Speciale
Verso Paradiso / La gloria di Colui che tutto move
L’attacco di Dante nella sua terza cantica è gerarchico fin dal primo verso, e non potrebbe esserci esordio meno congeniale alla mentalità degli odierni lettori del Paradiso. Il medioevo è dominato dalla nozione di gerarchia, in senso teologico e angelologico, ontologico e cosmologico, assiologico e morale, fino all’ordinamento sociale che della gerarchia celeste dovrebbe essere lo specchio, partendo dalle due massime autorità cristiane che ne costituiscono il vertice in terra, la Chiesa e l’Impero. Il problema per noi è che il nostro mondo si è formato insorgendo contro questa gerarchizzazione della realtà, ricondotta a ragioni oppressive che la modernità si è fatta un dovere di demistificare e distruggere in nome di un’orizzontalità liberatoria, di un immanentismo in cui non esiste nulla di sovraordinato all’umano. Sulla base di queste premesse, il Paradiso dantesco sembra fatto apposta per suscitare i fraintendimenti del pubblico di oltre sette secoli dopo.
Certo, noi sappiamo che la mentalità medievale è gerarchica, e siamo pronti a ricondurre questo dato storico agli aspetti estetici della terza cantica, che possiamo ammirare già nell’incipit, col suo vivido luminismo che scende dall’alto come in una cattedrale gotica (citiamo da Dante Alighieri, La commedìa, a cura di A. Lanza, De Rubeis, Anzio 1996):
La gloria di Colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più della sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende:
perché appressando sé al suo Disire,
nostro intelletto si profonda tanto
che dietro la memoria non può ire.
Tutto torna nelle nostre sistemazioni manualistiche, dal Dio Motore Immobile aristotelico che muove non mosso e che debitamente si cristianizza grazie all’onnipresente tomismo, per arrivare alla distinzione qualitativa tra le varie parti dell’universo, che si lasciano permeare dalla luce superiore, superna, a seconda della maggiore o minore partecipazione alla realtà materiale che si interpone come filtro tra loro e lo splendore divino, con le ricadute morali e retributive che questo comporta. Ogni cosa sembra andare al suo posto, a condizione che gli elementi di questa ricostruzione convenzionale appaiano statici, fermi, quando al contrario nell’universo di Dante ogni elemento si muove e nulla sta immobile, a partire dalla «gloria di Colui che tutto move». In realtà, è impossibile intendere codesta gloria se non ci mettiamo anche noi in movimento e non assecondiamo il movimento di «Colui che tutto move», che non è il Motore Immobile di Aristotele in quanto non si limita ad essere trascendente ma è piuttosto sovra-trascendente, cioè dotato del potere eccedente e non calcolabile di trascendere la sua stessa trascendenza e di scendere tra le proprie creature mettendosi e mettendole in movimento. Altrimenti come potrebbe penetrare e risplendere nella sua gloria in mezzo alle sue creature? È vero che Dante sembra parlarci dell’antica metafora biblica di Dio come monarca che si fa glorificare dai suoi cortigiani, ma anche qui la metafora originaria va spogliata di ogni rapporto di adulazione o di servilismo. Non è questo il Dio la cui gloria «penetra e risplende».
Osserviamo la perspicuità dei verbi simmetrici e complementari usati da Dante. La gloria divina «penetra» non perché scenda con la forza, con la degnazione del Signore che accetta di scendere tra i suoi sudditi e in primis tra i suoi cortigiani. Il Dio di Dante penetra e raggiunge tutte le sue creature perché ne conosce il segreto e lo sollecita e accende con la sua luce, una luce che non ha nulla di inconcepibile, perché altro non è che l’Amore. A questo punto la Gloria, che manifesta il suo potere di entrare nell’intimo di ogni sua creatura in quanto è l’unica gloria dell’Amore, «risplende», cioè appare nel suo pieno fulgore e per un’unica ragione, perché il suo splendore si riflette nelle sue creature e suscita la loro risposta. L’atto di ri-splendere è uno splendore raddoppiato nella risposta che fa scaturire, e sono le creature in cui la gloria di Dio è penetrata a raddoppiare questo splendore, che quindi implica la piena partecipazione delle creature alla gloria del Creatore attraverso l’amore che lega entrambi e che è questa medesima Gloria. Ogni immagine superficialmente monarchica crolla. Ma, allora, che ne è della gerarchia da cui eravamo partiti?
Chiediamoci perché Dante ci tiene a precisare di non poter ripetere le «cose» da lui “viste”. Il cielo in cui è stato non è un cielo fisico, poiché si smaterializza in una Luce che è manifestazione diretta della Trascendenza. Siamo al di là della materia, dello spazio e del tempo. Il viaggio di Dante è un’esperienza mistica, e come tale ha trasceso i vincoli materiali e spazio-temporali della nostra vita terrena. Non è quindi questione di passare da un luogo all’altro, bensì da una dimensione all’altra, o meglio da una situazione trascendente ogni dimensione alla nostra situazione dimensionale, nella quale soltanto il racconto del Paradiso può svolgersi. Tuttavia, le considerazioni metafisiche non bastano a comprendere le «cose» che Dante non sa «ridire». Egli non è in grado di farlo non solo perché sta parlando di un’esperienza che eccede ogni dimensione linguistica ed enunciativa, ma perché ha partecipato del regno medesimo dell’eccedenza, della sovra-trascendenza che trascende se stessa e “scende” da se stessa effondendosi per ogni dove, rendendo possibile “ogni dove”. Le «cose» sono un indizio di molteplicità, che fa pensare alla molteplicità infinita delle creature, ma questa molteplicità va considerata dal punto di vista del loro Creatore, nella sua costituzione originaria e originante che non sarebbe capace di questa molteplicità illimitata se non ne albergasse in sé il principio generatore, l’articolazione una e molteplice corrispondente alla Trinità cristiana su cui si chiuderà la cantica e l’intera Commedia.
L’aspetto esperienziale e ontologicamente sorgivo di ciò di cui Dante ci parla corrisponde alla sovra-trascendenza dell’Amore. La precisazione sul non saper né poter ridire le cose esperite durante il viaggio ultraterreno sta a significare che Dante non è in grado di dire a parole l’Amore, perché l’Amore o lo si prova o altrimenti non risulta dicibile, per la letterale ragione che non c’è nulla da dire. Capiamo che “discendere” non significa scendere da un mitico luogo denominato Empireo, bensì non riuscire a “scendere” nel modo giusto, non riuscire a “tra-scendere”, venendo meno di conseguenza alla realtà dell’esperienza d’amore, alla piena realtà dell’Amore. Basta quindi mettersi nella giusta posizione esistenziale di chi prova l’amore per «ridire», ossia per ripetere nello spazio simbolico e comunicativo della narrazione ciò che altrimenti sarebbe impossibile dire, e che nondimeno c’è già tutt’intero nella situazione amorosa in cui il dire sgorga spontaneamente da ciò che si prova, dalla condizione affettiva e ontologica in cui ci si colloca. Il dire si dice di nuovo perché c’è da sempre, perché c’è fin dal principio, dato che in principio era il Verbo, il Logos. Solo a questa condizione il Verbo divino si manifesta e passa dall’ineffabile all’effabile, attuando quella Mediazione perpetua d’Amore che è il segreto medesimo della Trinità.
Possiamo peraltro toccare i misteri della Trinità se non ci accontentiamo di ciò che noi comunemente intendiamo per amore. Se ci limitiamo a una lettura di tipo affettivo, pur necessaria per affrontare il massimo teorizzatore dell’Amor Cortese, ci troviamo a stringere un pugno, più che di foglie secche, di gusci vuoti, senza aver fatto in tempo a cibarci del loro contenuto, del loro gheriglio. L’indicazione su quale possa essere questo “gheriglio” ci viene data in aenigmate, giacché Dante si rifiuta di servire la verità già pronta, prima che diventi parte integrante della nostra esperienza.
Egli sa che nella nostra esperienza ci sono i semi della verità, ma sa che per raggiungerli dobbiamo romperne il guscio, metafora che esprime un’azione traumatica, una soluzione di continuità, un movimento di sottrazione. La risposta ci viene nascostamente data sotto le sembianze classiche dell’invocazione al «buono Appollo». Citazione colta conforme al registro elevato della terza cantica, anche se esposta alla trappola dell’autoreferenzialità letteraria, evocata dall’idea di ispirazione poetica.
Dei riferimenti danteschi al paganesimo non è importante però il senso letterale, bensì il suo movimento generatore, che in questo caso riguarda il passaggio da un’ispirazione ancora basata su convenzioni usitate, su generi riconoscibili, a un’ispirazione che non ha più esempio perché “direttamente” divina. Bisognerebbe compiere un salto dalla normale trascendenza divina, che simbolicamente c’era già nelle Muse, a una trascendenza ulteriore, a una sovra-trascendenza che non si può limitare all’aspetto effusivo, affettivo, perché nella realtà sublunare, dove il «meno» prevale sul «più», il sentimento non basta. Ma come arrivare, ontologicamente e storicamente, alla sovra-trascendenza? L’invocazione apollinea ce lo spiega:
Entra nel petto mio, e spira tùe
sì come quando Marsïa traesti
della vagina delle membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto, che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
venir vedrâmi al tuo diletto legno
e coronarmi allor di quelle foglie
che la materia e tu me n’ fara’ degno! (19-27)
Viene menzionato il mito più crudo riguardante Apollo, quello del satiro Marsia che sfida il dio in una gara poetico-musicale e che, dopo esserne stato sconfitto, ne viene sadicamente scorticato. È vero che Dante, a differenza delle sue fonti, non si compiace di particolari orrorosi e che l’intervento del dio sembra avvenire d’un colpo, con l’elegante «traesti» che fa uscire Marsia come un frutto maturo dalla «vagina delle membra sue». Eppure, l’eleganza del procedimento finisce per sottolinearne il significato, che dobbiamo prendere estremamente sul serio nel suo contenuto.
La nostra consapevolezza storico-religiosa ci dice che l’episodio, nella sua crudeltà assolutamente inspiegata, deve trarre la sua origine da riti di tipo sacrificale, divenuti così tradizionali da non essere più comprensibili, per cui il mito della gara con Apollo ne è divenuto la spiegazione eziologica. A suo tempo Frazer ha documentato che la storia di Marsia è la traccia di sacrifici umani realmente compiuti appendendone le vittime a un albero dove venivano scuoiate o fatte a pezzi. Dietro questo misterioso supplizio possiamo recuperare una fase originaria in cui Apollo e Marsia erano una stessa figura, dapprima sacrificata e poi venerata come divinità, mentre l’elemento poetico-musicale corrisponde all’accompagnamento del rito, poi trasformato in motivo eziologico. Apollo non può rispondere a Marsia per la secca ragione che è lo stesso Marsia visto sub specie divina. Ma che rapporti possono avere queste analisi moderne con Dante?
Nella protasi del Paradiso il mito di Apollo e Marsia viene utilizzato in senso allegorico, secondo l’habitus medievale di utilizzare ciò che si sapeva della mitologia classica per indicare delle verità riconoscibili al pubblico. Tuttavia, il genio dantesco impiega questi materiali costruttivi di provenienza pagana interrogandosi sulla loro ragione di partenza e sulle loro caratteristiche interne, con un metodo definibile come storico, anche se non in senso nostro. La storia è per Dante l’esplicarsi di una serie di potenze, che scaturiscono dall’unica potenza di Dio per declinarla in un senso o nell’altro a seconda delle scelte compiute, il che apre lo spazio a una storia interamente umana dato che l’uomo è il soggetto per eccellenza dotato di tale potere di scelta. Ciò nulla toglie alle potenze divine o demoniache, ma conferisce loro un centro di azione e di significato, con l’importantissima fase intermedia antica in cui le forze divine e demoniache appaiono agli uomini ancora mescolate assieme, in attesa di essere definitivamente distinte grazie alla rivelazione. Siamo quindi agli inizi di quel processo di storicizzazione che proseguirà nel proto-umanesimo di Boccaccio e Petrarca e darà vita al movimento umanistico.
Il contesto ci dice che la dura metafora mitica serve a designare la rigenerazione paradisiaca del Dante-personaggio rappresentativo dell’intera umanità, senza che questo però cancelli il movimento di sottrazione sacrificale che ne ha reso possibile lo slancio ascensionale. Dante allude alla dura storia che l’umanità ha dovuto attraversare per giungere alla rivelazione di Cristo, senonché tale storia include anche quella più individuale del Dante uomo, visti i riferimenti professionali alla poesia che lo investono in quanto autore. È quindi Dante in persona che si sta assimilando a Marsia, l’audace cantore che osò sfidare il dio e ne venne esemplarmente punito, e la punizione per Dante consiste nell’esser costretto a fuoriuscir da se stesso, nell’andar fuori da tutto ciò che di terreno l’aveva fino a quel momento protetto, a cominciare dal suo enorme talento, ma che ora, davanti all’improba impresa di «ridire» l’indicibile, si dimostra inadeguato. È Dante che accetta di farsi scorticare vivo da Apollo, e viene spontaneo pensare all’ennesima metafora poetica, un tantino dura, certo, ma non siamo nel medioevo, epoca di tinte forti e di forti passioni, e chi più forte e passionale del nostro sommo Poeta?
Per andare avanti dobbiamo liberarci di queste banalità. Siamo all’inizio di una cantica dedicata al «beato regno», che è il regno di Dio dei Vangeli, il beato regno da cui viene Beatrice, il regno apportatore di beatitudine di Gesù Cristo. Non può dunque trattarsi di una semplice metafora poetico-letteraria, ma di una metafora racchiudente in sé le significazioni storico-religiose che sta a noi comprendere e dipanare. Stranamente dominante appare l’immagine del «tuo diletto legno», che si riferisce all’albero sacro ad Apollo, l’alloro, non senza risonanze con l’albero a cui viene appeso Marsia, e se questo alloro apollineo si limitasse ad avere il significato più ovvio, suonerebbe di una povertà desolante, di una prevedibilità sconcertante all’inizio di una cantica dove si dichiara ripetutamente che non c’è parola umana che possa bastare. In realtà, è dal simbolo stesso della gloria poetica che Dante vuol essere dolorosamente liberato. Egli non è venuto a fare il “poeta laureato”, precisamente perché la gloria poetica l’ha desiderata come nessun altro, a fronte di un destino di amarezze, di incomprensioni, di esilio.
Dante è pronto a farsi scorticare vivo in tutte le sue (legittime) pretese, in tutto il suo (non illegittimo) orgoglio. Ma chi è quel celeste campione capace di costringerlo a tanto? Uno solo: Gesù, il cui diletto legno – anticipato dall’albero a cui fu appeso Marsia – altro non è che la Croce; Gesù che Dante fa chiamare più avanti a san Tommaso il «nostro Diletto» (XIII, 111), e che più oltre viene descritto come volontariamente lasciatosi inchiodare al «legno» (XIX, 105). È la Croce l’albero che renderà l’autore degno di scrivere la terza cantica e solo la Croce lo renderà degno dell’argomento trattato e di colui che ne costituisce l’unico centro. Questi e non altri sono gli allori a cui aspira il cristiano Dante, gli allori che fioriscono sulla Croce, e che sono spuntati sulla sua personale croce, messa a frutto e trascesa nella gloria non semplicemente poetica bensì sovra-trascendente della terza cantica. L’unico Parnaso di Dante è il Calvario. Inutile leggerlo se non abbiamo un nostro personale calvario da invocare per esprimere la sovra-trascendenza dell’Amore, la sovra-poesia della trascendenza incarnata d’Amore.
È a questo punto che si innesca il simbolismo igneo e luminoso che dominerà tutta la cantica. Basta una scintilla ad accenderlo: «Poca favilla gran fiamma seconda» (34), ed è l’intero universo ad accendersi non appena la Croce vi si inserisce come incrocio di unione, come sottrazione di Dio che rende l’esistenza del Creato possibile:
Surge ai mortali da diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella. (37-42)
Il riferimento astronomico all’equinozio di primavera è scientifico e, appunto per questo, intriso di simbolismo teologico: i quattro cerchi dello zodiaco, dell’equatore, del coluro equinoziale e dell’orizzonte, congiunti insieme nell’equinozio di primavera in cui si collocava tradizionalmente il concepimento di Cristo, producono tre croci che sono la riproduzione astrale delle tre croci del Golgota, e tale incrocio naturale e miracoloso produce una meravigliosa astrologia cruciforme in cui sono il dolore e la sconfitta a mettere in moto la macchina dell’universo e a imprimerle «miglior corso» e «migliore stella», trasmettendo finalmente alla «mondana cera» la propria forma, il proprio suggello, che propriamente parlando non è una forma, non è un sigillo, quanto la possibilità e volontà di ricevere in sé ogni forma e ogni sigillo. Ad essere come duttile cera è la misericordia di Dio che si adatta ad ogni situazione, ad ogni evenienza delle sue creature per ricongiungerle a sé. Attraverso la croce, attraverso le croci, il congiungimento di Dio con la creazione è reale e completo, ma non ha nulla di esteriore e di celebrativo, poiché è visibile solo a chi vi partecipa, a chi lo prova.
Questa è «la gloria di Colui che tutto move», una gloria che «penetra e risplende» perché prima entra con dolore nelle nostre vite e poi le riscatta in una luce sovra-trascendente, la sola che ci faccia ascendere lungo le sfere trasparenti e luminose del Paradiso di Dante.
Leggi anche:
Marco Martinelli, Verso Paradiso
Gianni Vacchelli, Dante: dal ghiaccio infernale al «caldo amore»
Marco Martinelli, Campi e canti: coltivare la terra e la poesia
Marco Martinelli, Una notte di Paradiso
Federico Tiezzi. Fabrizio Sinisi, Dante a Teatro: un dialogo
Marco Martinelli, E dopo il Paradiso cosa c'è?
Marco Martinelli, Il furto delle ossa di Dante
Irina Wolf, Sulle orme di Dante da Ravenna a Timisoara
Marco Martinelli, Dovete morire!
Marco Martinelli | Cordula, dantista femminista