Longanesi editore a sessant’anni dalla morte / Libri giallo paglierino con la carta di Vittorini

27 Settembre 2017

«Purtroppo arriva in ritardo per piazzale Loreto». Devono essere state queste le parole che Leo Longanesi rimestava fra le sue labbra guardando dal finestrino del treno il lento avvicinarsi della stazione centrale di Milano. In quella giornata di fine 1945, sulle banchine si assiepavano frotte di profughi che finalmente potevano tornare alle loro case e partigiani col fucile in spalla.

«Purtroppo arriva in ritardo per piazzale Loreto»: la frase si riferiva a lui, ed era comparsa quella mattina stessa su “L’Italia Libera” in un articolo che annunciava il suo arrivo. Tra la folla riconobbe l’amico e allievo Indro Montanelli, che era andato a prenderlo, e prima ancora di scendere dal treno stimò prudente affacciarsi al finestrino e chiedergli, indicando un gruppetto di uomini col fazzoletto rosso al collo: «Aspettano me?».

 

Longanesi con Italo Balbo e Paolo Balbo.


Longanesi era stato infatti un fascista della prima ora, sebbene riconoscesse come tra le camicie nere si raccogliessero «gli iscritti senza troppi preconcetti: ecco i facinorosi, i violenti, gli spossati, gli ammazzasette, ecco quei vaghi fanatici che s’agitano senza sapere il perché, più per un naturale bisogno di esaltarsi e di inveire che d’altro». Nostalgico dei valori risorgimentali e lontano dalla modernità, sperava sbagliando – testimonia Montanelli – che il fascismo «restaurasse l’Italia di strapaese» con le sue tradizioni rurali e l’avversione al cosmopolitismo. Fu direttore di “L’Italiano”, foglio della rivoluzione fascista, e realizzò il settimanale “Omnibus”, modernissimo rotocalco per contenuti e immagini, modello di riferimento per i periodici della prima repubblica. “Omnibus”, che suscitò sempre l’attenzione del regime con continue censure e minacce di chiusura, tentava di destabilizzare la retorica imperante: Longanesi dissacrava sì il fascismo, ma non ne fuoriusciva. A ogni modo, l’esperimento durò appena ventiquattro mesi, e il periodico fu chiuso col pretesto di aver oltraggiato Giacomo Leopardi svelandone (la penna era quella di Alberto Savinio) i peccati di gola, ghiotto com’era di «gelati, sorbetti, mantecati, spumoni, cassate e cremolati», tanto da morire di una «colite che i napoletani chiamano “a cacarella”».

 

Milano 1945, si diceva. È lì che Longanesi decide di concentrare tutti i suoi sforzi su «l’editoria perché di questi tempi ho capito che è meglio non fare nulla che si leghi alla politica». È quella una città che, lasciatosi alle spalle l’impatto iniziale, lo accoglie. Noterà infatti come, a differenza di città smaliziate, quali Roma e Napoli, che sono anche «quelle in cui la gente non si lava, le fogne s’intasano e tutti rubano. Milano ti viene incontro, ti fa fido, ti apre il conto in banca. In compenso, ti chiede soltanto di ammirare Toscanini, di credere all’articolo di fondo di Mario Borsa, di rispondere alle lettere e di essere puntuale agli appuntamenti». Longanesi forse non credeva davvero in queste parole, ma sistemò gli uffici in via Borghetto, nella stessa strada dove risiedeva l’imprenditore Giovanni Monti (padre dello scrittore e giornalista Mario, direttore della casa editrice dal 1956 al 1979) che decise di finanziare l’impresa.

Prima che a Longanesi, i Monti si rivolsero a Elio Vittorini. Con lui stesero un primo programma editoriale, che prevedeva tra gli altri la traduzione di quella cronaca della Rivoluzione russa nota come I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed (poi effettivamente pubblicata). Ma divergenze di vedute tra le idee progressiste di Vittorini e le più moderate di Giovanni Monti fecero saltare il banco. Il passaggio dello scrittore siracusano segnò certamente l’aspetto estetico dei futuri libri di Longanesi, perché approfittando di una offerta vantaggiosa acquistò un gran quantitativo di carta color paglierino, facendone così scorta in quel periodo di carenza generalizzata.

Ma, cosa più importante, fu Vittorini stesso a indicare in Longanesi il suo possibile sostituto. E all’intesa con Monti si giunse presto: il primo febbraio 1946 veniva firmato tra le parti il contratto di nascita della Longanesi & C.; come marchio venivano scelti due spadini incrociati, coerenti con lo spirito battagliero e spregiudicato dell’editore.

 

Il logo.


La squadra della casa editrice vedeva la partecipazione di Henry Furst per la letteratura americana, Giovanni Ansaldo e Indro Montanelli per la saggistica. A questi più stretti collaboratori si affiancavano anche altri, tra i quali Emilio Cecchi e Vitaliano Brancati. Ma l’impronta dell’editore è ben visibile, «come quando guardava i manoscritti senza leggerli [...] cancellando qua un pronome, là un avverbio», ricorda Arrigo Benedetti. Secondo Montanelli, Longanesi non leggeva i libri, però sapeva annusarli, e tanto bastava alla costruzione di un vario catalogo la cui produzione si assestava a cinquanta titoli nel 1947. Longanesi fece esordire l’ex prigioniero degli americani Giuseppe Berto pubblicandone Il cielo è rosso – «alla tentazione di lanciare come bardo della Resistenza un ufficiale in camicia nera, non resisto» – e accolse I fascisti invecchiano di Brancati pubblicizzandolo come un libro che affronta con arguzia «la questione dell’essere stati o no fascisti». 

Coerente con la sua visione anti-antifascista, dava alle stampe la collana “La fronda”: «Ogni volume è una breve opera che capovolge le idee ricevute»; non trascurava di pubblicare le memorie dal carcere dell’assassino di Matteotti, Amerigo Dumini, e Una rivoluzione mancata di Camillo Pellizzi, già penna di “Critica fascista” di Giuseppe Bottai.

 

Fu l’editore di Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, e la nascita del romanzo rivela le grandi doti di motivatore di cui Longanesi disponeva: nel dicembre del 1946, passeggiando con lo scrittore, si fece raccontare la trama di un ipotetico romanzo: «Se comincia subito le do un anticipo» disse Longanesi, mostrando così tutta la sua fiducia in un autore che non sarebbe poi mai riuscito a ripetersi in una seconda opera del genere. «Pensare di deludere Longanesi – scrive Flaiano – mi era abbastanza insopportabile, perché la sua fiducia serviva a scoprire le nostre qualità e a metterle in moto, una fiducia che non bisognava deludere». E infatti, la consegna del dattiloscritto fu rapida così come la lavorazione redazionale, tanto che le correzioni finali dello scrittore non furono inserite perché già si stava approntando la stampa.

Che fosse Longanesi a tenere il timone non v’era dubbio alcuno: nel caso di Giuseppe Berto all’autore venne celato persino il titolo; egli scoprì di aver scritto un libro intitolato Il cielo è rosso solo entrando in libreria. Peggior sorte toccò ad Arrigo Cajummi: la casa editrice era a corto di carta, ma l’editore non voleva certo bloccare le uscite; ecco allora che ampi e vistosi tagli furono operati sulle bozze di Pensieri di un libertino e, anche in quel caso, l’autore lo apprese solo sfogliando il libro.

 

Per la commercializzazione, la casa editrice diede vita a “Il Libraio”, un periodico che raccoglieva sì segnalazioni e recensioni delle novità longanesiane, ma le affiancava a inchieste culturali e articoli di costume. Vi si possono riscontrare tratti di “Omnibus” soprattutto per l’uso delle immagini. I pezzi erano per lo più opera di Giovanni Ansaldo, affiancato da Emilio Cecchi, Giovanni Comisso, Mino Maccari, Alberto Moravia e altri. L’idea, secondo Montanelli, era delle più argute: «Chi riceve un normale foglio di servizio stampa lo getta: ma quando arriva sulla scrivania una rivista che offre inchieste, notizie nel campo della cultura internazionale, e anche rubriche di notizie curiose, gli occhi ci cadono dentro».

Ma il capolavoro di astuzia commerciale fu riservato alla collana “i Gialli Proibiti”, che a partire dal 1953 venivano distribuiti con le ultime pagine sigillate e la possibilità di essere rimborsati dei soldi spesi se si avesse resistito alla tentazione di aprirle.

 

Il Borghese.


Parallelamente all’editoria libraria, nel 1950 l’editore diede vita a un periodico la cui la cui storia meriterebbe di essere raccontata a parte e più a lungo (come ha fatto Raffaele Liucci nel suo saggio Leo Longanesi, un borghese corsaro tra fascismo e Repubblica). Si tratta di “il Borghese”. «Imparate a disprezzare la democrazia con rispetto», si leggeva nelle locandine pubblicitarie. Anticomunista e critico nei confronti della Democrazia cristiana, che pure invitava a votare, “il Borghese” incarnava lo spirito più bellicoso e al contempo nostalgico del suo direttore, che proprio in virtù di questa vis polemica cominciava a essere, e divenne sempre più, scomodo per la famiglia degli industriali Monti, con i quali il rapporto si andava via via deteriorando.

Nel 1956 Leo Longanesi lasciò la casa editrice acquistando il periodico e prendendo accordi con Rizzoli per la pubblicazione di una nuova collana, il cui marchio sarebbe stato quello di due cannoncini incrociati... Di cui però non conosciamo la gittata: il 27 settembre 1957, a soli 52 anni, il cuore lo tradì nel suo ufficio di via Bigli: «Meglio così, – sembra sia riuscito a dire – tra i miei arnesi».

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