuro la questione nuova con cui dovremo misurarci e che potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Le elenco in forma positiva, come risorse, riservandomi di distribuirle nelle successive domande a mia disposizione: 1. Il ritorno dell’attenzione e la riscoperta dell’esperienza; 2. Il richiamo positivo alla biologia come ciò che è comune e insieme diverso per ciascuno (la “nuda vita” come risorsa rivoluzionaria); 3. La percezione collettiva dei limiti della scienza e l’impossibilità di trattarla come discorso di ultima istanza; 4. La trasformazione profonda della globalizzazione (l’intensificazione della rete, la riscossa dei luoghi e la fine della retorica dello spazio illimitato come attraversamento).
2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se è difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?
Sviluppo per primo, allora, il punto 4. L’evento della pandemia ha inchiodato per settimane, se non per mesi, le persone nei propri domicili, limitandone gli spostamenti. Quando questi saranno possibili si prefigurano pratiche che renderanno assai meno irriflesso, futile e inconsapevole il muoversi sia a corto che a lungo raggio. Meno attraversamenti individuali, comunque, sono facilmente prevedibili. I non-luoghi infatti, emblemi della globalizzazione (aereoporti, stazioni, trasporti, aree sempre più vaste delle città moderne, ecc.), sono, al tempo della pandemia, al vertice dell’insicurezza percepita e probabilmente anche reale. Il problema dei pendolari potrebbe avere nelle differenziazioni e, sarebbe auspicabile, nelle riduzioni degli orari di lavoro e scolastici una soluzione effettivamente antisistemica. Contemporaneamente, però, la rete, là dove c’è e funziona, ha fatto il suo dovere, ha prodotto prossimità, per quanto schermate e distanziate, inimmaginabili in precedenza. Mi viene in mente quanto scriveva Italo Valent sull’espressione prendere le distanze: un ossimoro eloquente, “giacché la distanza vi appare come il risultato di un gesto di avvicinamento, di un movimento di appropriazione”. Internet diverrà sempre più il vero motore della globalizzazione e dell’interconnessione planetaria. Siamo stati indotti a usare le piattaforme di videoconferenza e abbiamo scoperto che molti incontri che ci richiedevano migliaia di chilometri, notti d’albergo e orari contingentati si possono fare con facilità, restituendoci tempo rubato. C’erano già prima, ma oggi un’altra inerzia, diversa da quella che ci spingeva a preferire gli attraversamenti, ci incoraggia a imparare qualcosa di nuovo stando fermi, rilocalizzandoci, e ciò non è male (“buono per te, buono per il pianeta”, verrebbe da dire, citando un vecchio slogan pubblicitario). Per esempio ha mostrato potenzialità che in altri tempi difficilmente avremmo accettato la telemedicina, non solo per l’emergenza, come si è fatto in Francia e in Germania, riducendo le ospedalizzazioni e curando i malati sin dall’inizio a casa, senza aspettare la fase critica, ma per un nuovo rapporto di vicinanza capillare e quotidiana fra il medico curante e il paziente.
Credo che i riti del consumo come quelli del turismo, culturale e non, richiedano “spensieratezza” e comfort, che non sembrano poter rimanere tali negli scenari della ripresa così come ci vengono prospettati. È quindi prevedibile una forte contrazione dei consumi, almeno di alcuni settori, ma anche una loro focalizzazione consapevole o compensativa, che potrebbe mutarsi nel tempo in una nuova ponderata risorsa. Non credo che dipenda dalla pandemia il fatto che se qualcuno cerca qualcosa di difficile reperimento lo trova in rete e non nei centri commerciali o anche nei centri cittadini, dove da tempo si concentrano i negozi in franchising, con sempre gli stessi prodotti che si sia a Parigi o a Cancun. Al di là della battuta di quel facondo politico toscano che ha suggerito di aprirle per prime, chi va a cercare oggi un libro in libreria e non lo ordina su internet e magari finisce per trovarlo in qualche libreria antiquaria online, anche se è fuori catalogo? Chissà poi se questo, a livello delle forniture dei beni, si tradurrà in una rilocalizzazione e ridistribuzione territoriale delle attività produttive e in una riduzione degli sbilanci commerciali fra gli stati che avrebbe l’effetto positivo di limitare i massicci spostamenti di merci e l’inquinamento che ne consegue. Se così fosse, come fece il giovane Kant alle prese con il terremoto di Lisbona del 1755, ci metteremmo a magnificare gli effetti benefici della catastrofe.
3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamente della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?
Qui siamo al punto 3., ma anche, in parte al punto 1. del nostro elenco. La scienza o, per meglio dire le scienze fanno il loro lavoro all’interno delle ipotesi immaginative di una cultura, ma non sono, di per sé, “cultura”. Non si tratta di un loro “limite”, ma del loro funzionamento di forme simboliche. Di conseguenza, spetta ad altri discorsi, i discorsi di ultima istanza come li ho chiamati, di immaginare il senso della vita individuale e collettiva, di prospettare e di discutere strategie, di fare politica, di inventare e di creare pratiche e prodotti con cui vivere. Certo, tenendo conto del fallibile cammino delle scienze come scuola di modestia antropologica (in questo senso non c’è nulla di più “umanistico” delle scienze). La scienza non sa mai “tutto”, non può sapere tutto. Il limite è iscritto nella prassi della sua forma di conoscenza, che procede per congetture e confutazioni, piuttosto che nell’efficacia dei risultati. L’idea che il sapere scientifico possa risolvere i problemi a comando, premendo un pulsante, magari aumentando esponenzialmente i finanziamenti della ricerca - con l’efficienza, quindi, di un dispositivo tecnico ad incremento quantitativo -, è illusoria e, non troppo nascostamente, parareligiosa. Mi pare, invece, che la pandemia, riportandoci ed esponendoci all’attenzione e alla pazienza anche nei minimi gesti della quotidianità, nell’accorgersi dell’esistenza degli altri (non solo per averne paura, s’intende), spalanchi un orizzonte per riappropriarci dell’esperienza, là dove sta la radice del senso e là dove convergono, con le scienze, gli insegnamenti delle arti, i referti delle poesie antiche e moderne, gli incerti saperi delle letterature di ogni latitudine. Insomma, là dove ci riconosciamo, anche a millenni di distanza, come animali simbolici e compagni di specie. Eccoci nella nuda vita del corpo di Ettore, sottratto alle lacrime di Priamo dietro al carro di Achille, in analogia con quei corpi dei defunti per il coronavirus, privati della pietas e sottratti al conforto dei dolenti.
4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?
In tutti questi processi geopolitici è probabile che la crisi sanitaria agisca come acceleratore. La pandemia ha fatto vedere su scala circoscritta e insieme temporalmente condensata l’inadeguatezza del sistema politico e del sistema economico rispetto alle esigenze di salute del pianeta, non solo della sua popolazione umana. Qui la crisi sanitaria non è che un’emergenza, forse provvidenziale se porterà giudizio, della crisi ecologica globale. Del resto, sembrano esservi evidenze di un intreccio fra pandemia e catastrofe ambientale nelle convergenze fra tassi di inquinamento locali, virulenza e letalità dell’epidemia. Inoltre, sia che il virus abbia avuto origine in un mercato di animali macellati sul posto, sia che provenga, come nelle ipotesi più inquietanti e complottiste, da una “fuga di laboratorio”, si tratta di due modi emblematici del trattamento alienato della “nostra” animalità. Ecco il significato di contraddizione e il valore eversivo della “nuda vita” (il punto 2. del nostro elenco). La biologia è un limite, ma anche una risorsa, perché restituisce un punto d’appoggio, un punto archimedico per la critica della religione del consumo, della prestazione e della produttività. Inoltre non è legata al valore “umanistico” dei soggetti e allo spontaneismo, solo in apparenza liberovolente, ma assolutamente condizionato e indefinitamente condizionabile, degli individui. Qualcuno si chiedeva, in un saggio arguto, “che cosa si prova ad essere un pipistrello?” Ebbene oggi ne abbiamo fatto un esperimento di massa e forse guarderemo ai pipistrelli con più rispetto, mettendo la nostra nuda vita a confronto con la loro, in un’ipotesi immaginativa crudelmente rivoluzionaria.
5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?
Dipenderà da quanto durerà la crisi sanitaria propriamente detta, di cui evidentemente la quarantena e i picchi di mortalità sono stati soltanto la parte “spettacolare”. Più tempo durerà, più sarà difficile non cambiare. Dipenderà poi da come impiegheremo le risorse positive offerteci da quest’evento, che oggi ci appare senza dubbio epocale, per trasformare a fondo i meccanismi del sistema politico-sociale e della nostra stessa vita. Altrimenti anche tutte le sofferenze e tutti i dolori prodotti da questa pandemia andranno ad aggiungersi, come brevi postille, al folto capitolo del passato non risarcito.
Paolo Jedlowski, sociologo
1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.
Che cosa sta cambiando? Molto, per tutti, non per tutti allo stesso modo. La società è differenziata e questo conta.
L’emergenza sanitaria ha travolto medici e infermieri; ha sconvolto ogni routine degli amministratori. A chi lavora nella scuola ha reso le cose difficili, ma ha cambiato meno. Per chi ha un’attività commerciale o una fabbrica, è un disastro (tranne in certi settori, circoscritti). Per chi ha bimbi piccoli a casa è un pandemonio domestico; per chi ha parenti anziani è impotenza e preoccupazione. Per chi è disabile o di disabili si occupa è un incubo. Per chi non ha una casa è una bocca aperta sgomentata.
Certo, per tutti la vita quotidiana si è modificata. All’improvviso, in modi radicali. Conviviamo con nuovi limiti, inediti. Non si esce di casa (o poco, con regole severe). Ci manca il camminare, ma mancano infinite altre cose, tutto ciò che si dice completando il verbo “andare a…”. Si scardinano abitudini (anche cose banali: a me manca il caffè al bar, per dire). E siamo “sospesi”: ogni appuntamento, tutto ciò che in genere ci riempie l’agenda, è procrastinato, va a data da definirsi, e chissà se si farà, e poi come… Sapevamo che la modernità è un tempo di incertezza, ma non immaginavamo fin dove l’incertezza può arrivare.
Ci sono differenze, ma per tutti c’è anche una sensazione inusuale, forte, quella di essere tutti nello stesso tempo. Reciprocamente contemporanei (non in astratto: ciò che avviene intorno incide direttamente sulle vite di ciascuno).
Che conseguenze avrà questa esperienza? Difficile dirlo. Forse qualcosa impareremo. Una consapevolezza diversa di cosa vuol dire “limite” ad esempio. E molti significati nuovi dell’espressione “è possibile…”.
2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se è difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?
La globalizzazione è responsabile di alcune delle caratteristiche specifiche di questa situazione: la velocità di diffusione del contagio è figlia della mobilità contemporanea; la conoscenza pressoché istantanea della stessa diffusione lo è delle nostre possibilità di comunicazione. Difficile dire cosa resterà dell’assetto politico-economico globale odierno: le misure contro il contagio comportano una recrudescenza dei confini, e chi ama i confini potrebbe avvantaggiarsene nel prossimo futuro. Quanto alla comunicazione, una cosa mi ha colpito: in questo momento agli “odiatori” della Rete si presta pochissima attenzione; probabilmente continuano a esserci ma non fanno notizia. Il bisogno di informazione e la voglia di manifestare e di ricevere solidarietà la vincono. Certo, c’è chi rema in un’altra direzione. Trump, per dire, continua a disinformare e la sua retorica continua a essere anti-solidale; il suo problema è additare sempre capri espiatori a cui addossare “colpe”. Uomini come lui continueranno a farlo. Qualunque cosa accada, temo.
3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamente della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?
Il virus Covid-19 è letale. Porta cioè alla morte. Non sempre per fortuna, e speriamo in vaccini utili e disponibili a breve. Ma la questione della morte c’è. La morte è umana (ci appartiene in quanto esseri viventi). Contiamo i morti. È da qui che partirei per parlare di “umanesimo”.
Ricordo, una decina di giorni fa, un’immagine che mi colpì: camion dell’esercito portavano bare, in fila indiana, a Bergamo. Nessuno accompagnava il corteo, i morti erano lasciati soli. E soli i parenti, gli amici, impossibilitati a salutarli, a esprimere il cordoglio. L’immagine mi colpì ma non ci stetti a pensare. Comparve nei sogni. Sognai di un amico perso qualche anno fa, per me un morto “insepolto”, nel senso che non avevo potuto essere al suo funerale. Nelle notti successive sognai ancora dei morti, fino a un ultimo sogno in cui uno di loro si rivolgeva a me che volevo andare a una certa isola: “L’isola c’è, ma tu non devi andarci!”. Certo, nell’isola dei morti non voglio andare, agisco per proteggermi dal contagio, mi difendo, e ciò è vitale. Ma alla morte devo pensare, mi hanno detto i sogni. È di questo che si tratta e far finta di niente non vale. Il confronto con la morte è un tratto umano. Lo è la sepoltura (gli altri animali non la fanno). Questo è per me umanesimo: è essere consapevoli della natura umana e saperla rivestire con riti, metafore, pensieri. No, non scompare con questa crisi. E non ha nulla a che fare con le tecnologie, con le quali deve convivere comunque. Se dimentichiamo di essere umani non possiamo addossarne la responsabilità alla tecnica.
Una postilla. Una delle deficienze dell’umanesimo moderno-occidentale è consistita, oltre che nel suo evidente eurocentrismo, nel suo antropo-centrismo. Ma essere umani non vuol dire ergersi al centro della natura: se mai, significa comprendere il posto che abbiamo al suo interno. A questo proposito riscontro qualche cosa di interessante, persino positivo in questa pur durissima occasione: agli animali in questi giorni siamo più sensibili. “Sai in questa strada ora sono usciti i gatti, senza le macchine sono i padroni eh” mi dice un’amica al telefono. Altri mi nominano scoiattoli, topi, rondoni. Vedo sui giornali foto di oche sulle strisce pedonali. E una donna mi scrive: “In fondo è consolante no? Se anche scompariamo, la vita continua in altre specie”.
4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?
Il ricambio delle élite (o a volte il loro mancato ricambio) è un elemento ricorrente e fondamentale della storia. Lo è anche il cambio dei rapporti di forza tra aree del mondo, fra Paesi. Non sono esperto in questioni geopolitiche. Mi interessa la cultura. Qui vedo oggi un rinnovo del prestigio della scienza, e non mi spiace. Più difficile il ruolo degli intellettuali, di chi studia scienze umane: da tempo messo in crisi da nuove élite della comunicazione e da una certa decadenza del prestigio delle istituzioni culturali. Costante invece il rispetto per chi sa scrivere racconti: la narrativa serve quasi come il pane. Anche i poeti, per quanto non diventino mai ricchi, vengono ascoltati: perché ci danno parole, immagini, metafore. Con quali metafore interpretare la situazione in cui ora stiamo? Un amico mi risponde: siamo nel ventre di una balena, siamo Giona.
5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?
Il contagio è per sua natura “democratico”, colpisce a prescindere dal censo. Ma le disuguaglianze sociali continuano a contare. Prima ancora che le disuguaglianze, in verità contano differenze di altro tipo (vi ho accennato sopra: mestieri, età, forme dell’abitare; e dovrei aggiungere collocazione geografica). Ma le differenze sociali si intersecano con la disuguaglianza: patrimonio e reddito (per quantità e per fonte) determinano come sopravvivi: dicono su quali risorse puoi contare, a che servizi accedere; determinano di quanto spazio disponi e di che qualità; influiscono sulla tua disponibilità di strumenti per lavorare e per comunicare on line. Anche le differenze di capitale culturale contano: non tutti hanno uguali capacità di usare internet; non tutti hanno le stesse risorse simboliche per far fronte al disorientamento.
La disuguaglianza aumenterà? Certo ci saranno imprese che da tutto ciò usciranno più forti: quelle che si occupano di infrastrutture telematiche, di hardware e software per lavoro e comunicazione; le industrie farmaceutiche. Altre falliranno. Chi oggi ha un lavoro precario rischia molto. È possibile che si restringeranno ancora i ceti medi, nerbo della società novecentesca. Qui il ruolo che assumerà la politica è decisivo: se all’uscita da questa situazione aumenterà la percezione di disuguaglianze si genereranno tensioni sociali incontenibili, che potranno essere sfruttate da élite spregiudicate per favorire progetti autoritari.
Ma se ci si arrischia in previsioni non bisogna mai dimenticare di affiancarvi le aspirazioni. Puoi aspirare anche a ciò che non è probabile, e l’aspirazione rende meno lontano l’improbabile. La partita culturale del prossimo futuro sarà su questo: come sapremo elaborare ciò che ci sta accadendo e formulare le nostre nuove aspirazioni.
Franco D’Intino, critico
1. Quali saranno a tuo parere i principali cambiamenti che la pandemia del coronavirus ha prodotto? Provando a differenziare tra aspetti sociali, economici e culturali.
Il cambiamento principale mi sembra la percezione diffusa che le persone dipendono sempre più dalla tecnologia; e la percezione speculare che la tecnologia può risolvere alcuni problemi solo complicandone molti altri, e allontanando l’umano da radici antropologiche antiche e ancora resistenti, e da valori e costumi tradizionali: un’aporia deprimente. La malattia diventa parte di un sistema globale scientifico-tecnologico-economico troppo complesso per essere addirittura pensato; inoltre, i modi più efficaci di gestione sono imperscrutabili e fuori dal controllo dell’opinione pubblica (ammesso che esista ancora).
2. Due questioni sono emerse con evidenza da questa crisi sanitaria: la globalizzazione economica e la comunicazione planetaria; a tuo parere, anche se è difficile fare previsioni, come cambieranno le cose?
Non credo che la globalizzazione rallenterà il suo percorso, soprattutto quella economico-finanziaria; e così la comunicazione, che viaggia su supporti digitali. Semmai subirà un arresto (non so quanto temporaneo) al livello più basso delle persone comuni.
3. Negli ultimi decenni si è parlato ampiamente della crisi dei temi umanistici, dell’umanesimo tradizionale, a vantaggio della tecnologia e della scienza come motori dello sviluppo e del cambiamento. A tuo parere sarà ancora così o l’elemento umanistico, coi suoi valori, torna di attualità? E di quale umanesimo si tratterà?
Finché non saremo mutati radicalmente, per es. in semi-cyborg, si sentirà il bisogno di tornare a una centralità dell’“umano”, ma come dice Anders, l’uomo è antiquato: i processi tecnologici (e quelli derivati) vanno per la loro strada. L’apologo goethiano/marxiano dell’apprendista stregone (aggiornato a nuovi scenari) non ha perso smalto, e non c’è disagio né “riflessione” che tenga. Se posso permettermi di citare un pensiero scritto esattamente 200 anni fa da Leopardi (1820), “Non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri”. Voleva dire, naturalmente, che non torneremo indietro, e tutto lascia pensare che sarà così. È scontato, e me ne dispiace, ma Blade Runner, o forse addirittura La strada di Cormac McCarthy sono una buona approssimazione di quel che ci aspetta.
4. Uno dei temi discussi negli ultimi anni era quello della crisi delle élites tradizionali, quelle politiche ed economiche. A tuo parere escono indebolite o rafforzate? E il sistema capitalistico, nelle sue differenti forme, dagli Stati Uniti alla Cina, come esce da questa crisi sanitaria? Rafforzato o indebolito?
Mi pare che il sistema capitalistico non solo non soffra, ma viva di queste crisi, e vi si adatta benissimo, trasformandosi. Siamo noi che ci adattiamo più lentamente. Quanto alle élites, resteranno forse solo quelle legate al mondo economico-finanziario, sempre più occulte e meno controllabili. Posso citare ancora Leopardi di 200 anni fa? “Ma ora che il potere è ridotto in pochissimi, si vedono gli avvenimenti e non si sanno i motivi, e il mondo è come quelle macchine che si muovono per molle occulte, o quelle statue fatte camminare da persone nascostevi dentro”.
5. La diseguaglianza sociale che è emersa anche in questo frangente critico è destinata a perpetuarsi una volta terminata la crisi sanitaria o invece vedremo emergere dei cambiamenti sul piano economico e sulla distribuzione della ricchezza?
Anche su questo punto purtroppo non vedo luce: è probabile che sarà più difficile vivere bene semplicemente: le esigenze aumentano in modo esponenziale e sono già beni preziosi anche le risorse più normali (per esempio acqua e aria pulite). Difficile pensare a una distribuzione più equa per miliardi di persone.
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