Collodi visto da Garrone / Pinocchio, l’Italia

2 Gennaio 2020

“Che Paese meraviglioso era l’Italia”, suona l’attacco della recensione che Pasolini dedica a Un po’ di febbre di Sandro Penna e poi raccoglie nei suoi Scritti corsari. È l’Italia in cui “I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi”. Così appare sin dalle prime scene l’Italia nel film che Garrone ha dedicato al più famoso libro della nostra letteratura, fatta salva la Divina Commedia: Pinocchio di Carlo Collodi, di sicuro il libro più letto dai bambini sino a qualche anno fa. Un’Italia ottocentesca col suo baricentro in un piccolo paese della Toscana, un luogo e un tempo che precedono l’Italia orribilmente sporca descritta dal poeta friulano nell’ultimo decennio della sua vita e che Matteo Garrone ha ritratto successivamente in modo efficace nei propri film: Gomorra, Reality, Dogman. In questo idilliaco luogo, abitato soprattutto da uomini anziani male in arnese, con vestiti lisi e rattoppati, i capelli scompigliati e arruffati, si muove il burattino che Geppetto realizza col pezzo di legno datogli da Mastro Ciliegia. 

 

Matteo Garrone.


Un Eden composto di distese di grano, di campi coltivati a ulivi, colline verdi e strade bianche che le attraversano, un Paese bucolico in cui si muove un miserrimo Roberto Benigni povero in canna, misero tra poveri, dove il Gatto (Massimo Ceccherini) e la Volpe (Rocco Papaleo) sono altrettanti sventurati che s’arrabattano per mettere insieme il pasto con la cena e derubano il burattino dei suoi cinque zecchini d’oro quasi per intrinseca necessità più che per cattiveria. Dopo aver mostrato che è la fame il gran motore del racconto attraverso un breve episodio – assente in Collodi – in cui Geppetto cerca di procacciarsi un pasto proponendosi come falegname nell’osteria del paese con i tavoli mal messi, le sedie barcollanti e la porta d’ingresso rotta, Garrone abbandona uno dei temi fondamentali del libro di Collodi per concentrarsi sull’innocenza di Pinocchio. Il protagonista del suo film non è un folletto, che corre all’impazzata per sfuggire agli assassini, ai carabinieri e al povero Geppetto, che l’inseguono vanamente per gran parte della storia – in particolare dal capitolo XVI, quello con cui Collodi riprese a narrare sul “Giornale dei bambini” le avventure del suo personaggio, dopo averlo abbandonato penzolante a un ramo della Quercia Grande. 

 

Per Garrone, Pinocchio è senza dubbio un candido. La scelta di trasformare il protagonista (Federico Ielapi) grazie a un abile trucco che dona al suo viso le venature del legno, gli toglie di fatto ogni possibile espressione facciale rendendolo capace solo d’una fissità appena animata dal movimento degli occhi. Questa scelta porta il Pinocchio di Garrone vicino alla natura vegetale del libro di Collodi – è pur sempre un pezzo di legno –, senza però sfruttare a pieno questa sua prerogativa. Mentre è ben presente l’aspetto animale del racconto, grazie all’evocazione degli innumerevoli personaggi che appaiono nell’opera originaria: la Lumaca (Maria Pia Timo), la coppia dei dottori – la Civetta (Gianfranco Gallo) e il Corvo (Massimiliano Gallo) – o i conigli che portano la bara nel tentativo di convincerlo a bere l’amara medicina propinata dalla Fatina. Anche Pinocchio è un animale, come mostra la scena della sua metamorfosi in ciuchino; tuttavia il regista ha eliminato la parte in cui il burattino viene legato alla catena e trasformato in cane da guardia, così come è sparito il cane che lo salva dalle acque, due dei vari tagli operati nella storia scritta da Collodi. L’innocenza più volte sottolineata nelle scene ambientate nella scuola – Pinocchio è una sorta Pierrot-anima bella in mezzo alla marmaglia dei ragazzacci della scuola con un maestro sadico (Enzo Vetrano) – fanno di questa nuova versione di Pinocchio un film pasoliniano nella sua ispirazione di fondo. 

 

 

Il bambino è l’innocente, non nella versione del bambino selvaggio, sottratto per un caso del destino al potere pervertito della civiltà, bensì in quella dell’incontaminato. L’Italia appare come un Paradiso abitato da diavoli, poveri diavoli come il Gatto e la Volpe, proletari o sottoproletari di un mondo contadino precapitalistico. Geppetto è un povero talmente povero che non può neppure permettersi di generare un figliolo, cosa che i poveri hanno sempre fatto per volontà e necessità. Benigni-Geppetto recita Benigni in modo perfetto, con la sua forma di toscano un poco ebete, pure lui innocente come il proprio figliolo, che gli sfugge per farsi infine ritrovare e diventare, in uno scambio delle parti già previsto da Collodi, il padre di suo padre. Garrone non ha scelto in questa interpretazione del capolavoro di Collodi la strada della lettura antropologica dell’Italia, mostrando quanto poco egli sia un regista antropologo, rompendo una tradizione del nostro cinema, commedia all’italiana compresa. Il Gorilla-Giudice (Teco Celio), unico accenno al nostro presente, rovescia la pagina del testo originario mandando assolto l’innocente che si dichiara colpevole, là dove nello scrittore toscano il burattino viene condannato proprio perché innocente. 

 

 

Le parti più belle e convincenti del film, le più sontuose esteticamente, sono quelle dove Garrone porta in scena il circo di felliniana memoria. Sono le marionette del teatrino di Mangiafoco (Gigi Proietti) con la loro natura di freaks a rivelare il substrato di fenomeno da baraccone che Pinocchio reca in sé, oppure il circo in cui il Ciuchino-Pinocchio è portato a esibirsi dopo la sua trasformazione animalesca. Un freak è anche il Grillo parlante (Davide Marotta) e poi i Conigli mannari dall’evidente accento napoletano, tutti personaggi dediti a portare un po’ di anomalia in questo film ripulito in ogni suo punto, girato con mano sicura e dotato di una fotografia più che elegante. L’estetica ha ancora una volta mostrato la sua forza persuasiva in Garrone celebrando il proprio trionfo in modo simile al cinema del suo rivale-compagno Paolo Sorrentino. Il protagonista alla fine non è tanto il burattino ribelle, quanto piuttosto l’Italia con il suo mare e le sue spiagge, i suoi villaggi, i palazzi e le ville, le fortificazioni, un paese miserrimo eppure bellissimo, in cui la natura fa da contorno agli uomini e alle loro difficili vite. Un Paradiso terrestre, o un Presepe oleografico, dove anche un anomalo, com’è il burattino di Collodi, può trovare lo spazio giusto per la sua avventura picaresca. Pinocchio per Garrone non ha commesso nessuna colpa, non deve espiare nessun peccato, neppure d’aver abbandonato la scuola, d’essere stato cattivo e disubbidiente con il suo papà, e con la Fatina dai capelli turchini, che è una madonnina soccorrevole, più convincente nella versione bambina (Alida Baldari Calabria) che non in quella di donna adulta (Marine Vacth). 

 

 

Pur girando un film godibile, Garrone ha eliminato il substrato gotico di Pinocchio, la sua discesa agli inferi – un infernuccio limitato, eppure essenziale –, dove il burattino si confronta con il Regno dei Morti, coi trapassati, attraverso le sue due morti, come accade in Collodi. La vera metamorfosi di Pinocchio è in effetti questa, come aveva capito Giorgio Manganelli nella sua riscrittura della fiaba Pinocchio: un libro parallelo. Il protagonista di Collodi conosce l’arte sciamanica del passaggio da uno stato all’altro dell’esistenza, dai vivi ai morti, e anche viceversa. Possiede una evidente natura doppia: vuole essere un trickster e insieme un bambino come tutti gli altri. Nel film di Garrone non è in nessun modo un briccone divino, un personaggio venuto da un’altra dimensione, come Collodi ha mostrato nel suo sgangherato eppure fenomenale libro senza capo né coda, scritto da un narratore toscano che pare avere accesso all’inconscio collettivo contenuto nelle storie matte, inattese e imprevedibili.

 

Sullo schermo cinematografico c’è un Pinocchio immacolato, lucente, lustro, purificato come il paesaggio del Bel Paese che Garrone ci mostra in ogni scena del film. Questo è il Paese meraviglioso che Pasolini raccontava nel 1975 con struggente nostalgia, nella recensione al libro di prose d’un altro poeta dell’Eden, Sandro Penna. Con questa opera Garrone sembra essersi preso una boccata d’ossigeno, raccontandoci una storia nostalgica prima di tornare a immergersi nuovamente nel Paese lercio, disonesto e sordido che noi continuiamo ad abitare senza alternative ogni giorno. 

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