Hai sbagliato foresta? / Il furore dell'identità
Tornando sempre più indietro a passo di gambero (secondo l’ottima metafora di Umberto Eco), tocca riprendere temi e rispiegare concetti che sembravano assodati, condivisi, ovvi. La società e la cultura contemporanee fanno spesso economia, per usare un eufemismo, delle faticose conquiste intellettuali e politiche che hanno contraddistinto la modernità, accogliendo con malcelata ipocrisia pose e atteggiamenti, valori e diffidenze, violenze e contese che pensavamo passate, superate, risolte. Non so se si tratta di ritorno del rimosso, com’è probabile; è certo comunque che la rinascita dell’oscurantismo – etnocentrismi, razzismi, omofobie, discriminazioni di genere – va di pari passo con le rivendicazioni identitarie che, a più riprese e su più fronti, si agitano oggi per il mondo. Identità nazionali, regionali, territoriali, linguistiche, perfino gastronomiche sono sulla bocca di tutti, spesso a sproposito o, meglio, sovente in qualità di bandiere sventolate alla bisogna per rivendicare posizioni di potere, giustificare gerarchie sociali, naturalizzare ipotetiche differenze di razza, se non, addirittura, rendere accettabili al pubblico variopinto dei media generalisti pulizie etniche d’ogni sorta.
È la tesi esposta con vigore nel nuovo libro di Maurizio Bettini, classicista, antropologo e opinionista (suo anche un bel manuale di storia per i licei), il cui titolo, Hai sbagliato foresta (Il Mulino, pp. 168, € 14), cita espressamente una quartina di Giorgio Caproni: “Non chieder più. / Nulla per te più resta. / Non sei della tribù. / Hai sbagliato foresta”. Fra le ossessioni che caratterizzano il dibattito culturale (e politico) odierno c’è proprio, secondo Bettini, questa smania di stabilire chi è della (propria) tribù e chi no, chi ha azzeccato e chi ha sbagliato foresta – posto che, sembrava dire Caproni, in ogni foresta chiunque è inevitabilmente portato a perdersi –, avendo come fine più o meno dichiarato quello dell’esclusione coatta di chi viene considerato diverso, di un mantenimento pervicace della propria identità che sfocia nell’abbandono di ogni dialogo con l’alterità. In questo senso, il libro di Maurizio Bettini più che un saggio è un testo militante, quasi un pamphlet, sicuramente una presa di posizione polemica rispetto a quelle teorie più o meno fondate che, inneggiando a vario titolo all’identità, danno adito a continui massacri, stragi, azioni terroristiche e violenze d’ogni tipo. Di conseguenza, più che soffermarsi sui complessi meccanismi socio-antropologici di costituzione dell’identità e sui continui processi di trasformazione e ibridazione, su cui esistono già innumerevoli volumi (da Lévi-Strauss a Ricoeur, da Sahlins a Remotti), Bettini preferisce decostruire i discorsi identitari e i loro esiti pragmatici, le argomentazioni dei fanatici della conformità culturale e le loro conseguenze psico-sociali.
Ma di cosa parliamo quando parliamo d’identità? Da classicista, Bettini si concede una piccola escursione filologica, dalla quale emerge che nella lingua latina classica non esisteva alcun termine corrispondente al nostro ‘identità’, e che identitas, come derivato da idem, arriva solo nel IV secolo dopo Cristo quando in sede teologica si discuteva della natura della Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, sosteneva Ario, hanno la medesima sostanza, condividono perciò un’identitas, termine che, appunto, gente come Cicerone o Seneca non avrebbero nemmeno compreso. Così, l’identità è una nozione che nasce nell’ambito del sacro, e lì resta a lungo, in modo spesso inconsapevole o forse inconscio, al punto che, osserva Bettini, il responsabile culturale di Casa Pound, tale Adriano Scianca, per portare avanti le sue rivendicazioni fasciste, scrive un libro che s’intitola L’identità sacra, tutto pieno di terminologie allusive alla sfera religiosa. Inoltre, il termine latino contrario a identitas, e cioè alteritas, deriva a sua volta da alter, che è concetto negativo, traducibile grosso modo come ‘non stesso’, tale perché frutto di una qualche forma di alterazione. Così l’adulterium, che i romani notoriamente detestavano, è una crasi da ad alter, il concedersi a un altro di fatto alterando la relazione matrimoniale, e perciò il potere assoluto del pater familias. Il passaggio successivo, continua Bettini, è che, se l’alterità è alterazione, l’identità è purezza, non contaminazione, mantenimento ostinato della propria ‘stessità’. Di modo che l’accezione sacrale viene confermata, portandoci dritto alla nota riflessione di Mary Douglas su purezza e pericolo, pulizia e sporcizia. Il sacro è per Douglas, si ricorderà, ciò che non è soggetto a corruzione, che resta lì, distante, sempre fedele a se stesso.
L’ondata suridentitaria che caratterizza il nostro presente, dove siamo giunti a passo di gambero, sostiene Bettini analizzando passo passo i testi dei fanatici d’ogni sorta, conserva molto di questa idea dell’identità come purezza negativa, come non contaminazione, come qualcosa che non si snatura perché non entra in contatto con l’altro. Ogni discorso sull’identità sarebbe insomma bipolare, in tutti i sensi del termine. Per certi versi paradossalmente, fascisti, sovranisti e loro avatar corroborano, invertendola, la riflessione filosofica e antropologica sull’identità come costrutto culturale che si costituisce nel dialogo, nell’incontro e nello scontro fra il sé e l’altro, ‘noi’ e ‘loro’, come artefatto che è sempre frutto di un compromesso, di un’ibridazione, se si vuole di un imbarbarimento. Come quei tortellini al pollo che a un certo punto alcuni ristoratori di piazza Maggiore hanno inventato per consentire anche agli islamici di festeggiare tutti insieme San Petronio – e che sono stati oggetto di lunghissime filippiche circa una supposta lesa identità bolognese. O, potremmo dire ancora, come quei turbanti prodotti in stoffa di tartan, inventati per consentire agli studenti indiani di frequentare i college scozzesi. Una bestemmia? Sicuramente l’alterazione di ben due diverse identità che ne ha prodotto una terza, ibrida, provvisoria, cangiante, ma a suo modo geniale.
Se inteso come pamphlet il libro di Bettini è insomma da salutare con entusiasmo. Va ricordato tuttavia che, come tutti i pamphlet, esso propone argomentazioni tagliate con l’accetta. Mirano al punto, ma omettono parecchie cose. Come dire che, mettendo in luce la faccia oscura dell’identità, trascurano di considerare l’altra, quella, potremmo dire, positiva, o quanto meno comprensibile, condivisibile. Non tutte le identità, o per meglio dire: non tutte le ricerche di una qualche identità vengono per nuocere, né portano a insulti, violenze, stragi o massacri. Se, come ben sappiamo, andiamo tutti alla ricerca di una nostra identità, delle nostre radici, è perché ci frana il terreno sotto i piedi.
Perdute le Grandi Narrazioni, o come vogliamo chiamarle, siamo disperatamente bisognosi di ricostruirne di piccole, minute, momentanee, bricolate, ma comunque tali. Che non per questo sono da rigettare in toto. L’attuale riscoperta dei piccoli borghi, per dirne una, avrà pure – a posteriori – ragioni di marketing immobiliare, ma è, per continuare con l’isotopia religiosa, sacrosanta. Così Bettini prende in giro due aspetti, se vogliamo secondari, ma comunque patenti, della nostra cultura: la cosiddetta tattoo reinassance (considerata come una disperata ostentazione di identità personale) e la riscoperta delle tradizioni enogastronomiche (tacciata di ridicolaggine). Fenomeni diversi, discutibili, ma tuttavia importanti, su cui il dibattito è, e deve restare, aperto. I localismi hanno spesso la coscienza sporca, ma non dimentichiamo che lottano contro la globalizzazione. Senza per questo militare per Casa Pound.