Buzzati secondo Mattotti / Un dolce gotico: “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”

7 Novembre 2019

Un intrico di linee nere, così fitte che lasciano appena intravedere qualcosa là dietro, che si muove: animali, uomini oppure mostri? Siamo nel bosco, quello delle fiabe, degli incantesimi, degli incontri strani e paurosi, delle scoperte e delle improvvise agnizioni. Sarà il bosco di Pinocchio, quello che Lorenzo Mattotti ha evocato in una serie di indimenticabili tavole e disegni? Probabilmente sì. Ma è anche il bosco di tante altre sue storie, dove i personaggi invece di perdersi si ritrovano, quasi che il bosco sia la loro stessa condizione interiore, mentale, prima ancora che fisica. Comincia così la versione cinematografica di La famosa invasione degli orsi in Sicilia, dal libro di Dino Buzzati, scritto e illustrato dallo scrittore bellunese nel 1945, che questo straordinario disegnatore ha voluto portare sul grande schermo dandone una interpretazione unica, eppure perfettamente in linea con l’ispirazione buzzatiana. 

 

 

Come ha scritto una volta Italo Calvino, la letteratura italiana non ha avuto il romanzo picaresco e il romanticismo fantastico e “nero”; per il primo genere lo scrittore faceva il nome di Benvenuto Cellini e di alcune novelle di Boccaccio; per il secondo citava solo un libro, insieme picaresco e gotico, Pinocchio, opera di un toscano bizzarro e fantasioso, Carlo Collodi. A dire il vero nella nostra letteratura ci sono tracce di un altro possibile romanzo gotico: si tratta del più famoso romanzo italiano, I promessi sposi. Manzoni ha infatti scritto a suo modo un romanzo “nero”, come hanno suggerito Eurialo De Michelis e Renato Giovannoli, in due libri da rileggere con altri occhi alla luce del fumetto italiano degli ultimi trent’anni, là dove il gotico è diventato uno stilema postmoderno per raccontare l’inafferrabile mondo contemporaneo. 

 

Grazie al film di Mattotti ora possiamo iscrivere anche la favola di Buzzati in questo filone – cosa che Calvino, ammiratore di Buzzati, non aveva fatto. L’autore di Il deserto dei tartari è uno scrittore nero che tende al rosa. Pesca senza dubbio in una propria vena profonda al negativo, e tuttavia tende verso finali positivi, o che possono sembrare tali; nonostante le catastrofi compiano immancabilmente nei suoi racconti, non si tratta mai di catastrofi finali, bensì penultime. Il nero c’è, solo che non trionfa del tutto. Buzzati non è Poe. Mattotti invece possiede un immaginario più gotico del suo ispiratore, come dimostrano alcuni dei suoi lavori migliori, abitato da creature che escono dai sogni per entrare negli incubi, e raramente viceversa. 

 

 

Nel film, appena uscito nelle sale italiane dopo il debutto in Francia, il nero c’è, e anche l’incubo: ma è svolto in una forma più visiva che narrativa, per quanto l’esordio, dopo il passaggio nel bosco della paura delle prime scene e l’ingresso nella caverna da parte dei due cantastorie, tenga conto di un movimento narrativo già impostato da Buzzati che era, a dispetto di quanto credeva di sé, più scrittore che pittore. Mattotti e la sua squadra di sceneggiatori hanno voluto mettere in campo un narratore orale e la sua giovane figlia, Almerina, prima piccola e poi grande dentro la storia stessa. Si tratta di un cantastorie siciliano con tanto di tabellone, disegni e chitarra al collo, di cui si serve per accompagnare la vicenda degli orsi e porgerla così agli spettatori. Una mediazione prevista da Buzzati, che al di sotto dei disegni nel suo libro aveva fornito un breve riassunto dei fatti (mi riferisco alla edizione uscita dopo il 1945 da Mondadori), come avviene nel teatrino dei pupi. L’idea viene da lì, ed è utile a creare un doppio piano di narrazione, così come l’idea di introdurre il secondo narratore-ascoltatore: l’orso risvegliato dal cantastorie e dalla figlia dal suo letargo nella caverna (cui dà voce Andrea Camilleri), figura assente nel libro di partenza. 

 

In questo modo il punto di vista varia, seppure senza grandi sbalzi, tra la storia narrata dal cantastorie e quella che riferisce l’orso risvegliato. La prima parte del film, come quella del libro del resto, ha un andamento più fantastico, dominata dai grandi paesaggi montuosi, con le montagne incombenti ed enormi scivoli nevosi, che diventano piani di discesa verso il basso, organizzata in spazi spaesanti, privi di dimensioni certe; tutto è enorme e insieme piccolissimo. Questo gioco della doppia o tripla dimensione, propria di Mattotti e del suo precipuo modo di disegnare, s’evidenzia nel passaggio dai primi piani dei personaggi alle azioni della folla – i soldati del Granduca, tiranno di Sicilia, o gli orsi disposti in fila indiana che l’invadono – e aiuta a dare un notevole dinamismo al film, così da riprendere la magia dei disegni di Buzzati, che lavora col piccolo e il distante, e mai col primo piano. 

 

 

Mattotti possiede un talento incredibile nella definizione degli spazi aperti e delle ombre proprie, passa dal luminoso al tenebroso con una velocità notevole, così che sembra agire più sulla visione inconscia dello spettatore che non su quella conscia. Dilata, allunga, espande, distende, ma anche comprime, accorcia, compatta. Il suo è un gotico in piena luce, un gotico della visione indiretta e non diretta. Il colore, la forma, il segno parlano un linguaggio non immediatamente evidente, quella della fluidità, mentre per ragioni di fiction a dominare è la storia stessa, quella schizzata da Buzzati con le sue parole, seppure in maniera tale da lasciare ampi spazi vuoti che la fantasia degli sceneggiatori del film hanno riempito con piccole e notevoli invenzioni: i palazzi abitati da Re Leonzio; il dettaglio degli orsi resi attraverso un disegno squadrato; l’introduzione della figura femminile accanto a Tonio, il figlio di Leonzio, là dove in Buzzati c’era solo un universo maschile. 

 

Questa versione filmica ha anche accentuato il conflitto padre-figlio, che nel libro è solo accennato, e tuttavia non sviluppato per ragioni di economia narrativa. Così la decisione di Re Leonzio morente di abbandonare il mondo degli umani conquistato e tornare sulle montagne possiede ora un’attualità evidente. Un messaggio ecologista, da decrescita, che è diventato più o meno consapevolmente il messaggio “politico” del film. Anche il finale, con il segreto comunicato dall’orso narratore alla ragazzina, è una novità che lascia aperta la storia e la colloca su un piano metanarrativo: Buzzati aveva sfiorato quel racconto dopo il racconto introducendo nelle ultime righe del libro un narratore-orso, senza però dargli un seguito. 

 

 

Ci sono tantissimi dettagli che colpiscono nel film di Mattotti: il disegno degli alberi stilizzati, in continuità col segno di Buzzati; le visioni dal basso, là dove invece l’autore del libro privilegiava quelle dall’alto; la forma dei palazzi e della città di mare, dove si svolge la seconda parte della storia, alla Miyazaki; le piazze alla De Chirico e persino qualche tocco alla Escher nella città stessa. Bellissima l’interpretazione della figura del professor De Ambrosiis reso con un corpo da insetto, già così in Buzzati, e l’idea del viso egizio; poi la sua parlata veneta, da “polentone” in terra siciliana. E ancora il Serpente di mare nel finale, dove Mattotti e la sua equipe sviluppano alcune disponibilità implicite nel racconto di Buzzati con un pizzico di Disney post-Alice nel paese delle meraviglie. Ma è proprio la qualità del disegno di Mattotti che colpisce, così poco americana, e così tanto italiana. Discende dal futurismo, dall’informale degli anni Cinquanta, e persino da certe astrazioni del concettualismo degli anni Sessanta: un disegno, il suo, che non ha eguali nel nostro fumetto. A trionfare ancora una volta è il colore. A Mattotti importa raccontare usando questo strumento; la storia è solo un pretesto, come spesso gli accade nelle narrazioni, un modo per vedere e far vedere. L’immaginazione per lui non sembra avere limiti, a patto di poterle darle una forma e subito di modificarla in un incessante movimento. Tutto fugge senza sosta, in una metamorfosi senza fine. 

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