Dioniso e la nuvola / Il discorso critico 2.0

C’è ancora spazio per la mediazione culturale?

 

La critica deve oggi svolgere la sua mediazione in un panorama che vede agire vecchi e nuovi media, in un regime a volte di concorrenza, a volte di collaborazione. Il meccanismo di cui siamo protagonisti e insieme vittime tende ad abbattere mediazioni e gerarchie. Rende difficile la sostenibilità economica di imprese giornalistiche e culturali indipendenti, sia le tradizionali testate con una vita ormai centenaria, che rischiano di essere spazzate via, sia i blog e le start up, che solo in rari casi sono riusciti a garantirsi la redditività sufficiente alla sopravvivenza.

 

Sono cambiati anche i destinatari: soggetti “liquidi”, che costruiscono la propria identità anche sulla base dei consumi culturali, in uno scenario caratterizzato da un’offerta sempre più massiccia e variegata sia di prodotti sia di informazioni. Lo sviluppo tecnologico, la competizione globale, il mercato del lavoro rendono necessaria una formazione permanente.

 

Non è solo un problema di selezione critica. I prodotti culturali rappresentano un’eccezione, come già aveva notato l’economista Alfred Marshall (1842-1924) alla fine dell’Ottocento: “Mentre nel consumo dei beni industriali, oltre un certo livello, la soddisfazione degli individui tende a decrescere, nella fruizione della musica vale il principio inverso: più la si ascolta, più la si apprezza”. In generale, il consumo di prodotti culturali cambia il gusto degli utenti, che diventano sempre più competenti ed esigenti, e genera assuefazione. II consumo culturale, che porta ad apprezzare prodotti sempre più complessi, fa parte di un percorso autopedagogico e di crescita personale: questa funzione può e deve essere accompagnata e guidata, per qualificare i consumi anche in vista di uno sviluppo del capitale cognitivo.

 

Siamo sollecitati a partecipare a un’enorme quantità di processi culturali e artistici anche dalle necessità di aziende che per restare redditizie devono imporre al mercato prodotti sempre nuovi. In parallelo, veniamo sollecitati a diventare noi stessi produttori di contenuti, anche per nutrire la macchina dei social: “A cosa stai pensando?”

 

L’efficacia dei social network, e in generale del web 2.0, è fondata sull’insieme di preferenze e curiosità individuali e di vita quotidiana degli utenti e sulle loro relazioni interpersonali: è un patrimonio di ciascuno di noi, ma è anche un bene comune, diffuso e pulviscolare. I signori della rete, in cambio di un servizio, si appropriano di tutto questo, lo ingabbiano e lo trasformano in valore economico. Il soggetto – o i soggetti – che danno origine a questi processi sociali ne vengono espropriati, in tutto o in parte. Finora la moralità della rete si è fondata sulla fiducia (piuttosto ingenua) degli utenti e sugli appetiti dei grandi oligopoli: un rapporto squilibrato. Con i suoi potenti feudatari, la rete è la prima ad aver bisogno di nuove regole e di una nuova etica dell’interazione, per motivi che non riguardano solo l’orticello delle arti.

 

La funzione dei mediatori, ovvero quella di selezionare i prodotti culturali sulla base di una gerarchia o di una scala di valori, oggi viene svolta dalle classifiche dei best seller e dal numero di visualizzazioni: la quantità determina una scala che risulta “più ‘oggettiva’ e più reale”, come nota Hannah Arendt (1906-1975). Questa presunta “oggettività” ha “il denaro come denominatore comune della soddisfazione di tutti i bisogni”, ma “la realtà della sfera pubblica si fonda nella presenza simultanea di innumerevoli prospettive e aspetti in cui il mondo comune si offre, e per cui non può essere trovata né una misura comune né un comun denominatore”.

 

Hannah Arendt faceva riferimento a una dinamica assai meno sviluppata di quella attuale, ma centra il cuore del problema. Oggi il senso della mediazione consiste prima di tutto nel restituire questa pluralità di prospettive, mettendo in relazione il soggetto con la nuova sfera pubblica. E questo significa in primo luogo rendere consapevoli delle differenze in un orizzonte omologato dalla quantità.

“La cultura digitale si basa sul dito che conta: la storia, invece, è un racconto”, nota il teorico coreano Byung-Chul Han. “La storia non conta: contare è una categoria poststorica”.

 

L’over flow informativo, l’esondazione dei contenuti, invece di darci chiavi di lettura, finisce per disorientarci. La dittatura dei big data, con le loro gerarchie basate su accessi, acquisti, contatti e condivisioni, rende impossibile differenziare centro e periferia, alto e basso, e cancella qualunque scala di valori fondata sulla qualità. Per orientarci tra tutti i canali disponibili, ciascuno di noi tende a costruirsi una personale “dieta mediatica”, con alcuni punti di riferimento ritenuti utili, autorevoli e gradevoli.

 

Io scelgo di ascoltare una certa radio, di navigare su certi siti, seguire certi blog, darmi di certi editori nella scelta di un libro perché da solo non ce la farei, il principio della divisione del lavoro vuole che ci siano delle persone che sono più brave di te in certi ambiti e che perciò ti aiutano a operare una selezione, una scelta.

 

Secondo Giorgio Zanchini, potrebbe dunque esserci spazio per una nuova figura di mediatore, necessariamente diversa da quella novecentesca, che deve oltretutto mettere in conto “il rischio di lavorare, consapevolmente o meno, per i grandi player, che mettono in circolo le sue idee senza nessun ritorno economico, e il rischio di confondere la propria voce [...] in una cacofonia in cui tutte le voci si equivalgono”.

 

“L’informazione è cumulativa e additiva, mentre la verità è esclusiva e selettiva” (Byung-Chul Han).

Le grandi trasformazioni della mediasfera e la velocità sica e virtuale delle comunicazioni rendono indispensabile l’informazione onesta e indipendente, a tutti i livelli. Gli Stati, gli organismi economici e i leader politici, di fronte alle paure, si piegano facilmente alle ondate demagogiche e agli interessi particolari. Unico labile antidoto, la crescita culturale dei singoli:

 

"La facilitata propagazione delle informazioni (overload) e degli stati d’animo più immediati (populismo) può avere, per le comunità, un senso compiuto solo se i fatti vengono interpretati correttamente da fonti credibili e in grado di farsi sentire (Raffaele Fiengo)."

 

Le arti e la rete sviluppano e favoriscono meccanismi che privilegiano la provocazione fine a sé stessa: una facile sollecitazione emotiva, una estetica dello shock che genera scandalo, a volte irritazione, e dunque attenzione. Un fenomeno per certi aspetti analogo è la diffusione in rete di contenuti di sapore scandalistico, e a volte di notizie false. Il clic baiting, ovvero la creazione di post privi di valore ma attraenti per il grande pubblico, e le fake news, notizie false costruite ad arte per attirare traffico (o per screditare avversari e concorrenti), sono il parallelo giornalistico della provocazione artistica fine a sé stessa.

Di recente è stato proposto di istituire autorità pubbliche o, peggio, private che controllino la “verità” delle notizie diffuse in rete. Un filosofo di solide radici liberali come Dario Antiseri ha notato: “Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste nessuna autorità umana; e chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dèi”. È questo il messaggio epistemologico di Albert Einstein; lo stesso di quello di Karl Popper: “Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. La scienza è fallibile perché la scienza è umana”. E ancora: evitare l’errore ammonisce Popper è un ideale meschino; se ci confrontiamo con problemi difficili, è facile che sbaglieremo; l’importante e la cosa più tipicamente umana è apprendere dai nostri errori. L’errore individuato ed eliminato costituisce il debole segnale rosso che ci permette di venire fuori dalla caverna della nostra ignoranza".

 

L’informazione e la critica in rete si trovano oggi allo snodo tra spinte divergenti. Per diversi motivi, le tradizionali agenzie, come le testate giornalistiche, le case editrici, la scuola, l’università e l’accademia, i partiti politici e i sindacati, non sono più sufficienti perché subiscono la pressione di altre forze. Certamente la competenza assicurata dai processi educativi consolidati è imprescindibile, ma deve essere nutrita dall’indipendenza intellettuale e dalla libertà di pensiero.

 

I grandi player della scena di internet filtrano e ordinano; così determinano chi vede quali contenuti, sulla base di algoritmi segreti, senza alcun controllo o verifica. L’ideologia apparentemente democratica della rete, sulla base del principio che “uno vale uno”, rischia di decretare la “fine dell’esperto”, anche se si tratta di un vicolo cieco. Il pensiero critico si trova schiacciato tra due meccanismi manipolatori, uno dall’alto e l’altro dal basso: deve dunque conoscerli, comprenderli e saperli decostruire, per portare alla luce i loro presupposti ideologici e mettere in atto reali processi di crescita personale e di emancipazione collettiva. Il pensiero critico si nutre della pluralità e della varietà delle fonti, genera dibattito e deve creare “dissenso produttivo”.

 

In molti paesi, questo si traduce nella lotta contro varie forme di limitazione della libertà di espressione. Ci sono meccanismi espliciti di censura, che colpiscono prima di tutto gli artisti: in paesi come l’Ungheria e la Russia, “i professionisti del teatro hanno bisogno del sostegno e della solidarietà intellettuale dei critici” (Kristina Matvienko). Gli attacchi alla libertà di stampa nelle democrazie occidentali hanno conseguenze drammatiche, perché giustificano la censura nei regimi illiberali. Come ha sottolineato The Economist, “l’intolleranza da parte dei Liberal occidentali ha conseguenze del tutto inconsapevoli. Anche i despoti sanno che limitare la libertà d’espressione di intellettuali petulanti ma non-violenti è disdicevole. Quasi tutti i paesi hanno leggi che difendono la libertà d’espressione. Così i regimi autoritari cercano motivi rispettabili per limitarla”.

Anche in paesi di democrazia matura, non mancano forme di censura e intimidazioni alle quali è necessario rispondere.

 

Il disegno in copertina è di Arianna Vairo.

 

La critica come dialogo

 

Prese singolarmente, le riviste e i blog culturali rappresentano, anche in Italia, un mondo variegato e frammentato, fatto di realtà trascurabili, almeno rispetto all’audience dei siti maggiori. Tuttavia nel loro insieme raggiungono centinaia di migliaia di lettori ogni settimana, che avvertono il bisogno del parere degli “esperti” per orientare e verificare le loro scelte e possono avere una funzione importante in questo processo. Con gli inevitabili pro e contro: i blogger hanno avvicinato, grazie a un linguaggio veloce e pop, persone meno disposte all’informazione culturale “accademica”, al netto però di una semplificazione di contenuti e concetti.

Solo il pensiero critico può creare cittadini e consumatori partecipi e consapevoli. Il giornalismo, e soprattutto la pluralità di espressione dei blog, sono essenziali per la formazione di un’opinione pubblica raziocinante. Nelle parole del blogger, oltre che scrittore, Christian Raimo: "quello contro cui i blog culturali cercano di resistere è una informazione culturale in senso pubblicitario; è una cosa che non serve a nulla; come non serve a nulla una critica che non è capace di mappare".

 

Questo universo, dove “convivono democrazia e confusione, quantità e qualità, libertà e surplus di informazione” (Lella Mazzoli e Giulia Ramondi), favorisce la dimensione dialogica, che rilancia il pensiero critico, tiene aperta la “possibilità del dissenso” (Diana Damian Martin), porta alla luce il rapporto tra l’estetico e il politico, identificando il potenziale innovativo o rivoluzionario di un evento o di una pratica artistica. La natura dialogica della rete 2.0 amplifica la natura dialogica della critica: una critica che non vuole o non può più essere né oggettiva né soggettiva, deve recuperare o rilanciare la propria natura discorsiva, integrando verticalità e orizzontalità, processi di mediazione e contesti partecipativi.

 

Nell’attuale mediasfera, l’esperienza dello spettacolo non è più solo e tanto un evento concluso, ma è anch’essa immersa in un flusso narrativo che comprende anche la riflessione critica e la discussione di quella esperienza. Il dialogo in rete può avere natura carsica. I contenuti restano disponibili a lungo, potenzialmente all’infinito. Un thread di discussione può restare silenzioso per mesi e poi riaccendersi all’improvviso.

 

"Perché le performance devono continuare a generare visioni e idee anche dopo che il momento in cui si svolge l’evento è passato? Le performance dovrebbero aver diritto a una vita eterna, che va oltre le tre ore alle quali hanno potuto assistere pochi critici privilegiati. Questo già accade nella memoria, ed è un prezioso processo culturale. In questo modo il blog diventa un archivio vivente, in continua evoluzione: può offrire nuove conclusioni a studiosi di letteratura, storici, registi e a un pubblico interessato alle diverse fasi della sua esistenza; grazie alla sua natura dialogica, può diventare qualcosa di più di una collezione di reazioni allo spettacolo isolate e avulse dal contesto (Eleanor Collins)."

 

La mediazione critica si pone nella cerniera tra reale e virtuale, tra “presente continuo” e memoria individuale e collettiva, tra espressione personale e dibattito pubblico.

Il presente continuo della rete astrae dal contesto. Tutto è reale, tutto si fa virtuale, perdendosi in un flusso incessante che non si sedimenta in esperienza. Tuttavia:

 

"l’azione si rivela pienamente solo al narratore, cioè allo sguardo retrospettivo dello storico, che quindi conosce sempre meglio dei partecipanti ciò che è accaduto. Tutti i resoconti degli stessi attori, benché possano offrire in rari casi una dichiarazione, del tutto degna di fede, di intenzioni, scopri e motivi, nelle mani dello storico diventano semplicemente delle fonti utili, e non possono mai competere con la sua storia in termini di significato e veridicità (Hannah Arendt)."

 

Il teatro può restituire la rappresentazione al racconto, recuperando o rilanciando la narrazione lineare: lo dimostrano il successo di una forma non rappresentativa come il “teatro di narrazione”, ma anche l’interesse per esperienze che in vario modo affrontano il tema della narrazione storica. Lo spettacolo teatrale può porre gli eventi in una prospettiva storica, ritrovando la profondità dell’esperienza. La critica teatrale inserisce un ulteriore indispensabile punto di vista, che arricchisce la prospettiva, dando consapevolezza di queste funzioni e stratificazioni: costruisce essa stessa un racconto che offre la possibilità di condividere l’esperienza. 

 

Tratto da Giulia Alonzo, Oliviero Ponte di Pino, Dioniso e la nuvola. L'informazione e la critica teatrale in rete: nuovi sguardi, nuove forme, nuovi pubblici, Franco Angeli 2017.

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