Speciale
Diario (1) / Verso Paradiso
Dopo che varcando il Teatro Rasi si era precipitati nella città dolente, dopo che si era imparato il “noi” nella cantica dell’ascendere insieme per le strade di Ravenna, e di Matera, ci sarebbe stata una nuova chiamata pubblica e, insieme, si sarebbe dovuti arrivare al Paradiso nel 2021. Come fare, costretti alla distanza? Come celebrare Dante nell’anno del settimo centenario della morte del poeta? Teatro delle Albe e doppiozero hanno immaginato lo spazio della scrittura come spazio di un’attesa condivisa, un racconto-diario scritto da Marco Martinelli e racconti-sapere di studiosi e amici del Sommo, fili differenti per “dialogare con l’ago” e tessere visioni. Il Cantiere Dante di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.
Ci abbiamo creduto, abbiamo sperato, fino all’inizio di marzo. Poi l’esplodere delle varianti, la lentezza dei vaccini, l’arrossarsi implacabile, giorno dopo giorno, delle Regioni, ci hanno fatto alzare bandiera bianca: il Paradiso dantesco, debutto previsto 25 giugno 2021, non si farà. Ma prima di continuare, occorre raccontare l’antefatto al lettore di doppiozero.
È tutto cominciato a Ravenna, al liceo Dante Alighieri, negli anni Settanta del secolo scorso: io e Ermanna, vicini di banco, eravamo incantati da una giovanissima docente di italiano che, la sigaretta perennemente accesa tra le dita – all’epoca i professori potevano fumare in classe – alternava Dante a Brecht e Majakovski. La lettura degli endecasillabi risultava a tratti ostica e difficile, sì, ma più spesso entusiasmante, come salire la parete di un’alta montagna. Poi a vent’anni ci siamo sposati, e abbiamo cominciato a fare teatro, fondando una compagnia nostra in cui intrecciare la vita e la scena. Procedendo nella ricerca, sempre Dante ci era accanto, maestro e “compagno di veglia”: e cominciammo a pensare che non bastava “metterli in scena” i classici, bisognava “metterli in vita”, perché le parole di un capolavoro antico non sono nulla se non si fanno carne del nostro presente, se non illuminano il cammino dei viventi. E così, anno dopo anno, si è fatto strada in noi il desiderio, legato a quella fascinazione adolescenziale, di “mettere in vita” la Divina Commedia, sapendo che è la potenza stessa del poema che “mette in vita” chi ci si avventura all’interno.
Nel 2012 Alberto Cassani, allora assessore alla cultura, ci chiese un progetto per la candidatura di Ravenna a Capitale europea della cultura, e lì pensammo concretamente per la prima volta all’allestimento del poema dantesco: Ravenna non vinse, superata sul traguardo da Matera – quella vicenda è poi stata trasfigurata da Cassani nel suo avvincente, politico, divertente romanzo pubblicato da Baldini e Castoldi, Una giostra di duci e paladini – e per un po’ accantonammo l’idea. Nel 2016 Ravenna Festival ci propose di riprendere in mano il progetto e allestire, in sequenza, l’Inferno nel ‘17, il Purgatorio nel ‘19, per arrivare così al Paradiso nel ‘21, anno del settimo centenario della morte del poeta. Per affrontare i 14.233 versi che compongono quella smisurata architettura poetica, pensammo prima di tutto di allargare il palco all’intera città. Attraverso la “chiamata pubblica per la Divina Commedia di Dante Alighieri” abbiamo invitato ogni cittadino ravennate, senza distinzioni di età, lingua, classe sociale, a dare forma, con noi, a quel viaggio che è il viaggio di tutti i mortali, dalla “selva oscura” alla luce: Ezra Pound, con acutezza, ha definito Dante “the everyman”. Così è nato il Cantiere Dante: ci sarebbe stato lavoro per tutti, come nell’edificazione di una cattedrale medievale, quando alla sapienza degli artisti si affiancava l’entusiasmo di un popolo. Un sogno fuori dal tempo? Evidentemente no, se alla chiamata hanno risposto in più di mille. Inevitabile che accadesse: se apri una porta, il mondo ci passerà attraverso. Ci siamo ispirati alle sacre rappresentazioni medievali e al teatro rivoluzionario della Russia di primo Novecento: epoche ben diverse, accomunate dal fatto che il “popolo” non assisteva passivo, ma insieme agli “artisti” dava vita a un teatro che rappresentava un’intera società, i suoi ideali, i suoi valori.
Abbiamo lavorato con i mille dividendoli in gruppi, ricreando coralmente le figure dantesche, in un montaggio scenico che ha privilegiato alcuni canti rispetto ad altri: così, ad esempio, una trentina di adolescenti dava figura agli amanti Paolo e Francesca, coppie che si tenevano per mano sbattute dal vento di una tempesta sonora; una sessantina di “avari” e “prodighi” si sfidavano in una lotta corpo a corpo, in un furioso assembramento; una cinquantina di “arpie” evocavano, con grida squarcianti, il “femminile terribile” evocato da Antonin Artaud; e così in successione tutti gli altri cori, i ladri alla Vanni Fucci, i diavoli, i politici corrotti, i pontefici corrotti, gli usurai, i traditori etc. Accanto ai cittadini, le maestranze degli artisti: su scene e costumi lavoravano gli allievi dell’Accademia Brera di Milano, diretti dai docenti Edoardo Sanchi e Paola Giorgi, le musiche erano composte da Luigi Ceccarelli e dai suoi allievi del Conservatorio di Latina, la regia del suono era affidata a Marco Olivieri, le luci a Francesco Catacchio, mentre gli attori delle Albe incarnavano figure singole, come Ulisse o Pier delle Vigne. Un cantiere operoso giorno e notte, per costruire una cattedrale di corpi. La “polis”, il termine greco che significa “città”, nasconde nel suo etimo “poli”, ovvero “i molti”. E chi non se la sentiva di recitare o cantare, poteva relazionarsi alle squadre tecniche e organizzative, costruendo un palchetto per Farinata e Cavalcante, aiutando a registrare ogni giorno i cittadini “presenti”, rispondendo alle infinite domande e alle richieste di chiarimento.
Dopo mesi di prove siamo arrivati al debutto di Inferno: ogni sera, al tramonto, lo spettacolo iniziava dalla tomba di Dante, dove, vestiti di bianco, io e Ermanna eravamo il Virgilio che avrebbe condotto nelle viscere del “cieco carcere” lo spettatore-Dante – questo era infatti il ruolo che assegnavamo ad ogni spettatore, ognuno “everyman”. Dapprima percorrevamo le vie del centro storico, dove prendevano forma i primi due canti, camminando – perché è camminando che Dante scende tra le ombre – scandendo i versi in coro, come una processione religiosa o un corteo politico, e poi ci ritrovavamo davanti alla facciata del Rasi, una chiesa romanica trasformata in teatro all’inizio del Novecento: lì iniziava il terzo canto, “Per me si va nella città dolente”, e lo spettatore-Dante, varcando la soglia del Rasi, entrava fisicamente nell’inferno immaginato da Dante. Il teatro era stato da noi in precedenza totalmente capovolto: avevamo rimosso tutte le poltrone della platea, avevamo trasformato lo spazio della chiesa-teatro in una sorta di set cinematografico. A quel punto gli spettatori, condotti dalle due guide in bianco, ne attraversavano tutti i luoghi, tradotti nei gironi danteschi e abitati da demoni e dannati: la platea, le scale che conducono in galleria, la galleria, gli uffici, il foyer, i bagni, fino alla fine, quando, dopo aver fatto esperienza del Male di cui è capace l’uomo, dell’orrore in cui può sprofondare, io e Ermanna li prendevamo per mano, uno per uno, e li facevamo uscir fuori, nella notte, “a riveder le stelle”.
Lo spettatore si ritrovava davanti a un albero, al quale stava appoggiata un’alta scala azzurra di legno, di cui non si vedeva la fine: attorno un cerchio di corpi, ovvero tutti i cittadini che lo spettatore aveva precedentemente incontrato in maschera: uomini e donne, bambini, anziani, lavoratori di ogni genere, migranti. Il rito si concludeva ogni sera con un festoso abbraccio corale e una lunga litania di ringraziamenti, dove io e Ermanna cercavamo di non dimenticare nessuno, neanche gli spettatori, che avevano vissuto insieme a noi quella esperienza, che come Dante avevano camminato insieme a noi, fino al fondo della tenebra. Perché l’anima ce la salviamo con il nostro povero corpo tremolante, ci insegna il poeta.
Il Purgatorio è la cantica del ricominciare. Si può ricominciare? Dopo un fallimento, una sconfitta, una delusione? Ce la facciamo, a cavarci dalla bocca quell’amaro che sa di morte, a ritrovare il gusto della vita? Si può ancora sorridere, dopo che l’angoscia ci ha serrato il cuore con le sue tenaglie, fin quasi ad arrestarlo? Si può uscire da quell’inferno che è diventata l’esistenza? Certo che si può. È come ritornare sui banchi di scuola, in prima elementare, e apprendere una lingua nuova. Abbiamo sfogliato il catalogo di tutte le violenze, abbiamo scrutato nel buio di quei volti malvagi che sono il nostro volto, ora apprendiamo l’alfabeto della compassione. Per questo il Purgatorio inizia all’alba, con un colore del cielo disegnato da quel verso che Borges riteneva il più bello di tutta la Commedia: ‘Dolce color d’oriental zaffiro’. L’interminabile notte è terminata. Al buio fa seguito l’azzurro. Sveglia presto, e tutti a scuola. Davanti a Dante una sfilza di penitenti, che sono al contempo allievi e maestri: mettono Dante e il lettore e sé stessi sulla via di una “vita nuova”. Il Purgatorio è la cantica del ‘noi’, dei cori che cantano la propria allegrezza, dell’ascendere insieme. ‘Non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla?’.
Nel 2019, con le stesse modalità della chiamata pubblica, abbiamo realizzato il Purgatorio in due città, prima a Matera per la Capitale europea della cultura, invitati da Paolo Verri e Ariane Bieou, poi a Ravenna sempre con Ravenna Festival. La risposta dei materani è stata la stessa dei ravennati, in centinaia e centinaia hanno partecipato tutte le sere all’allestimento, smentendo chi aveva pensato che il grande coinvolgimento dell’Inferno del ‘17 fosse dovuto all’essere Ravenna “città dantesca” per eccellenza, custode delle spoglie mortali del poeta. Con il prezioso contributo dello IAC di Andrea Santantonio e Nadia Casamassima, Matera è stata “città dantesca” per due mesi, e gli endecasillabi risuonavano tra le rocce delle gravine come lampi di luce sul presente: Pia dei Tolomei è ancora oggi il simbolo della violenza subìta dalle donne, Oderisi da Gubbio vestiva i panni di Joseph Beuys per dire la missione profonda dell’arte, scala azzurra verso il cielo, davanti a una gigantesca carta geografica Marco Lombardo pronunciava la sua invettiva contro la “serva Italia”, e infine, nel Paradiso Terrestre, una Matelda adolescente vestiva i panni di Greta Thunberg per ricordare a tutti che questo paradiso che è il pianeta che ci ospita lo stiamo mandando alla rovina.
Il virus ci ha colti nel marzo 2020, mentre facevamo i primi passi verso la conclusione del viaggio, verso il Paradiso da allestire ancora una volta a Ravenna, nell’estate 2021, per il Festival diretto da Franco Masotti, Antonio De Rosa e Angelo Nicastro, con lo sguardo amoroso di chi ne è stato anima per decenni, Cristina Muti. Abbiamo quindi lavorato fino al marzo di quest’anno con le stesse maestranze con cui avevamo realizzato le cantiche precedenti – con l’eccezione del disegno luci, dove Fabio Sajitz già nel Purgatorio aveva sostituito Catacchio – sperando che prima o poi la pandemìa sarebbe finita: non è stato così. Nell’incertezza abbiamo elaborato un piano b, un piano c, un piano d… fino a non contarli più, fino a dirci, pochi giorni fa, che sarebbe stato assurdo realizzare il Paradiso con pochi professionisti “distanziati”, rinunciando alla “chiamata pubblica”, motore mobile della nostra Commedia. E così, d’accordo con il Festival e il Sindaco, l’impresa è stata rinviata al ‘22. E d’altronde, come celebrare l’Alighieri in questo 2021, se la parola “celebrare” non significa nella sua origine monumenti e bandiere, significa invece un “affollare”, un riempire festoso di corpi, un farsi folla, che in questo tempo ci è precluso?
Il solo rimandare non ci basta. Stiamo immaginando di costruire ugualmente un segno, una visione che ci traghetti verso il Paradiso del prossimo anno. Lo racconteremo in questo diario settimanale per doppiozero, seguendone la creazione passo passo.