Una nuova rivista / Evento, trauma, storia

18 Febbraio 2021

Una storia che voglia andare nel profondo della comprensione psichica degli avvenimenti forse non può accontentarsi di concentrare la propria attenzione soltanto su ciò che è fattualmente successo, ma deve anche cercare in ciò che è stato desiderato, voluto, benché non sia accaduto nel tempo deputato. Ciò non per fare l’inutile avvocatura dei sé e dei ma, bensì per comprendere come, a volte, proprio ciò che avrebbe potuto essere, ma non è stato, può emergere successivamente dal suo spazio negativo e contribuire a produrre, après coup, fatti storici positivi di grande portata. Molti sarebbero gli esempi in tal senso. Ne farò alcuni. Si pensi alla “pugnalata alle spalle” con cui il nazionalismo tedesco, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, preparò la strada a quella che avrebbe dovuto essere la rivincita della seconda. Si pensi anche a un paese vincitore del primo conflitto mondiale, quale fu l’Italia, e alla “vittoria mutilata” che forte influenza ebbe nel nutrire e incanalare il risentimento sociale del belpaese, derivato dalla delusione seguita alle aspettative dall’esito vittorioso. L’enfasi propagandistica arrivò perfino a istituzionalizzare la figura del mutilato come una sorta di rovina parlante, dotandolo capillarmente di sedi ufficiali, erigendogli monumenti a ricordare a tutti che la mutilazione non era soltanto una ferita dei corpi, ma anche uno sfregio e un mancato compimento alla vittoria della nazione. 

 

Il non accaduto ma desiderato può contribuire a portare, dunque, a indesiderati eventi che poi paiono essere sorti dal nulla, mentre, come abbiamo accennato, essi traggono la loro scaturigine da quello spazio negativo, da quella volontà di potenza frustrata, da quel risentimento i quali sono spesso le fucine della macchina mitologica che officia il primordio di una tradizione cercando soprattutto di cancellare il fatto che anche essa ha avuto un inizio storico – così ammonivano Hobsbawm e Ranger nella loro raccolta di saggi L’invenzione della tradizione. Non ci sono necessariamente soltanto esempi nefasti, come quelli ai quali qui abbiamo accennato facendo riferimento al secolo scorso. Si pensi al contro-intuitivo e singolare legame fra il desiderio di rinascita che sorge nel bel mezzo della distruzione e della morte provocata dalla peste nera alla metà del 1300 e la civiltà antica.

 

Quest’ultima osservata in ciò che, pur distrutto, riusciva ancora a testimoniare le sue forme materiali e culturali di provenienza e cioè le rovine antiche. Nuovo oggetto questo, inventato/trovato dagli umanisti, che introduce una nuova discontinuità temporale. Come se il concomitare dell’evento distruttivo della peste con l’oggetto che ha resistito alla completa distruzione, qual è appunto il resto dell’antichità, avesse dato la possibilità di individuare nel passato un ritmo epocale che prima non si era stati in grado di vedere. Si pensi ancora, nello stesso 1300, un po’ di anni prima della peste nera, al trasferimento della sede pontificia da Roma a Avignone. L’assenza del papa dal luogo da cui per secoli la sua presenza era considerata ormai come un dato di natura, accende a tal punto il desiderio per il ritorno del pontefice nella città eterna, che ben presto il desiderio medesimo si dilata fino a riscoprire una grandezza diversa e più antica, oltre la cristianità, della stessa Roma. 

La dinamica fra il non accaduto desiderato e l’indesiderato accaduto chiama in causa quella che in genere gli storici odierni considerano un’impossibilità nella storia: la ripetizione. Non è un caso se chi fa parzialmente eccezione a questo paradigma, come Marx e Engels e con loro una parte della storiografia del movimento operaio, per ammettere in qualche misura la ripetizione senza disgiungerla dalla trasformazione, abbia dovuto appellarsi ai generi tanto teatrali quanto psicologici della tragedia e della farsa. 

 

Vogliamo con ciò dire che anche la storia si ripete? No, se ci atteniamo soltanto al piano diurno dei fatti ufficiali. Sì, o almeno più prudentemente, forse, in una certa misura, se includiamo anche il piano notturno della storia – quest’ultimo indagato in Italia coraggiosamente e profittevolmente soprattutto da Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi che hanno portato alla ribalta individui e gruppi che erano stati, per la storia, soltanto soggetti così assoggettati e passivi, da essere stati sistematicamente ignorati, fino al punto da spingere chi ha voluto portarli alla luce, a cercare di essi in nuove fonti o a interrogare, in quelle vecchie, elementi che in precedenza non erano stati considerati. 

 

Come sul desiderato non accaduto e sull’evento che rivela un desiderio che reinstalla la sua origine nel passato, così sull’apparente e sorprendente sordità della ripetizione ai richiami della magistra vitae a che certi avvenimenti non succedano nuovamente, la psicoanalisi può portare il suo importante contributo. Contributo alla storiografia ma anche, à rebours, contributo della storia alla psicoanalisi. In ciò come a inverare il lascito di Freud che ha considerato, a partire da un certo punto, la psicoanalisi come una disciplina storica, dopo essersi mosso forse con più preferenza precedentemente sui territori dell’antropologia, della linguistica e dell’archeologia. Per la psicoanalisi muoversi dai paradigmi di queste ultime discipline a quello della storia significa spostarsi da un dato positivamente inteso al netto della variabile del tempo, a un dato più complesso che non ha smesso di essere anche status e sintomo – quel dato in cui l’una e l’altra faccia della medaglia, il positivo e il negativo della traccia e del documento costituiscono, come nell’anamnesi medica, non solo un ritrovamento, ma anche ciò deve essere stabilito, ricostruito. E ciò non fuori dal tempo, bensì nel tempo. Non solo il dato per sé stesso considerato, ma anche la sua assenza, dove ci si doveva o poteva aspettare di trovarlo. Non soltanto il nesso strutturale utilizzato dall’antropologia e dalla linguistica, ma anche ciò che, pur lasciando intravvedere l’imbastitura di un sistema, rimane resistente, ossia a fare da langue e parole a sé stesso: singolarità storica che, paradossalmente proprio grazie alla sua irriducibilità, può essere esemplare e così illuminare anche altro da ciò che esso sembra non essere stato. L’anamnesi medica – si diceva – è, nella storiografia, un po’ come la critica delle fonti: il luogo dove sono più evidenti la distinzione e al contempo l’impossibilità di separare res gestae e historia rerum gestarum

 

La psicoanalisi dell’ultimo Freud sembra essere stata particolarmente interessata a considerare di trovare lo storico anzitutto in ciò che sembra di difficile interpretazione, non scioglibile in una narrazione in cui tutto si tiene e che invece, resistendo già nella sua datità, obbliga chi cerca non soltanto a scavare in una direzione, ma più complessivamente anche a prendere in considerazione e persino a ricostruire tutto ciò che verrebbe scartato. Dall’anamnesi preparatoria allo scavo, ai materiali collaterali prodotti dalla stessa ricerca svolta nell’oggi. E ciò non tanto per tornare a quanto un altro tipo di storico psicologo come Benedetto Croce diceva, riguardo a che la «storia è sempre contemporanea», ma soprattutto per tenere in considerazione che lo stesso contemporaneo è sempre storico. Non solo il passato è stratificato e fatto di temporalità diverse, ma lo è anche il presente. Il presente non è soltanto la punta terminale di un fascio conico che si allarga sfumando sempre più verso il remoto indistinto, ma un taglio costituito di più punti di terminazione che fanno del cono un tronco irregolare. Sul piano individuale e biografico, su quello collettivo e sociale, la singolarità storica è proprio questo taglio. 

 

 

All’insegna della singolarità storica nasce la nuova rivista psicoanalitica Frontiere della psicoanalisi (quadrimestrale, edito dal Mulino). Frutto della collaborazione di scuole e linguaggi psicoanalitici diversi, nonché di altre discipline, questa rivista è unita anzitutto dal progetto di ribadire l’importanza della storia nel contributo all’indagine sociale che la psicoanalisi può dare e così nella stessa clinica psicoanalitica. Diversamente da quanto era stato programmato dai direttori della rivista, Maurizio Balsamo e Massimo Recalcati e dalla redazione, l’argomento del primo numero si è come imposto da sé, in ragione dell’emergere degli eventi legati alla pandemia di cui stiamo facendo ancora esperienza. Alla ricerca di tutte quelle stratificazioni storiche che proprio l’irrompere prepotente di questo avvenimento globale, con il suo ottuso e reiterato presenzialismo, rischia di cancellare, facendo venir meno quegli appigli che potrebbero servirci, per fare da cronotopo a una comprensione più profonda e contestuale di quanto è coinvolto in questo evento – non solo l’emergenza sanitaria. In tal senso, il tema del primo numero adotta per titolo una sequenza di parole che in genere vengono convocate quasi per sfidare, attraverso l’impossibilità, il possibile della temporalità storica: Irruzioni / Evento, trauma, storia. E ciò a restituire invece, come si diceva, tutta quella stratificazione che l’evento traumatico, nella sua assolutezza, sembra a prima vista, se non negare, ridurre troppo semplicisticamente a ciò che unidimensionalmente pare essere presenza.

 

Storia e psicoanalisi si offrono invece di significare, come si ricava dall’editoriale scritto dai due direttori, la trama fatta di intertempi ritmati da pieni e vuoti, da possibilità e impossibilità, da trasformazioni e ripetizioni. Quello della clinica psicoanalitica, anche quando ospita il trauma, anzi forse anche di più in questo caso, non è soltanto il tempo unico che, apparentemente fermo nel presente, permetterebbe un’interpretazione soltanto volta in avanti, finché cioè non saranno trovate ermeneutiche creative per rilanciare verso ciò che non c’è ancora: il futuro. Soprattutto nella situazione del trauma, la clinica deve non accontentarsi dell’adesso, ma deve osare districare, ricostruendone la trafila, anche gli altri fili temporali che possono permettere, più che di interpretare, di tradurre diversamente ciò che altrimenti appare consegnato irreparabilmente alla coazione a ripetere. Coazione e ripetizione, in genere considerate come un agglomerato inscindibile, vanno invece considerate esse stesse anche come elementi fra loro concorrenti, a contatto, ma non completamente sovrapposti. È fra loro ad esempio che si può trovare lo spazio per quello che Balsamo, nel suo intervento, chiama Il negativo del trauma.

 

Qui la ripetizione non è vista soltanto come il segno destinale della vittoria inappellabile del traumatico, ma anche come il tentativo di istituire legami al fine di perimetrare il trauma stesso, ritraducendolo appunto in quella dimensione temporale, storica dalla quale non sapeva o eludeva di essere derivato. Per Balsamo, più negativo della ripetizione in se stessa considerata, può essere il fallimento, da parte della stessa ripetizione, di istituire un legame. Operazione di ripetizione che spesso prescinde dall’apparente identità del contenuto ripetuto e che invece, proprio grazie al ripetere costruisce carsicamente la sua stessa dimensione trasformativa nella sequenza temporale che, fatta anche di anacronismi e aritmie, può rivelarsi non identica, non uniforme, non coatta. Persino nella reiterativa e destinale agonia, come quella rilevata nel saggio di Nelson Ernesto Coelho Junior, Eugênio Canesin Dal Molin e Renata Udler Cromberg, riguardo la vicenda biografia di Milan Kundera, sembra incistarsi, almeno come insperata possibilità, la trasformazione dell’agonia stessa in agonismo. Anche nell’intervento di Francesco Giglio il trauma non è monovalente, destinato a una temporalità obbligata. È anzi ambivalente, cioè oscillante tra chiusura e apertura, come avviene in quel trauma speciale al quale nessuno sfugge, qual è quello della nascita e dell’apprendimento del linguaggio che ci separa da un mondo, nello stesso tempo in cui ci apre a un mondo.

 

Nel commentare le immagini dell’artista Claudio Parmiggiani (di lui fornisce una scheda Fabio Benincasa in chiusura di sezione), Recalcati non solo distingue gli oscillanti sensi del trauma, ma più dettagliatamente in essi individua due diversi tipi di ripetizione: quella senza e quella con sublimazione. Ed è proprio quest’ultima che può rendere inscrivibile psichicamente la distruttività del trauma, attraverso l’indelebile resto che della distruzione dell’oggetto permane (nel caso analizzato da Recalcati, cioè quello di Claudio Parmiggiani, si tratta delle immagini che permangono a séguito della distruzione in un incendio della casa in cui era nato e aveva vissuto nell’infanzia l’artista). In fondo, sembrano dirci Parmiggiani e Recalcati, l’incenerimento e la completa cancellazione stessi possono costituire tracce, a volte persino più tenaci della consistenza dell’oggetto perduto. In tal senso, per Recalcati, la sublimazione non è semplicemente un’edulcorazione simbolica di quanto sarebbe o non sarebbe avvenuto nella realtà, una compensazione estetica totalmente disancorata dal reale, ma ciò che registra, se non la metamorfosi, almeno la torsione dell’oggetto reale distrutto, in traccia resistente, suscettibile di produrre nuova realtà.

Gli interventi che più direttamente indagano sul tempo presente della pandemia, cioè quelli di Pier Aldo Rovatti e di Jelena Reinhardt si concentrano l’uno sull’inseparabilità fenomenologica fra distanza e prossimità, sulla loro dimensione oscillante all’interno della quale il piano quantitativo (quanto vicini e quanto distanti) può tramutarsi in qualità, configurando situazioni fra loro completamente diverse, pur in presenza degli stessi elementi.

 

L’altro intervento, quello di Reinhardt su ciò che è, nella pandemia, un tema filosofico politico oltre che psicologico particolarmente importante, quello del contatto. Il saggio di Reinhardt ha il doppio merito di interrogare quello che si rivela essere un pensiero cruciale del rapporto prossemico, qual è quello di Elias Canetti, a contrasto con un testo capitale della politica moderna, cioè il Leviatano di Thomas Hobbes, attraverso la lettura che di quest’ultimo fa Ginzburg. Il tentativo di neutralizzare la paura di essere traumatizzati dall’altro, in Hobbes diventa corpo, qual è quello del sovrano che si erge maestoso sul teatro della vita politica (come nella celebre immagine del frontespizio del libro), mentre in Canetti si fa massa. E solo qui nella massa, secondo Canetti, paradossalmente, sembra che gli individui non temano di essere toccati, contagiati, perché riportati alla situazione paradigmatica che mostra ciò che il senso del tatto è sempre stato: irriducibile e contemporanea oscillazione di toccare e essere toccati. Chi continua ad aver paura è chi si trova fuori dalla massa e, per conseguenza, cerca di capitalizzare questa stessa paura in qualcosa che eccede la vita e la morte: la sopravvivenza. Il pauroso sopravvivente è chi finisce per attribuire la morte alla massa di cui lei/lui non fa parte e su cui ora si erge solo e vittorioso. Ma è proprio perché il sopravvivente sano e sovrano guarda alla massa dei morti che la paura di infettarsi adesso può trasformarglisi in paura del contagio di vivere. Messa a profitto la paura, il nemico può ora diventare la vita stessa.

 

Nei notturni della storia e in particolare sul famoso caso della Possessione di Loudun descritto da Michel De Certeau, si concentra il colloquio fra Pierre Antoine Fabre e Rossana Lista. Qui il dubbio tra ripetizione o irruzione del passato diventa traccia che segna un passaggio epocale di paradigma culturale e politico. E proprio ciò che rimane indimostrabile né essere, per conseguenza, diluibile in una narrazione coesa e coerente, né semplicemente abolito, costituisce lo storico. Come a dire, che anche il crinale che separa l’istituzionalizzazione del sapere dal non sapere è, in se stesso, un fatto di cui proprio la storia può rivendicare l’importanza euristica. 

Delle immagini, quali documenti psichici in cui si sono depositati i resti di un desiderio che avrebbe trasformato il rinascimento e la riforma in vera e propria rivoluzione all’epoca delle rivolte di Thomas Müntzer parlano l’intervista di Georges Didi-Huberman a Mauriel Pic e il saggio dello stesso Didi-Huberman che apre la sezione Esplorazioni nella rivista. Sezione che contiene altri interventi che si muovono sulla diversa forza che possono esercitare il desiderio dell’oggetto e quello della sua cancellazione. Proprio a causa di quest’ultima, l’oggetto può però diventare un fantasma psichicamente più insidioso della cosa stessa. Così avviene nel caso di tentativo di gestione dell’eros nell’esperienza eremitica dell’anacoreta Evagrio Pontico nel IV sec., analizzata da Valerio Marchetti. Nella stessa sezione, Giovanni Bottiroli analizza la Recherche di Proust, quale opera da cui emergerebbe un nuovo paradigma temporale, diverso sia da quello causale lineare della tradizione filosofica aristotelica, sia da quello della durata creatrice bergsoniana e deleuziana che è stata spesso presentata come la più potente alternativa a quella tradizionale.

 

Il saggio di Bottiroli, fra le altre cose, può essere considerato anche come un monito ad allargare la preoccupante questione della scomparsa della storia (tema del prossimo numero di Frontiere della psicoanalisi), alla questione della scomparsa del tempo – argomento quest’ultimo che sta nuovamente riscuotendo attenzione come dimostrano, fra gli altri, i libri del fisico Carlo Rovelli. 

Sul nome testimoniale da dare al trauma dopo la distruzione degli ebrei nei territori dell’Europa e sul processo di affioramento del nome «trauma» nell’opera di Primo Levi si concentrano invece gli interventi di Antonella Salomoni e Marco Belpoliti. Analogamente al saggio di Marchetti, anche in Salomoni e Belpoliti si conferma il carattere storicamente e psichicamente ambivalente fra nome e oggetto, fra nuova semantizzazione di vecchie parole (nel saggio di Salomoni è la parola jar, «burrone») e nuovo senso che le cose acquisiscono attraverso ciò che si è tentato disperatamente di non far restare di loro: archi-traccia indelebile della distruzione stessa. Forse anche da questa paradossale archi-traccia, se non soprattutto da essa, implicitamente sembra inverarsi il detto di Freud nel Disagio della civiltà, secondo il quale «nella vita psichica la conservazione del passato è regola più che sorprendente eccezione». Così pare confermare anche la lettura a ritroso di tutti gli interventi fatta a chiusura e riapertura dell’intero volume da Anna Montebugnoli e Fiamma Vassallo. 

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