Elena Ferrante / L’amica geniale stasera in TV

27 Novembre 2018

Finalmente stasera su RAI1 verranno trasmesse le prime due puntate della serie TV di L’amica geniale, fiction tratta dall’omonima tetralogia di cui Elena Ferrante è autrice. Dopo la proiezione in anteprima all’ultima Biennale del Cinema di Venezia e, a inizio ottobre, le tre giornate di proiezione nei cinema italiani, finalmente la genialità possiamo guardarla attraverso i volti delle due bambine prescelte a incarnare quello che fino ad adesso è stato invisibile. 

Invisibile è tuttora Elena Ferrante, così come irresistibile è stata l’ossessione collettiva di svelarne l’identità, e ora con la fiction la seduzione di questa inafferrabilità è sotto gli occhi di tutti e coincide anche visivamente con tutte le antinomie di una Napoli femminea, in qualche modo latente e collaterale ma sfacciata e portatrice di un’essenza refrattaria a rivelarsi, nonostante oggi più che mai la città sia al centro di un’ondata di film, romanzi, serie TV. 

 

È una seduzione tutta ferrantiana quella che stasera acquista visibilità attraverso le prime due puntate di una fiction, dell’ambientazione della quale sappiamo solo accidentalmente che si tratta di Napoli. Per stasera niente mare, niente Castel dell’Ovo, niente Cristo velato. Questa seduzione che ha agito su lettrici e lettori di tutto il mondo è ora una messa in scena dichiarata, assolutamente conscia che il segreto di un luogo come di un’identità sta nel non avere anatomia, né psicologia e che ogni cosa che se ne possa dire è reversibile. Il rione che vedremo stasera può essere dislocato ovunque, le due bambine potrebbero essere chiunque in un contesto che però è esistito prima e perciò illustra, attraverso le immagini di un agglomerato urbano circondato dal nulla, il suo carattere primigenio. Il rione ricostruito nella fiction di L’amica geniale è riconducibile all’apparizione di un prima universale in cui forze naturali e soprannaturali sfuggono al controllo umano: l’ira su tutte. La vera posta in gioco di questa chimerica identità tanto cittadina quanto femminile è la padronanza della strategia delle apparenze contro la violenza della realtà, o contro il potere che alla realtà noi tutti attribuiamo per default.  

 

Il fatto nuovo è quello di un’autorialità che, per la prima volta nel caso di Elena Ferrante, in occasione di questa attesissima fiction, si estende fino alla partecipazione alla sceneggiatura di un’opera cinematografica. Vi si accenna entro alcune interviste rilasciate dall’autrice stessa e dagli altri coautori: pare che la collaborazione si sia svolta attraverso le immancabili email con le quali l’invisibile scrittrice dialoga da sempre e che le numerosissime missive costituiscano un materiale che potrebbe essere messo un giorno al vaglio per la pubblicazione. 

Nel frattempo, con la prima stagione della fiction, abbiamo l’opportunità di cogliere come la rielaborazione attraverso un altro medium, operata dall’autorialità della scrittrice stessa, possa agire su alcuni aspetti contenutistici e stilistici della sua opera letteraria in qualche modo sia compendiando che ampliandone il campo con l’annessione di un fattore seduttivo non da poco: la parziale visibilità dell’invisibile. Con l’accortezza però, di lasciare perdere le interpretazioni di tipo ortodosso che quando si tratta di seduzione, come scriveva Jean Baudrillard, tendono a non considerare l’importanza delle apparenze e il potere conoscitivo della loro intrinseca devianza. Non per niente in latino sedŭcere è composto da se «a parte, via» e ducĕre, «condurre», perciò, come nel caso di L’amica geniale, quello che la seduzione innesca attraverso le apparenze è una deviazione, che potrebbe essere diversamente capace di condurci verso ciò che non sappiamo. 

 


Come ho avuto modo di osservare nel mio ebook sulla scrittrice “il ciclo di L’amica geniale ha come voce narrante una donna che si chiama come la misteriosa autrice che col suo libro d’esordio L’amore molesto si era imposta all’attenzione del pubblico, non solo per via dei contenuti del libro ma anche per la scelta radicale del più assoluto riserbo rispetto alla sua identità”. Nella fiction l’inserimento della voce narrante (di Alba Rohrwacher) di Elena adulta, accompagna lo spettatore per mezzo dell’oralità, cioè la narrazione più antica che esiste, entro lo schiudersi non di una pretesa memoria di verità ma dell’immaginario di un passato che appare come un riverbero di un vissuto anteriore. Un vissuto di cui molti di noi sono ormai a conoscenza solo attraverso il ricordo altrui. È questo riverbero che conduce lo spettatore là dove i quattro libri di L’amica geniale hanno condotto lettrici e lettori con qualche anticipo, ossia entro l’ampiezza insospettabile del rapporto minuscolo che due bambine italiane degli anni Cinquanta intavolano inizialmente entro i loro giochi. 

 

Una delle scene decisive di tutta la tetralogia è infatti rappresentata stasera: Lila, in modo apparentemente incongruo, durante il gioco, getta la bambola di Elena nello scantinato del caseggiato in cui abitano entrambe ma poi incomprensibilmente convince Elena ad andare a reclamare le loro bambole presso don Achille che è il capostipite di tutti gli affari malavitosi del rione: “Con questa metafora espressa dal destino di una bambola che viene gettata in un abisso, cioè l’inferno dello scantinato, l’autrice in L’amica geniale ci esorta a credere che quell’identità possa forse essere misteriosamente recuperata non tanto pescando nel fondo oscuro di una cantina ma in cima all’ultimo gradino, nell’appartamento più alto del caseggiato, dove abita don Achille che è il diavolo in persona, in quanto è il più cattivo del rione”. Tanto nel primo volume de L’amica geniale quanto nella fiction, leggiamo, udiamo, vediamo l’autrice illustrare una condizione che è un vero e proprio aut aut, se guardata dall’ottica del destino che attende tutti i bambini di questa storia, immersi come sono nella miseria e nella violenza dell’immediato dopo guerra e con ciò apparentemente costretti entro un sistema binario: chi studia si salva, chi non studia no. Tuttavia nel caso di Elena Ferrante il protagonista indiscusso di questa semplificazione è il femminile, perciò il discorso è deviato su una specie di piano cartesiano alternativo in cui fisica e metafisica convivono più che altrove e dicono, con identiche parole sia nel romanzo che nella fiction, una presa di coscienza di genere spaventosa e fondamentale che riguarda le due bambine protagoniste: “In alto, in basso, ci pareva di andare incontro a qualcosa di terribile che, pur essendo da prima di noi, era noi e sempre noi che aspettava”.

 

È con i colori onirici, contrapposti al ritratto iperreale di una violenza inaudita, che le prime due puntate della fiction diretta da Saverio Costanzo entrano visivamente in quel piano cartesiano che nell’opera di Ferrante suggerisce trascendenza. Perché la trascendenza, essendo un fattore esistente ma non direttamente visibile, può costituire un vettore che tende alla definizione di realtà diversamente connotate: “Dissolto il velo di Maya, l’ordine delle cose visibile e invisibili, per le amiche geniali non è mai né assoluto né definitivo. Ad esempio: è azzardo o intuizione la capacità che Lila e Lenuccia hanno di collegare cose molto distanti tra loro in accostamenti davvero inediti? Elena lo sa fare scrivendo. Lila lo fa vivendo. Azzardo o intuizione? Il dubbio resta ma il risultato non cambia perché è proprio questa dubbia capacità che, in tempi diversi, le farà cadere entrambe dai pensieri di Nino Sarratore. Un po’ come si cade dalla mente degli dei: forse per non esistere mai più. O magari per imparare ad esistere diversamente. Il tema della trascendenza nei romanzi napoletani ci appare alla stregua di una partita giocata dall’autrice su più tavoli contemporaneamente”.

 

 

L’opera di Elena Ferrante non è nuova a trasposizioni e rielaborazioni attraverso altri media. Da L’amore molesto Mario Martone trasse nel 1995 un film indimenticabile, la cui protagonista, Anna Bonaiuto, è la voce italiana degli audiolibri della stessa Ferrante. Nel 2005, Roberto Faenza trasse un film da I giorni dell’abbandono, che pur non essendo altrettanto convincente, ebbe il merito di segnare un punto di contatto tra l’aspetto trascendente dell’opera di Ferrante e il dato realistico di come la radice della violenza su bambine e bambini possa affondare nella famiglia attraverso i suoi vuoti di senso, i suoi accidenti e le sue sventure. Inoltre quel film mise a suo modo visivamente in luce una tipicità, a mio avviso, di tutta l’opera di Elena Ferrante: l’isolamento psicologico di tipo sociale, culturale o di genere dovuto a circostanze che appartengono all’esperienza manifesta o latente di ciascuno, aspetto che l’opera di Ferrante affiora quasi a ogni rigo.

 

Sempre sulla scia delle trasposizioni mediatiche dei libri di Ferrante operata al di fuori dell’autorialità dell’autrice, è abbastanza recente la notizia che l’attrice e produttrice americana Maggie Gyllenhaal si occuperà della trasposizione cinematografica del romanzo di Elena Ferrante più denso e complesso dal punto di vista della trascendenza: La figlia oscura. In uno degli articoli che ogni sabato pubblica su The Guardian, Ferrante a questo proposito, il 6 ottobre scorso scrive una considerazione che ci potrebbe essere utile per cogliere tutte quelle possibili implicazioni emerse dall’esplorazione di un passaggio che da un’ambientazione letteraria conduce alla fiction. Ferrante infatti segnala una differenza che è, nel suo caso, la madre di tutte le differenze. Quando accade, come nel caso di Gyllenhaal, che un’altra donna voglia trasporre il contenuto di un suo libro attraverso il linguaggio cinematografico, scrive Ferrante: “Non direi nulla, anche se ha sistematicamente tradito il mio testo, anche se voleva usarlo semplicemente come trampolino di lancio per il suo stesso impulso creativo”, perché “Siamo state dentro la gabbia maschile per troppo tempo – e ora che quella gabbia sta collassando, una donna artista deve essere assolutamente autonoma.

 

La sua ricerca non dovrebbe incontrare ostacoli, soprattutto quando è ispirata dal lavoro, dal pensiero, di altre donne”. Diversamente, Ferrante dichiara nello stesso contesto, a un uomo chiederebbe di attenersi a quello che l’autrice afferma essere la gabbia delle sue storie. Una gabbia che, data la direzione dell’articolo di Ferrante, tutto lascia supporre oltre che tematica, sia la gabbia di un genere femminile nel cui stringente ambito certe storie si sono plasmate e in certo qual modo espanse per implosione. Una gabbia tanto tradizionalmente condizionante quanto estremamente connotata, da non ammettere deviazioni se non congegnate da una donna, nata e vissuta, come tutte, entro lo stringente perimetro concesso al suo genere e sviluppando con ciò orizzonti creativi diversi da quelli maschili.

La realizzazione della serie televisiva di cui Costanzo è regista vede tra gli autori della sceneggiatura, oltre a Elena Ferrante, Francesco Piccolo, Laura Paolucci e lo stesso Costanzo. La prima serie di otto episodi che sarà trasmessa a partire da stasera, riguarda solo il primo libro dei quattro di L’amica geniale e, rispetto a quanto ne sappiamo ad oggi, costituirebbe la prima delle quattro stagioni previste, ognuna dedicata in otto episodi a ciascuno dei quattro libri della saga. Per realizzare la fiction si è parlato di una troupe tecnica composta da centocinquanta persone che ha ricreato a Caserta il rione descritto in L’amica geniale e individuato da più parti come il rione Luzzatti, sulla base di una serie di indizi che ricondurrebbero a di un preciso quartiere di Napoli del passato. Si è trattato di creare dal nulla ventimila metri quadrati di set con quattordici palazzine, cinque interni, una chiesa e un tunnel. Circa millecinquecento i costumi usati tra originali e di repertorio. 

 

 

Per scegliere le protagoniste Saverio Costanzo ha fatto provini a oltre ottomila bambini e cinquecento adulti. In merito alla scelta delle due bambine protagoniste dei primi episodi, Ludovica Nasti che interpreta Lila e Elisa Del Genio che interpreta Elena, Elena Ferrante dichiarerà in un’intervista rilasciata al Venerdì di Repubblica del 12 ottobre: “La piccola Lila di Costanzo, per esempio, mi sembra perfetta e la piccola Elena ha momenti che fondano con efficacia la donna che diventerà”. La donna che la piccola Elena Greco diventerà sarà chiamata più spesso Elena che Lenuccia, avrà una carriera da scrittrice e una vita fuori dal rione nella quale la sua educazione superiore conterà più di qualsiasi altra cosa, all’interno di un ascensore sociale la cui attivazione però dipende anche dall’accresciuto grado di consapevolezza che Elena acquisisce grazie alle teorie e alle pratiche femministe con le quali viene in contatto a partire dai tardi anni Settanta.

Tuttavia ciò che rimarrà indelebile dei due episodi che vedrete stasera non è il kolossal giustificato dalle cifre della produzione ma lo spavento verissimo di fronte alla violenza degli adulti, descritto dai volti di due bambine immerse nella rappresentazione volutamente inautentica di un’epoca meravigliosa e terribile che abbiamo rimosso. Una rappresentazione in grado di ripescare dall’immaginario collettivo ogni sorta di virulenza e di vitalità con l’efficacia che solo la seduzione visibile di certe apparenze può suggerire. Una seduzione come quella di cui è capace quel certo amico che nel Faust di Goethe, citato da Ferrante come esergo di L’amica geniale, sarà pure inaffidabile, ma è di certo capace di tenerci sul filo di una ricerca identitaria inesausta.      

 

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