1 giugno 1970 - 1 giugno 2020 / Giuseppe Ungaretti a cinquant'anni dalla morte

1 Giugno 2020

Giusto cinquant’anni fa, la notte fra il primo e il due giugno 1970, moriva a Milano Giuseppe Ungaretti, all’età di ottantadue anni.

Quando, il quattro giugno, si svolsero i funerali, nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura a Roma, il poeta fu accompagnato da familiari, da amici scrittori, da artisti ed allievi, ma da nessun esponente dell’Italia ufficiale. Carlo Bo, suo antico sodale, pronunciò, secondo l’amico e biografo Leone Piccioni che le riporta, parole di questo tenore: “Giovani della mia generazione, in anni oscuri di totale delusione politica e sociale, sarebbero stati pronti a dare la vita per Ungaretti, cioè per la poesia”.

Vittorio Sereni, appresa la notizia della morte, così commentò: “Muore per la seconda volta mio padre”.

Ungaretti non esercitò soltanto un’influenza a dir poco enorme sui poeti più giovani, al punto che Alfonso Gatto in un’intervista dichiarò che tutti si erano abbeverati a quella fonte (L’Allegria), anche se la sete era loro; quanto a Pasolini, da giovane era talmente infatuato del nostro poeta che parenti e ragazzi di Casarsa avevano preso l’abitudine di chiamarlo senza meno “Ungaretti”.

 

Egli era un poeta realmente popolare. Cosa che oggi riesce difficile anche a pensarsi. In effetti ci sono in circolazione molti bravi poeti, anche bravissimi, ma nessuno che possa paragonarsi a Ungaretti, per la sua fama e, oserei dire, rilevanza sociale.

Quelli che, come me, hanno una certa età ricordano ancora le sue letture dall’Odissea, con quella voce dal fascino ipnotico, cadenzata da lunghe pause, trasmesse dal piccolo schermo prima di ogni puntata dell’omonimo sceneggiato.

 

La sua capacità istrionica era tale che un attore del calibro di Vittorio Gassmann affermò che lui ormai si rifiutava di leggere in pubblico testi di Ungaretti: l’autore stesso era pressoché inarrivabile e rendeva letteralmente impossibile rivaleggiare con la sua dizione inimitabile.

Il nostro era davvero un poeta, nell’accezione più vulgata del termine, anche quella più banale.

Rientrano in quest’ambito certi episodi leggendari, immortalati da celebri foto, come, che so, il duello con Bontempelli nel 1929 in seguito a una polemica sul “Novecentismo”. O l’amore incandescente per una ragazza di cinquantadue anni più giovane di lui, la poetessa italo-brasiliana Bruna Bianco, che ha generato più di quattrocento lettere, dal 1966 al 1969. (Trecentosettantasette sono state pubblicate a cura di Silvio Ramat nel 2017 negli Oscar).

Un poeta-personaggio dunque, dalla vita esuberante, spesso sopra le righe, mentre il suo naturale contraltare era rappresentato da Eugenio Montale, autentico anti-personaggio che, essendo vissuto sempre e solo “al cinque per cento”, chiedeva cortesemente ai futuri biografi, ove ve ne fossero, di non “aumentare la dose”.

 

 

Al proposito cade qui quanto mai opportuna la citazione della seguente “scorciatoia” di Umberto Saba, assai illuminante sul rapporto fra i due: “UN POETA che ammiro, a un critico che, durante un pranzo, gli parlava bene di un altro poeta (Montale), voleva – e si era appena alla pasta asciutta – cavargli un occhio con la forchetta. Col suo gesto (fortunatamente stornato) il giovane, e un po’ ebbro, Ungaretti, dimostrava: 1. Quanto era poeta; 2. Quanto i poeti sono, irrimediabilmente, infantili”.

Non era solo peculiarmente POETA, Ungaretti, era anche, e forse più, peculiarmente ITALIANO. 

Da giovane anarchico (in Egitto con Enrico Pea e la sua “Baracca rossa”), poi fascista convinto, “diciannovista”, (si veda la prefazione di Benito Mussolini all’edizione 1923 del “Porto sepolto” nonché il libro dell’anno scorso di Claudio Auria, La vita nascosta di Giuseppe Ungaretti) e dopo, da ultimo, democristiano (così Luigi Russo in uno dei suoi scritti contenuti nell’Elogio della polemica).

Giuseppe Ungaretti è un autore troppo noto e troppo studiato per ripercorrerne qui le tappe fondamentali.

 

Preferisco azzardare un accostamento con Pessoa, così, tanto per sondarne qualche dimensione.

Non paiono essere due poeti radicalmente diversi, da un lato il giovane Ungaretti del famigerato “m’illumino d’immenso” o del “Si sta come/ d’autunno/sugli alberi/le foglie”, l’eversore della metrica tradizionale, della punteggiatura, l’autore che semantizza preposizioni come “di” o congiunzioni come “e”, facendo loro assurgere dignità di verso, e il maturo Ungaretti tessitore di testi dalla complessità e architettura stupefacente come il Recitativo di Palinuro nella Terra promessa, che è fra l’altro una sestina, rivaleggiante con Arnaut Daniel o il Dante petroso o il Petrarca più “tecnico”?

 

Non si tratta di una compresenza molto diversa, crediamo, rispetto a quella dell’avanguardista e whitmaniano  Álvaro de Campos con l’oraziano e neoclassico Ricardo Reis nella stessa persona di Pessoa.

“Poeti, poeti ci siamo messi/ tutte le maschere” recitava il Monologhetto in Un grido e paesaggi

Ungaretti da giovane indossò quella del poeta rivoluzionario, in tutti i sensi, aiutato anche dal suo essere “girovago”, sradicato, più francese che italiano e comunque abituato al clima davvero cosmopolita di Alessandria d’Egitto e quindi estraneo, tutto sommato, alla soffocante tradizione italiana, salvo riappropriarsene poi, giungendo, per il tramite di Petrarca e Leopardi, a un suo barocco atemporale. Per caratterizzare il quale non troviamo nulla di meglio che una assai calzante descrizione di Pasolini (nel saggio Un poeta e Dio in Passione e ideologia): “tra parola e parola spesso si avverte una frizione che minaccia di disgregarne l’unione, di infiammarne il connettivo fino a lederlo. Molte volte si ha l’impressione che basterebbe un minimo urto per respingere questa sintassi al caos della origine, al balbettio”.

 

Formule che ci paiono adattarsi perfettamente a certe strofe di Tu ti spezzasti, nel Dolore: “E la recline, che s’apriva all’unico/raccogliersi dell’ombra nella valle, araucaria, anelando ingigantita/volta nell’ardua selce d’erme fibre/più delle altre dannate refrattaria…”. O anche, sempre nella stessa raccolta, al memorabile attacco di Amaro accordo: “Oppure in un meriggio d’un ottobre/dagli armoniosi colli/in mezzo a dense discendenti nuvole/i cavalli dei Dioscuri/alle cui zampe estatico/s’era fermato un bimbo,/sopra i flutti spiccavano”.

Fino a tornare, nelle poesie ultimissime di Dialogo (dove l’altra voce è quella della ricordata Bruna Bianco) a una semplicità disarmante, come in Dono: “ Ora dormi, cuore inquieto,/ora dormi, su, dormi”, benché memore, in filigrana, di analoghi passi omerici e archilochei, dov’è il colloquio con il proprio cuore.

 

Ungaretti è stato anche critico. Da professore universitario sappiamo che era capace di dedicare un intero anno di corso ad un unico testo, ad esempio la Primavera o delle favole antiche di Leopardi.

Geniale rimane la sua lettura dell’Infinito. Testo ironico, secondo il nostro, sarcastico quasi. Perché in esso il poeta giunge a darci il sentimento dell’eterno, la sua idea, tramite oggetti di assoluta finitudine, quali una siepe smossa, le fronde di un albero agitate dal vento.

Come splendide sono alcune sue traduzioni, da Mallarmé o da Gòngora.

La cui chiusa del sonetto X recita, nella versione ungarettiana, “in terra, fumo, polvere, ombra, niente”, magnifico delirio di negatività.

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