Speciale

Accademia Unidee / Quattro farmaci contro l’automatizzazione

19 Giugno 2021

In natura tutto è interconnesso e una variabile funge da contrappeso a un’altra.

 

Questa scienza del contrappeso, nella vita sociale dobbiamo svilupparla noi, perché la velocità dell’artificio che abbiamo costruito sfugge ai tempi che la natura si dà da sé. E se questo per lei può essere un trascurabile evento, per noi può significare un errore fatale.

 

Alla base di alcuni nostri mali contemporanei sta proprio lo squilibrio tra alcune dotazioni o inclinazioni naturali e i sistemi di contrappeso che abbiamo gradualmente portato ad aver sempre meno rilievo. In particolare, anche se può sembrare controintuitivo a chi associa alla modernità una maggiore consapevolezza, emancipazione e autonomia degli umani, stiamo progressivamente diventando sempre più proni all’automatizzazione della nostra vita psichica.

 

L’automatizzazione passa attraverso molteplici dispositivi psichici, qui ne consideriamo quattro che hanno un ruolo nella nostra vita di individui, cittadini e società: l’abitudine, la paura, la soggezione e la conformazione. Tutti e quattro comportano fondamentali vantaggi, ed è per questo che la natura e l’evoluzione ce li hanno offerti: l’abitudine capitalizza l’apprendimento passato e libera energie per nuovo apprendimento. La paura acuisce i sensi e moltiplica forza e resistenza per sottrarci al pericolo. La soggezione permette di limitare il rischio di venire uccisi dal maschio alpha. La conformazione costruisce un ordine sociale con un meccanismo di imitazione di grande efficienza. È possibile che la natura non avesse proprio pianificato la nostra uscita dal reame dell’automatizzazione, ma un giorno abbiamo cominciato a costruire cultura sociale seguendo forme e concetti inediti, e abbiamo trovato modi per trasmetterla di generazione in generazione, anche se non certo in modo integrale. Non è lo stesso che avviene per altre complesse organizzazioni sociali, come ad esempio nel caso delle api, dei lupi, delle micorrize o delle colonie batteriche. Se fino a quel momento l’automatizzazione aveva trovato in noi dei contrappesi naturali, la nostra avventura nel mondo dell’artificio, del progresso e della scienza ha fatto sì che dovessimo prenderci la responsabilità di svilupparne di appropriati noi stessi. Pena il rischio di lasciare campo libero all’automatizzazione e quindi produrre una società di automi che non tutti considererebbero un risultato auspicabile. Oggi la tecnica ha assunto tale presenza nella nostra vita e in quella delle nostre società che il rischio di un’automatizzazione totale dell’umano non è solo uno scenario distopico. Quali contrappesi abbiamo dunque sviluppato? E possono questi giocare un ruolo anche oggi, nell’Antropocene, o è troppo tardi?

 

La ricerca psicosociale avviata a Cittadellarte con i laboratori dedicati all’arte per trasformazione sociale e all’arte della demopraxia ci porta a individuare quattro antidoti, contrappesi o farmaci con cui lavorare per controbilanciare gli effetti incontrollati dell’automatizzazione galoppante che stiamo vivendo. Come vedremo nessuno di questi è di nuova invenzione, soltanto essi non sono generalmente intesi come tali, cioè come farmaci capaci di riequilibrare la bilancia tra due opposti che convivono in noi, e che probabilmente hanno la medesima radice non solo etimologica: l’automa e l’autore.

 

Rispetto all’abitudine, non sembrerà peregrino ad alcuno che il miglior contrappeso che abbiamo a disposizione (ognuno di noi) sia la creatività. Inevitabilmente il processo creativo comporta processi mentali inediti, dunque non automatici, ancorché basati su elementi di partenza che già esistono. Invece, come si sa, dalla ripetizione abitudinaria di processi psichici e mentali non verrà innovazione, se non forse attraverso l’errore, ma anch’esso senza capacità di analisi e contestualizzazione con pensieri nuovi non avrebbe molta efficacia nell’apportare un gradiente di creatività alla nostra vita e società.

 

 

Una valida terapia contro l’eccessiva presenza di abitudinarietà nella vita nostra e delle nostre città, imprese, organizzazioni… è dunque la creatività. Fin qui, si dirà che molte società umane storiche e contemporanee hanno sviluppato spazi per coltivare l’antidoto della creatività. Quanto investano e credano realmente in questi spazi è piuttosto controverso, al di là delle dichiarazioni elettorali. Ma se manca la convinzione dei cittadini è inutile aspettarsi che i loro rappresentanti siano così illuminati da assumere la guida verso politiche mirate a coltivare creatività come si coltivano i campi che ci offrono il nutrimento di cui abbiamo bisogno. È successo per esempio in Finlandia e a Cuba, ma sono eccezioni, purtroppo.

 

Una seconda dinamica meno presente alla consapevolezza dei più è, come si diceva, la paura. Siamo piuttosto coscienti di come essa sia stata spesso non solo non combattuta, ma anzi promossa dai sistemi politici di ogni tipo. Fomentare un automatismo già potente come quello della paura è pericoloso: i cittadini impauriti lasciano sguarniti territori psichici importanti, compresi alcuni di quelli che rendono la vita così preziosa, sia per gli individui, sia per le società. Anche in questo caso, a ben guardare, le società umane hanno già sviluppato l’antidoto: si tratta della ricerca. L’indagine del mondo e dei suoi fenomeni porta a conoscere il predatore che nella savana ci tende gli agguati; studiandolo impariamo a evitarlo o perfino a sconfiggerlo. Non vale solo per il leone, ma per ogni affanno o preoccupazione, istanza e fenomeno che incontriamo. Coltivare la diffusione della capacità di ricerca nei cittadini e in ogni loro struttura organizzativa è di nuovo una scelta che le società possono fare con decisione o in modo simbolico. Certo che un sistema politico predatore non avrà molto interesse a promuovere nelle sue prede la capacità di sconfiggerlo. Se si cerca un indicatore dello spirito di servizio al bene comune della classe politica, la misura delle risorse destinate alla ricerca sembra essere un buon candidato. Parliamo di ricerca intendendo certamente quella operata dagli istituti deputati a svolgerla professionalmente, ma il discorso vale altrettanto per quella ricerca che può sviluppare ogni singolo cittadino nella propria comunità di pratica, verso il traguardo di un’attivazione come ricercatori di ognuno di noi secondo il principio che, come afferma il sociologo anglo-indiano Arjun Appadurai, la ricerca è un diritto umano.

 

Passando al terzo farmaco, prendiamo in considerazione la soggezione o sottomissione. Quale contrappeso abbiamo sviluppato nella storia per questa dinamica psichica fondata sulla necessità di evitare la continua esplosione di conflitti violenti e potenzialmente fatali? Il dialogo, l’arte del confronto, capace di costruire dibattito critico e costruttivo, orientato alla proposta, e non alla sola denuncia. Abbiamo avuto campioni di quest’arte, probabilmente Socrate ne è il Maradona, il Mozart. Ma anche in questo terzo caso, il farmaco non è un costoso e irraggiungibile prodotto di qualche esclusiva clinica svizzera: è a portata di ognuno di noi. Per svilupparlo bastano cose come delle buone letture e soprattutto dei docenti da cui imparare a non avere paura di dissentire, ma anche a non dissentire solo per sfogare il proprio disagio in modo distruttivo. È un farmaco con cui affrontare i maschi alpha che ci aspettano a ogni angolo, in ufficio, anche in casa, e certamente per le strade della città e della vita: non ci metteremo a lottare contro di lui, ne usciremmo male. Lo porteremo sul terreno dove i muscoli intellettuali valgono più di quelli fisici. E nel farlo capiremo le sue ragioni. Con l’arte della ricerca lo potremo comprendere. Con la creatività potremo inventare linguaggi e giochi con cui relazionarci con lui. E non averne né paura, né soggezione. Chiaro che occorrano leader politici di grande valore per promuovere nei propri cittadini il farmaco del dialogo critico come una delle risorse con cui controbilanciare gli automatismi naturali, risorse che sono capacità del tutto umane o capabilities per richiamare un grande pensatore come Amartya Sen.

 

Infine, vediamo una quarta dinamica psichica che porta all’automatizzazione, si tratta della conformazione. Anch’essa utile, necessaria, per comprendersi e organizzarsi. Ma anche qui, se le permettiamo di occupare eccessivamente il nostro spazio psichico, non possiamo che aspettarci che essa finirà per trattenere, frustrare, impedire il nostro potenziale di innovazione, espressione, realizzazione come individui e come comunità sociali. E che cosa abbiamo dunque sviluppato per controbilanciare questa dinamica? L’impegno civico. Questa capacità universalmente diffusa, ma altrettanto universalmente contrastata, agisce come contrappeso alla naturale tendenza alla conformazione culturale e sociale. E anche questa capacità è alla portata di tutti. Come per le altre capacità, anche in questo caso non occorrono chissà quali investimenti e trasformazioni radicali degli apparati sociali che abbiamo finora prodotto perché essa possa esprimersi e operare un benefico processo di deautomatizzazione.

 

Ora che abbiamo tratteggiato il quadro di questa tensione automatizzazione/deautomatizzazione, possiamo concludere con la constatazione che se c’è un’area della vita sociale che assume queste dinamiche e i corrispondenti farmaci o contrappesi in una sola visione, questa è la cultura.

 

A che cosa dunque serve la cultura? A operare deautomatizzazione in noi e nelle nostre società. O meglio: ad aiutarci a scongiurare il rischio di dare vita a una società di automi, e invece realizzare una società di autori. Ditemi voi se vale la pena investire in essa oppure no.

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