Dibattiti sulla DAD / In rete: è scuola o non lo è?
Quella che si sta facendo in rete, nel bene come nel male, è scuola o non lo è?
Non sembri una domanda oziosa, o troppo elevata, da girare ai retori o agli specialisti. C’è di mezzo, invece, una questione politica di enorme peso, che attiene al futuro di tutti, non solo degli insegnanti e dei giovani, e che coinvolge decisioni da prendere, fin da ora. Decidiamoci dunque a sciogliere l’enigma.
Se non è scuola, e se dunque l’esperienza che si sta attualmente praticando, comunque la si etichetti, ‘didattica a distanza’ o ‘didattica digitale integrata’ o altro, è da inscrivere totalmente nella logica dell’emergenza, come tanti pensano, si lascino perdere altre questioni e ci si dedichi seriamente a trovare soluzioni atte a colmare, un domani, il vuoto prodotto dalla non scuola, vale a dire dall’attuale, provvisoria, parentesi sospensiva della ‘vera scuola’. Fermo restando che, forse, dovremmo chiarirci meglio i confini fra vera e non vera scuola.
Se invece questa di rete, come altri sostengono, anche se in pochi, è comunque scuola, ci si chieda in che senso lo è e si diano risposte che aiutino a prevedere e fronteggiare tutto ciò che avverrà quando, usciti dalla presente anomala condizione, sarà necessario fare i conti con i danni prodotti da un uso spregiudicato della categoria di ‘emergenza della non scuola’.
Non va ignorato che l’attuale non prevista condizione di difficoltà di praticare la didattica di sempre (ma questo vale, fatte le debite differenze, anche per la pedagogia famigliare e quella sociale di sempre, messe in discussione dalla pandemia) viene perlopiù presentata e tuttora subita, malgrado siano passati dieci mesi dal suo emergere, come un qualcosa di imprevedibilmente straordinario. Di conseguenza, la disposizione inconscia e talora pure consapevole a relegare, fatalisticamente, l’avvenimento traumatico della pandemia dentro il novero delle anomalie di fatto (o delle normalità del fato) rischia di fungere da alibi perché non ci si pongano importanti interrogativi, che peraltro già prima incombevano.
Forse si potrebbe fare un passo in avanti nella direzione di una positiva fuoriuscita dal tranello dell’autoassoluzione se si evitasse di ricorrere a polarizzazioni manichee e ci si attrezzasse ad aggiungere qualche specificazione al termine troppo abusato di ‘scuola’. Sembrerà una banalità, ma impegnarsi a sostenere che questa di rete non è ‘la scuola che perlopiù conosciamo e che abbiamo fin qui praticato’ potrebbe far convergere gli uni come gli altri, gli apocalittici e gli integrati della pedagogia spontanea del formare (e del formarsi, soprattutto), sull’esigenza, ben più realistica e cogente, di attivare un confronto serio e pubblico sui punti di forza ma eventualmente anche su quelli di debolezza della ‘scuola che conosciamo’ o ‘che abbiamo fatto fin qui’. Il futuro incombe, il passato non va dimenticato, allo smarrimento del presenta occorre comunque far fronte: questo è il punto.
Siamo una società indebitata, dilaniata, stressata. Per di più, o forse prima ancora di tutto questo, siamo una società sterile, con investimenti minimi sulla natalità. Ecco allora che, inconsciamente, siamo portati a leggere il presente nei termini di una perdita di quello che è stato, e molto meno a interpretarlo nei termini della presenza di quello che potrebbe essere.
Per invertire la rotta o, almeno, lasciare un po’ di spazio mentale (e politico) a una possibile inversione di rotta (a mio avviso necessaria) occorre che ci armiamo di una forte dose di realismo. Qualcosa, inevitabilmente, andrà rotto, nell’attività di una ipotetica ‘ricostruzione’. E certo non ci si potrà illudere, una volta ancora, che la soluzione dei problemi che ci tocca affrontare sia già scritta. Tanto meno dovremo cullarci con l’idea che, tramite il ritorno o il transito alla normalità, tutto sia destinato a riprodursi esattamente come prima ed esattamente nei posti e nelle forme di prima. Riconosciamolo: quello del ‘ne usciremo diversi’ è un refrain sterile che sovente ci ripetiamo, forse per abituarci alla prospettiva che così non sarà, esattamente come ci diciamo, con altrettanta costanza di parola ma forse non di concetto, che dovremo attrezzarci a vivere e gestire l’incertezza, salvo poi smarrirci ad ogni emergere di situazioni non previste. Ecco: essere realisti e non affezionarci al suono incantatorio delle parole significa che ci tocca costruire le condizioni per arrivare a decidere su che cosa puntare (perché necessario, anche se di difficile attuazione), e che cosa, invece, lasciar perdere (perché poco necessario, anche se semplice da attuare).
Ci servirebbe una mappa. Ma dobbiamo essere noi a disegnarla. Come? Impegnandoci, come sostiene Luciano Floridi (Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Raffaello Cortina, 2020), a pensare e pensarci dentro l’infosfera, cioè una realtà che include come sua componente costitutiva i processi di virtualizzazione messi in atto dalla rivoluzione digitale. Proviamo, per comprendere la portata del problema, a chiamare in causa l’economia, e per essere ancora più realisti, la moneta. Come rappresentarci questa realtà e, lì dentro, la nostra collocazione se non come un’infosfera? Basterà riflettere, anche minimamente, sulle pratiche di cui siamo quotidianamente attori, ultimo caso quello del cashback, per renderci conto che la componente tangibile e la componente non tangibile delle nostre transazioni, anche le più minute e immediate, fanno un tutt’uno.
Insomma, l’economia digitale ci mette a contatto e a stare dentro quella che con una formula accattivante (accettata, o forse soltanto tollerata anche dalla cultura scolastica) ci siamo abituati a designare come ‘realtà aumentata’. Intendiamoci però (e per questo non perdiamo di vista l’intreccio di cui siamo tramite, per ogni possibile pagamento, fra ‘contante’, ‘bancomat’, ‘transazione di rete’): non è un digitale che si aggiunge a un reale fisico e tangibile, facendone artificialmente aumentare il volume; è, piuttosto, un digitale che, intrecciandosi con un’ipotetica dimensione fisica, sempre più lontana dall’essere individuata e toccata empiricamente, aumenta lo spessore del reale rendendolo, paradossalmente, più facile e accessibile, ma anche facendolo più complesso.
Ecco allora che l’esercizio di design concettuale che dovremmo metterci nelle condizioni (mentali e operative) di praticare, per quanto riguarda il destino presente della scuola, non è un impegno che potremmo svolgere in un luogo appartato, al riparo della complessità e assieme della praticabilità del mondo. Tutto si tiene, dentro la logica connettiva che costituisce la filosofia di fondo della riscrittura digitale del mondo di cui siamo partecipi: lì il micro e il macro viaggiano assieme. Può dunque capitare che alcune questioni di fondo dell’identità scolastica da rivedere possano essere meglio illustrate e comprese se muoviamo dai comportamenti minuti e accettiamo di sottoporci a qualche scombussolamento mentale. Partendo dalle transazioni ‘spicciole’, forse, si capisce più del mondo, di quanto non si fa col chiamare in causa i grossi avvenimenti finanziari.
Un buon viatico per un simile impegno ci viene da un recente saggio di Pietro Montani: Emozioni dell’intelligenza. Un percorso nel sensorio digitale, Milano, Meltemi, 2020.
Lì è affrontato il tema apparentemente banale e sovente trattato in modo riduttivo, dei comportamenti della ‘scrittura estesa’: sono quelli che, praticati soprattutto con lo smartphone dentro gli spazi interattivi della rete, nei social in particolare ma non solo, anche nella posta digitale per intenderci, danno vita ad aggregazioni libere quanto originali di immagini, suoni e parole. Comunichiamo, interagiamo tra di noi tramite una molteplicità di codici: lo facciamo ormai ‘naturalmente’, senza pensarci, tutt’al più, se apparteniamo all’area dell’intellettualità professionale, con pizzico di ritrosia e distacco.
Riflettendo con meno pregiudizi di quelli consueti su queste condotte di microcomunicazione potremmo invece arrivare a intercettare e comprendere (successivamente, a concettualizzare) uno dei meccanismi portanti della virtualizzazione del reale che ci riguarda: un qualcosa, insomma, che riguarda tutti e dove la semplicità d’uso viaggia assieme alla complessità di interpretazione.
Al di là di ogni banale considerazione di rispondenza ai dettami di un’idea irrigidita e negativamente ‘scolastica’ di proprietà grammaticale, la fenomenologia della ‘scrittura estesa’ pone interrogativi importanti, da indagare seriamente, sui meccanismi collettivi della significazione. Vederci solo un problema locale, di scarso peso cognitivo ed esistenziale, rischia di diventare controproducente, anche in vista dell’impegno, da parte della scuola, di confrontarsi seriamente con le pratiche più diffuse della semiosi collettiva e sugli elementi di filosofia del sapere (e dell’esperienza) che vi sono inclusi. Si tratta, al contrario, di lavorare a intravedere in questi fenomeni diffusi di composizione sintetica e sincretica l’emergere di un cambiamento significativo, ancorché opaco ai nostri occhi attuali, dell’espressione umana mediata tecnologicamente.
A questo proposito Montani invita a parlare di un ‘sensorio digitale’, già ampiamente in atto, in tutti noi. Far notare che il riflesso scolastico di questa idea possa chiamare in causa un’idea meno stereotipata e istituzionale della pedagogia montessoriana, e del suo sviluppo ultimo, centrato su una scuola dell’adolescente da ripensare nella chiave di una impegnativa de-intellettualizzazione, rischierebbe di deviare il ragionamento che sto proponendo qui, ma farne cenno serve comunque a far intendere il senso di un rapporto da ridefinire tra futuro e passato dell’azione educativa.
Un ‘sensorio digitale’, dunque. Cosa intendere con questa espressione? Comunque la si voglia interpretare e concettualizzare è evidente che non potremmo evitare di includere, nel disegno, il dato di fatto costituito dall’attuale uso pervasivo del piccolo schermo portatile: dobbiamo dunque fare i conti con una dinamica universalmente partecipata, non più confinabile a specifiche zone, di revisione non solo fenomenologica ma anche ontologica del senso di realtà. Avrà pure dei tratti infantili, questa dinamica, in quanto centrata e legittimata prima di tutto sui sensi né sarà arduo, anzi risulterà fin troppo facile, porne in evidenza i limiti rispetto a una concezione consapevole e critica (o ‘alfabetizzata’) del sapere, quella riflessa e codificata negli apparati scolastici e in primo luogo accademici. Ma non potremmo evitare di riconoscervi il meccanismo sottostante, di fatto inarrestabile: quello, appunto, che contribuisce, massicciamente, a un’attività di produzione e pattuizione di realtà, e dunque di senso di realtà, senza che mai smetta di fungere da dispositivo di intermediazione e dunque anche di schermatura nel rapporto concreto fra il soggetto e i soggetti che se ne servono.
È dunque realtà e nello stesso tempo intercapedine e riparo della realtà: materialità e possibilità, insomma, esercizio congiunto di concreto e di eventuale. Molto più di quanto non abbiano fatto le tecnologie precedenti il digitale si pone e ci pone costantemente ai confini fra materiale e immateriale, anche ai livelli più elementari del suo/nostro agire. Certamente, nel futuro, scomparirà l’attuale intermediario fisico di tale azione, cioè il telefonino, ma non verrà meno il prodotto ‘antropologico’ che ne sta derivando, coincidente, insomma, con la costituzione di un sensorio che, inevitabilmente, fa da trampolino per l’affermazione di un’idea di intelligenza diversa da quella implicita in tante delle più diffuse rappresentazioni pedagogiche. Scambiamo, tramite le nostre comunicazioni, nei social e non solo, pezzi corposi di realtà e nello stesso tempo maschere, intercapedini, ristori virtuali che ne attenuano e ne ‘spostano’ la componente di shock. L’apparente anonimato della ‘non presenza’ ci consente di muovere più realtà di quanto non potremmo se non disponessimo di questi prolungamenti di noi stessi. E lo facciamo attraverso dinamiche di azione e comprensione non del tutto coincidenti con quelle sulle quali abbiamo fin qui fatto affidamento, con i nostri discorsi ‘accademici’.
Questi percorsi sotterranei di ‘integrazione intersemiotica e intermediale’ (adisciplinari e indisciplinati, più che interdisciplinari) pongono importanti questioni sul versante dell’interpretazione dello sviluppo individuale e su quello dello sviluppo della collettività. Farvi fronte seriamente, e non con slogan, equivale a porsi responsabilmente il problema del ‘cosa fare della scuola’ e a non nasconderselo più dietro a quello empirico del ‘cosa fare a scuola’.
Possiamo regolamentare l’accesso all’uso del cellulare, ma non all’uso (anche inconsapevole) del digitale inscritto nella realtà. Che il sensorio digitale incida sui meccanismi più profondi dell’intelligenza del mondo, per come questo mondo è oggi configurato e attuato, lo si evince riflettendo sul fatto (è ancora Montani a ricordarlo) che i più piccoli, nell’impossessarsi precocemente dello smartphone, e nell’usarlo immediatamente come specchio mobile, acquisiscono, tramite la pratica spontanea del selfie, una percezione diametrale e dinamica dello spazio e quindi di un rapporto costitutivamente mobile tra sfondo e figura: il tutto all’interno di un contesto di socialità condivisa, dove le immagini via via prodotte hanno il potere di circolare e di mescolarsi tra di loro, inspessendo e moltiplicando ancor più le condizioni del percepire e del percepirsi, dunque complessificandole in direzioni sempre più laterali, almeno ora, rispetto alle pratiche d’uso delle categorie classiche dell’alfabetismo (dove vige la netta divisione di soggetto e oggetto).
Non a caso, siamo portati a interpretare questa appropriazione sensomotoria del mondo da parte del bambino nei termini di una condizione provvisoria e destinata presto a terminare di ‘analfabetismo’, ma come ci comportiamo nei confronti dell’analfabetismo di cui noi tutti siamo intermediari, col continuo nostro mescolare immagini, suoni, segni scritti e anche azioni (link) dentro le pratiche più elementari del quotidiano comunicare? Con che strumenti riusciremo a controllare e utilizzare al meglio le figure cognitive che emanano dalla congiunzione di scrittura, immagine, suono, operazione, quelle figure, insomma, che la gestione unilaterale del fenomeno big data tende a presentarci come oggettive e impersonali?
Va da sé che per dar conto, anche in termini scolastici, di questioni così rilevanti occorrerebbe far ricorso a concettualizzazioni dentro le quali le condizioni di esistenza e di sviluppo dell’arte soprattutto, ma anche della scienza e della tecnologia che essa stessa incorpora e aiuta a incorporare, possano figurare non come materie definite e statiche, ma come manifestazioni di un rapporto dinamico e aperto fra contesto socio-storico e comportamento individuale di apprendimento.
Si tratta, insomma, di cominciare a ripensare, anche in chiave filosofica, il rapporto che la scuola del futuro, ma già quella del presente, almeno in parte, devono intrattenere con l’assetto di cultura partecipata che è venuto a maturare lungo il Novecento: alludo, con questo, sia alla messa in discussione dei principi fondanti la sensibilità generale, area su cui si è misurato lo sviluppo delle arti e delle scienze, sia alla conseguente diffusione da parte degli apparati della comunicazione sociale (i media dell’audiovisione, successivamente quelli dell’universo digitale) di nuove categorizzazioni ‘estetiche’. Il cinema, ma prima ancora i fumetti, e, subito dopo, il digitale hanno messo in scena gli effetti di una profonda revisione nell’ordinamento del mondo: colori, suoni, scritte, spazi, tempi, ‘elementi disordinati’ e aggregati in composizioni inusuali, rispetto alle condizioni ‘classiche’ (ottocentesche), sono diventati tratti costitutivi di una pervasiva e non più eliminabile esperienza di vita sia dei nostri bambini sia della parte apparentemente bambina di noi adulti. Lo vogliamo o no.
Questa prospettiva può valere, in ambito scolastico, come orientamento empirico per una elaborazione didattica che non si limiti a sollecitare memoria e ripetizione del passato ma lavori a costituire le condizioni perché in chi apprende e in chi insegna si sviluppino dei processi di continua rielaborazione. Ciò consentirebbe di far maturare un atteggiamento più costruttivo ed emancipativo nei confronti dell’impiego didattico di tutte le tecnologie (corporee, cognitive, materiali), ma varrebbe anche per una prospettiva pedagogica e scolastica più ampia e impegnativa, dunque per dar conto del problema di identità culturale della scuola.
Nell’orizzonte di un simile ripensamento c’è, necessariamente, l’esigenza di sollevare interrogativi attorno a un’idea troppo univoca di alfabetismo e, in particolare, attorno ai legami che essa intrattiene con una filosofia del sapere coincidente con le pratiche della testualizzazione. La scuola non può più accogliere e legittimare, per il suo agire didattico e valutativo, solo quanto corrisponde a testo o che trova nella parola scritta e stampata il criterio esclusivo di giustificazione. Non lo può e non lo deve fare anche per una evidente (e spesso rimossa) ragione storica. Il mondo, il nostro universo di esistenza, quello di noi europei e italiani in particolare, è stato costruito anche e soprattutto con il suono, le immagini, l’arte, l’artigianato, e con una prospettiva di innovazione scientifica fortemente collegata ai regimi della vita quotidiana. Inoltre noi stessi, in quanto europei e pure come italiani, abbiamo fornito un contributo tutt’altro che marginale al costituirsi originario dei mezzi della comunicazione che hanno trasformato il mondo, lungo il Novecento: radio, telefono, cinema, televisione, media digitali. Di tutto questo, nell’attuale enciclopedia scolastica (ma anche accademica) non c’è la minima traccia, niente che aiuti a individuare le origini e le ragioni di questa censura filosofica prima che disciplinare, concettuale prima che politica. E questo è un fatto molto grave.
Siamo, ci vogliamo prigionieri di una rigida e burocratica rappresentazione dell’alfabetismo, che definire ‘ottocentesca’ equivale a idealizzare: del resto, è la stessa che ci ha portato, per ragioni di nobiltà accademica e scolastica, a togliere le immagini, volute da Manzoni, dall’edizione quarantana dei Promessi sposi, o a seppellire i versi sonanti di Dante sotto una caterva di note; né si discosta dalla tendenza a considerare le pertinenze disciplinari (qui la fisica, qui l’arte) come vincoli da non mettere in discussione, se non dopo, quando siano diventate certezze mentali. Quanto potrà reggere una simile condizione non siamo in grado di prevederlo.
Possiamo dar conto della dimensione letteraria, oggi, senza far riferimento (anche concettuale) all’universo del suono, dell’immagine, dell’operatività? E, nel caso ci si convinca di poterlo/doverlo fare, ci si riuscirà operando solo sulla carta e, parallelamente, continuando a considerare l’universo connettivo dei legami di rete come un fattore di distrazione rispetto al compito prioritario ed esclusivo dell’istruzione alfabetizzante?
Concludo riandando alla questione posta all’inizio.
Che rappresentino scuola o no, i mesi di attività didattica condotta in rete stanno certamente rinforzando, a partire dalle pratiche ufficiali e no dei giovani, la legittimità dei meccanismi di una semiosi allargata. Non si potrà non tener conto dei segni che questa esperienza collettiva lascerà sul campo. Sarà dunque opportuno che ci si impegni già ora a dividerci dialetticamente tra chi è disposto a interpretarli come indizi di una carenza epistemologica della ‘scuola che conosciamo’ e chi è orientato a interpretarli come manifestazioni di un analfabetismo indotto contro cui armare più convintamente ‘la scuola che abbiamo fatto fin qui’.
Io, immagino lo si sia capito, sto con i primi.