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Diario (7) / Cordula, dantista femminista
Ma cosa ci fa una donna, e per di più vestita da uomo, nel tempio maschile del dantismo? Attenzione, stiamo parlando di oltre un secolo fa, non dei nostri anni di transgender: 9 maggio 1920, Cordula Poletti varca la soglia della Biblioteca Classense, a Ravenna, per tenervi la sua “lectura Dantis”. Nessuna prima di lei. Non ha paura: camicia bianca e cravatta, una camelia appuntata sulla giacca, scarpe a tacco basso e larga suola spessa, colei che Sibilla Aleramo anni prima aveva chiamato “la fanciulla maschia”, avanza nella Sala di Dante, dove leggerà e commenterà il XXXIII del Paradiso, canto arduo e complesso, la vetta più alta della Commedia. Sembra lo abbia fatto apposta, a sceglierlo: sa che deve competere al massimo livello di difficoltà possibile. Non sente, o finge di non sentire, i commenti, le risatine e le malignità che la sala mormora al passaggio della giovane ravennate ribelle, profumata, in eleganti abiti maschili: tira dritto, depone con cura i fogli sul tavolo della presidenza, e infine si volta a guardare con aria di sfida l’intellighentia della sua città, lì riunita per giudicarla.
Prima di farle iniziare il commento alla preghiera di San Bernardo, andiamo indietro nel tempo, per guardare, con rapidi scorci, alle vicende che hanno portato fin lì la prima “dantista femminista”. Cordula nasce a Ravenna il 27 agosto 1885, in una famiglia di artigiani ceramici, penultima di quattro sorelle: fin da giovane coltiva la passione per la letteratura, compone prose e versi. Quando nel 1902 arrivano in città Gabriele d’Annunzio e Eleonora Duse, lei è in stazione ad accoglierli: si inginocchia davanti alla grande attrice e le porge un mazzo di rose. Se dobbiamo credere alle cronache del tempo, la stessa Cordula, che ha appena 16 anni – torneremo sul nome insolito e evocativo – si è data da fare per procurare a quella coppia “divina” un ambiente degno: non gli alberghi San Marco e Byron, che pure erano meta di ospiti famosi, ma la chiesetta di San Sebastiano delle Aie nella Pineta di Classe. D’Annunzio e la Duse erano già stati a Ravenna l’anno prima, e forse lì avevano conosciuto l’intraprendente ragazzina, amante della poesia, ora vi tornano per assistere alla première del Tristano e Isotta di Wagner al Teatro Alighieri. Vagano nudi nella pineta dantesca, all’alba: così il mito. Così racconta una bambina in cerca di funghi, Alda Mordenti, futura bidella in Classense.
Cordula cresce in fretta, e poco più che ventenne si laurea nel 1907 a Bologna con una tesi su Carducci, relatore quel Giovanni Pascoli di cui sarà la prima in Italia a riconoscere l’innovativo linguaggio poetico. E l’anno dopo prende parte al Congresso delle donne italiane, che si svolse a Roma nell’aprile 1908. Si trattò di un evento fondamentale per la storia del movimento delle donne, ne segnò il riconoscimento ufficiale. Erano presenti tutte le principali femministe italiane. La questione più scottante fu la richiesta del suffragio e il riconoscimento della personalità della donna nel diritto di famiglia e nei reati di violenza carnale. Tra le intellettuali celebri era presente Sibilla Aleramo, che solo due anni prima aveva dato scandalo pubblicando il romanzo Una donna, in cui aveva raccontato l’abbandono del figlio e del matrimonio con il suo stupratore cui era stata costretta dalla famiglia. Tra l’Aleramo e la giovane ravennate nacque un amore travolgente, Sibilla scopre per la prima volta una dimensione saffica: descritta dall’amante “con volontà di uomo, o d’angelo ribelle, con forza quasi di dannato”, Cordula incarna l’antico mito dell’androgino, il suo apparire uomo e donna allo stesso tempo. La storia d’amore, vissuta con accenti e azioni appassionate da entrambe le parti, si scontra con l’impossibilità di vivere in modo duraturo la relazione: mentre l’Aleramo desidera un menage a trois, coinvolgendo nella ragnatela degli affetti il poeta torinese Giovanni Cena, cui è legata da tempo (“io ti amo quanto amo lui”, le scrive), Cordula non vuole sentire ragioni. Per quanto disobbediente, per quanto trasgressiva e spregiudicata, Cordula ha un cuore monogamo. Non sopporta compromessi.
Finita la relazione con l’Aleramo, a sorpresa Cordula si sposa: in città non ci credono, eppure… si sposa con Santi Muratori, direttore della Classense. È una sorta di “matrimonio dello schermo”, essendo più fratello e sorella che marito e moglie: la mattina stessa del matrimonio, di cui Cordula confesserà candidamente anni dopo in una lettera di non ricordare affatto la data, la sposa prenderà un treno, da sola, diretta non si sa dove. Niente luna di miele, quindi, ma un’amicizia che durerà fino alla morte di Muratori e che permise a Cordula di coltivare le sue passioni femminili.
Infatti, subito dopo l’Aleramo, la Duse. È quello il nuovo, tumultuoso amore di Cordula: diventa segretaria e amante della “più grande attrice del mondo”, come ebbe a definirla il critico e drammaturgo austriaco Hermann Bahr, più anziana di lei di quasi trent’anni, a cui aveva offerto rose appena sedicenne nella stazione ferroviaria di Ravenna. La Duse ha appena abbandonato le scene: vivono insieme a Venezia, dove frequentano grandi artisti come Max Reinhardt, Hugo Von Hoffmansthal e Rainer Maria Rilke. Anche qui la relazione è tormentata: liti, gelosie, tradimenti, Cordula scrive due drammi, Incesto e Arianna, per invogliare l’amica a tornare alla sua arte, niente da fare, quelle generose prove drammaturgiche non faranno tornare la Duse sul palco, e il rapporto si chiude malamente. Anzi, ci fu anche uno strascico penoso di beghe legali per la restituzione dei disprezzati manoscritti.
È questa la donna che ormai vive lontana da Ravenna, di cui però in città si continua a parlare: è lei la prima studiosa che commenterà Dante nel recinto dei dantisti maschi. Torniamo a quel 1920, Biblioteca Classense: Cordula ha 34 anni, e per la grande sfida si è preparata con la precisione e l’accuratezza che contraddistinguono i suoi saggi critici. Inizia con voce bassa e roca, dal timbro inconfondibile, ma il sorriso sarcastico dei presenti si spegne in fretta: sono travolti da tanta cultura e sicurezza, dai puntuali richiami alle altre opere dantesche, si permette anche di polemizzare, con eleganza, con Padre Ermenegildo Pistelli, all’epoca un’autorità in materia, in merito alla raffigurazione dantesca della Trinità, consigliandoli una corposa bibliografia su cui documentarsi. Cordula coglie perfettamente l’architettura della terza cantica, centrata sull’alchimia tra luce, danza e canto. E grande importanza dà allo scandalo – lei usa la parola “oltraggio” – di cui Dante si fa protagonista, chiedendo, lui, “ancor vestito d’umana carne com’è”, di arrivare all’estrema, abbacinante visione, di conoscere il Volto di Dio: Cordula mette tale “sfolgorante audacia” in rapporto con l’ansia di conoscenza dei moderni, “dalle leggi newtoniane alle odiernissime Teorie di Einstein”. E infine mette l’accento sull’umanissimo erotismo che anche nel Paradiso lega la figura salvifica di Beatrice a Dante, “quand’egli ha tenuto fermo a chiamarla ‘Madonna’ come se la venisse accompagnando per le vie di Firenze”, evocando come si percepisca, anche nell’ultimo, solenne e ieratico sorriso di Beatrice, “la fresca bocca della figliuola di Folco Portinari”.
Di Cordula mi ha raccontato Ivan Simonini, editore e appassionato studioso di Dante. Con le sue Edizioni del Girasole ha recentemente pubblicato un volume ricco di chiavi interpretative sulla relazione tra la Commedia e i mosaici ravennati, e va ricordato un altro suo libro – forse oggi introvabile, ma che andrebbe ristampato – La Basilica degli specchi, Essegi, 1993, un atto d’amore per la sua città d’adozione, con pagine penetranti sui poeti che hanno cantato Ravenna nei secoli, da Dante e Boccaccio fino a Pascoli, Oscar Wilde e Lord Byron. Su Cordula, Simonini ha appena scritto il saggio Cordula Poletti, la prima dantista femminista, lo trovate in Annali di Romagna 2021 di Libro Aperto, rivista culturale diretta da Antonio Patuelli: dice a p. 46: “Cordula è stata assai trascurata, se non cancellata, dalla memoria collettiva della sua città. È una rimozione da rimuovere.”
Due anni prima della dirompente “lectura Dantis”, Cordula aveva trovato l’amore della sua vita, Eugenia Rasponi Murat, altra fervente femminista: il loro “matrimonio di fatto”, in anticipo di un secolo sulle polemiche e i conflitti che ancora oggi avvelenano l’Italia e le possibilità di vivere serenamente la propria sessualità, durerà fino alla morte di Eugenia, nel 1958, quarant’anni di avventure e progetti insieme, tra i quali “numerosi viaggi in Grecia per cogliere l’antico preannuncio filosofico della sapienza nazarena”, in una chiave che fa pensare a certe intuizioni di Simone Weil. Cordula muore nel 1971, in un albergo di Sanremo, contemplando il mare. E sempre Simonini, da cultore e raffinato creatore di anagrammi, ha composto quello che anche a me sembra l’anagramma rivelatore del nome e cognome di questa singolare figura di trasgressiva monogama: “il patto del cuor”.
Dopo che varcando il Teatro Rasi si era precipitati nella città dolente, dopo che si era imparato il “noi” nella cantica dell’ascendere insieme per le strade di Ravenna, e di Matera, ci sarebbe stata una nuova chiamata pubblica e, insieme, si sarebbe dovuti arrivare al Paradiso nel 2021. Come fare, costretti alla distanza? Come celebrare Dante nell’anno del settimo centenario della morte del poeta? Teatro delle Albe e doppiozero hanno immaginato lo spazio della scrittura come spazio di un’attesa condivisa, un racconto-diario scritto da Marco Martinelli e racconti-sapere di studiosi e amici del Sommo, fili differenti per “dialogare con l’ago” e tessere visioni. Oggi il primo di questi quattro contributi. Il Cantiere Dante di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro. Irina Wolf è critica teatrale e giornalista.
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