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Roma fra le pagine della Storia

7 Novembre 2024

Simone Weil ha scritto che «tutta l’Iliade sta sotto l’ombra della sventura più grande che ci sia tra gli uomini: la distruzione di una città». Lo stesso potrebbe dirsi della Storia di Elsa Morante, estesa sinfonia narrativa trattenuta dentro il perimetro della Roma devastata dalla guerra, fra il 1941 e il 1947. Il racconto della rovina di una città contribuisce, insieme alla corrispondenza fra capitoli e anni esplicitata dall’indice, ad allontanare come insufficiente i modelli del romanzo storico e della memorialistica familiare, imponendo la centralità di altri paradigmi enunciativi che vanno dalle trattazioni annalistiche, anticamente associate alla cronaca degli eventi cittadini, al racconto epico vero e proprio. In questo senso la presenza continua e altamente connotata del paesaggio urbano novecentesco pone le condizioni essenziali per la costruzione di un impianto compositivo epico: trasformando la somma dei destini individuali in un insieme inscindibile di scontri, condivisioni e convivenze, è la consistenza stessa della città a rendere possibile il regime corale del racconto e uno sviluppo della materia narrativa fatta di deviazioni-digressioni, episodi autoconclusivi, apparizioni e congedi di molteplici personaggi. Attraverso  un effetto di amplificazione, la scrittura arriva così ad esprimere una comune essenza delle genti umane, in cui risultano indistinte le sofferenze degli oppressi e degli oppressori, dei protagonisti e delle comparse anonime, arrivando davvero a raccontare, superando il dato storico, il senso spietato e tragico della lotta per la sopravvivenza di una civiltà.

Allo stesso tempo, nel valore unico dell’opera e della scrittura di Morante, la rappresentazione di Roma contribuisce a definire le peculiarità di uno stile teso fra trasfigurazione mitico/fantastica e fedeltà alla rappresentazione del vero. Se da una parte le descrizioni puntuali e i continui richiami topografici restituiscono un’accurata documentazione sulle fonti del tempo e un rigoroso sforzo di verosimiglianza, non si può ignorare la carica visionaria con cui sono filtrati e trasfigurati gli spazi urbani, sfondo degli incubi, delle pulsioni e degli slanci vitali degli abitanti. Le figure protagoniste (prime fra tutte la coppia madre-figlio) sono quindi obbligate a proiettare gli assoluti antropologici dei propri demoni, traumi e sogni sulla materialità di strade, edifici e quartieri definiti da  precise coordinate spaziali e temporali: la Roma cieca dei coprifuochi e dell’oscuramento, assillata dagli allarmi aerei, ridotta in macerie dai bombardamenti, circondata da prati e fossi in putrefazione, cosparsa di manifesti che annunciano persecuzioni, trasformata in una trappola dalle retate, i confinamenti, le stragi.

In questa prospettiva, e nell’eterno conflitto fra Storia e natura che il romanzo mette in scena, mentre la pietà creaturale di Ida e Useppe esprime una condizione ancestrale e immutabile, Roma rappresenta senz’altro la Storia. Del resto, se la dimensione morale dell’individuo può acquistare senso solo nel contesto della vita di relazione, la città, qualunque città, costituisce implicitamente il modello di tutti i modelli etici e quindi l’emblema della presenza dell’uomo nella Storia. Per questo coloro che sono al di sotto o al di fuori di ogni concordato morale (gli ultimi, gli inconsapevoli, «le cavie che non sanno il perché della loro morte») non posso sopravvivere alla città, e nella città periscono. E per questo, lungo tutto il romanzo, il rapporto fra individuo e città riflette in maniera esemplare il rapporto fra individuo e Storia: la forma e il funzionamento della capitale esprime una concezione gerarchica degli spazi che sostiene l’esercizio coercitivo del potere, limitando l’iniziativa e l’autodeterminazione degli abitanti fino a contestarne lo stesso diritto alla libertà e alla vita. Così come alle moltitudini degli analfabeti non è dato comprendere le forze della grande Storia (richiamate all’inizio di ogni capitolo nei regesti degli eventi di impatto mondiale), ugualmente questi sono esclusi da un rapporto autentico e consapevole con la città, che nella loro esperienza risulta estremamente limitata sul piano temporale, spaziale e simbolico. I personaggi del romanzo non frequentano la Roma monumentale del centro e dei quartieri signorili, ignorano i codici tanto della profondità archeologica quanto dell’attualità politica (la città mascherata dalle celebrazioni fasciste). Una condizione che viene incarnata nella prima pagina del romanzo dal giovanissimo soldato tedesco prossimo ad assalire Ida, dando così inizio all’intera vicenda:

Su Roma sapeva soltanto quello poche notizie che s’imparano alla scuola preparatoria. Per cui gli fu facile supporre che i casamenti vecchi e malridotti del quartiere San Lorenzo rappresentassero senz’altro le antiche architetture monumentali della Città Eterna! e all’intravvedere, oltre la muraglia che chiude l’enorme cimitero del Verano, le brutte fabbriche tombali dell’interno, si figurò che fossero magari i sepolcri storici dei cesari e dei papi. Non per questo, tuttavia, si fermò a contemplarli. A quest’ora, per lui Campidogli e Colossei erano mucchi d’immondezza. La Storia era una maledizione. E anche la geografia.

L’incapacità di decifrare la dimensione urbana non è caratteristica dello straniero ma appartiene all’individuo escluso dalla Storia e, quindi, dagli elementi della città che ne conservano la memoria e ne perpetuano gli abusi. In questo tessuto urbano coercitivo gli esseri indesiderati sono confinati nelle borgate (San Lorenzo, Pietralata), nei quartieri popolari (Testaccio) e nei quartieri-prigione (il Ghetto), uscendone solo in condizioni eccezionali (le gite di Useppe sulle spalle o sulla moto del fratello), clandestine (i traffici di Nino e dei Mille) o tragiche (le visite di Ida all’ospedale di San Giovanni e alla clinica del quartiere Nomentano che segnano o annunciano la morte dei suoi figli). Ad esempio, è esplicita la descrizione della borgata di Pietralata come luogo di confinamento ai margini della città, lontano dallo sguardo dei protagonisti della Storia:

Pietralata era una zona sterile di campagna all’estrema periferia di Roma, dove il regime fascista aveva istituito qualche anno prima una sorta di villaggio di esclusi, ossia di famiglie povere cacciate via d’autorità dalle loro vecchie residenze nel centro cittadino. Lo stesso regime aveva provveduto frettolosamente a fabbricare per loro, con materiali autarchici, questo nuovo quartiere, composto di alloggi rudimentali fatti in serie, i quali adesso, benché recenti, apparivano già decrepiti e imputriditi.

In questo sistema di segregazioni implicite e concentriche la violenza e la paura dilagano nei mesi dell’occupazione, fiaccando ogni forma di resistenza a favore della paura, della fame e della disperazione:

Si sapeva che, nel sottosuolo della città, agivano piccole squadre ostinate di guerriglieri; ma sull’apatia della folla l’unico effetto delle loro imprese era l’incubo delle rappresaglie che ne seguivano da parte degli occupanti, rapiti nelle convulsioni della propria paura. La popolazione era ammutolita. Le notizie quotidiane delle retate, delle sevizie e dei macelli circolavano per i rioni come echi rantolanti senza risposta possibile.

[…] Le architetture della metropoli «di cui non resterà pietra su pietra» sembravano un panorama di fantasmi. E sui muri, frattanto, di giorno in giorno, si moltiplicavano i rosei manifesti dei padroni della città, con nuovi ordini, tabù e divieti persecutorii, minuziosi fino all’ingenuità nel loro delirio burocratico. Ma alla fine, dentro la città isolata, saccheggiata e stretta d’assedio, la vera padrona era la fame.

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Il valore sempre trasformativo della città (che in quanto manifestazione della Storia è costretta a cambiare continuamente, pena la sua scomparsa) in corrispondenza della guerra segna un’involuzione deformante e infernale. Dietro l’apparente efficienza delle forze occupanti e della loro burocrazia della violenza, Roma perde ogni pretesa di ordine e di funzionalità, la topografia risulta sconvolta, gli spazi impraticabili e ridotti al loro inconcepibile contrario: i quartieri residenziali sono sistematicamente svuotati dei loro abitanti, le scuole adibite a centri di comando militare, i giardini pubblici forniscono pascolo alle bestie scampate dalla campagna devastata, i ponti non servono più a mettere in collegamento ma a dividere e isolare, negli scali merce delle stazioni partono carri bestiame carichi di esseri umani. Di fronte a questa improvvisa mancanza di coerenza fra i luoghi e il loro significato, i protagonisti del romanzo oppongono spontaneamente la radicalità di una coerenza superiore che continua ad accordare l’indicibile e l’incompressibile con un sapere metastorico a cui solo loro sembrano poter attingere («…hai nascosto queste cose ai dotti e ai savi / e le hai rivelate ai piccoli… / … perché così a te piacque» recita in esergo il vangelo di Luca). Ecco spiegato il legame segreto di Ida con il Ghetto che la spinge ad esplorarlo ripetutamente prima e dopo il rastrellamento:

Si sentiva attirata là da un richiamo di dolcezza, quasi come l’odore di una stalla per un vitello, o quello di un suk per un’araba; e insieme da un impulso di necessità ossessiva, come di un pianeta gravitante intorno a una stella.

Riconosceva il richiamo che la tentava laggiù e che stavolta le perveniva come una nenia bassa e sonnolenta, però tale da inghiottire tutti i suoni esterni. I suoi ritmi irresistibili somigliavano a quelli con cui le madri ninnano le creature, o le tribù si chiamano a raccolta per la notte. Nessuno li ha insegnati, stanno già scritti nel seme di tutti i vivi soggetti a morire.

Alla memoria monumentale, gerarchica e precaria della città, la donna oppone la «dolcezza struggente» di una «memoria continua che non le tornava dai tempi, ma da un altro canale» e che le consente l’atroce riconoscimento presso la Stazione Tiburtina, quando assiste alla preparazione del treno che porterà gli ebrei romani nei lager:

L’invisibile vocio si andava avvicinando e cresceva, anche se, in qualche modo, suonava inaccessibile quasi venisse da un luogo isolato e contaminato. Richiamava insieme certi clamori degli asili, dei lazzaretti e dei reclusorii: però tutti rimescolati alla rinfusa, come frantumi buttati dentro la stessa macchina. In fondo alla rampa, su un binario morto rettilineo, stazionava un treno che pareva, a Ida, di lunghezza sterminata. Il vocio veniva di là dentro. […] E Ida riconosceva questo coro confuso. Non meno che le strida quasi indecenti della signora, e che gli accenti sentenziosi del vecchio Di Segni, tutto questo misero vocio dei carri la adescava con una dolcezza struggente, per una memoria continua che non le tornava dai tempi, ma da un altro canale: di là stesso dove la ninnavano le canzoncine calabresi di suo padre, o la poesia anonima della notte avanti, o i bacetti che le bisbigliavano carina carina. Era un punto di riposo che la tirava in basso, nella tana promiscua di un’unica famiglia sterminata.

Questi accenti «sterminati» risultano ulteriormente esasperati nella figura di Useppe, depositario di un perpetuo dialogo con tutte le componenti dell’universo e ignaro dei confini che separano le specie, gli elementi e le unità del tempo. Al bambino, nato e vissuto per buona parte della sua breve esistenza in un regime di segregazione, le fughe cittadine offrono l’occasione per una trasfigurazione immaginifica e splendida dei quartieri romani che riflette, in un individuo privo di qualsiasi coscienza storica, un’ostinata volontà di essere se stesso dentro e insieme a tutte le cose del mondo:

Quel mondo e quella popolazione, poveri, affannosi e deformati dalla smorfia della guerra, si spiegavano agli occhi di Giuseppe come una multipla e unica fantasmagoria, di cui nemmeno una descrizione dell’Alhambra di Granata, o degli orti di Shiraz, né forse perfino del Paradiso Terrestre potrebbe rendere una somiglianza. […] I casamenti popolari, intorno allo spiazzo, nella luce aperta del mattino, essi pure sembravano accendere le loro tinte per uno splendore interno, che li inargentava e li indorava come castelli altissimi. I rari vasi di geranio e di basilico alle finestre erano minuscole costellazioni, che illuminavano l’aria; e la gente vestita di colori era mossa intorno, per lo spiazzo, dallo stesso vento ritmico e grandioso che muove i cerchi celesti, con le loro nubi, i loro soli e le loro lune.

Significativamente, la prima gita fuori casa in compagnia del fratello corrisponde al battesimo del bambino: abituato a misurare la sua connessione con il creato attraverso il potere dei nomi, è in occasione della sua passeggiata inaugurale dentro la città che si autoproclama “Useppe”, storpiatura che diventa affermazione assoluta della propria presenza eccezionale sulla Terra.

Ancora su iniziativa di Nino e della sua prodigiosa motocicletta, il giovane protagonista offre al lettore l’unico squarcio solare sul centro storico, trasfigurato in una carambola di immagini che restituisce vita e colore ai fossili di un passato inaccessibile:

La partenza fu strepitosa; e il viaggio, un vero raid fantascientifico per Useppe! Fecero tutto il Centro Storico, da Piazza Venezia a Piazza del Popolo, e poi a Via Veneto, Villa Borghese, e poi di nuovo indietro Piazza Navona, e il Gianicolo, e San Pietro! […] Useppe non aveva mai conosciuto quei quartieri, che in un ciclone risplendente correvano addosso alla motocicletta di Nino, come a una sonda spaziale lanciata attraverso i pianeti. A voltare gli occhi in alto, si vedevano statue volare con le ali distese fra le cupole e le terrazze, e trascinare i ponti in corsa con le tuniche bianche al vento. E alberi e bandiere giostrare. E personaggi mai visti, sempre di marmo bianco, in forma d’uomo e di donna e d’animale, portare i palazzi, giocare con l’acqua, suonare trombe d’acqua, correre e cavalcare dentro alle fontane e appresso alle colonne. Useppe, proprio ubbriacato dal piacere dell’avventura, accompagnava il tuono del motore con uno scoppiettio continuo di risate.

Infine, è solo in una dimensione alternativa alla città e alla sua Storia che il sentire totalizzante di Useppe può fissare la sua dimora precaria. Per un attimo, nella tenda d’alberi presso San Paolo, lungo la sponda del Tevere, lo sguardo del bambino è libero di esprimere tutto il suo potere epifanico:

Qui la città era finita. Di là, sull’altra riva, si scorgevano ancora fra il verde poche baracche e casupole, che via via si diradavano; ma da questa parte, non c’erano che prati e canneti, senza nessuna costruzione umana.

[…] Era proprio il silenzio, e non altro, che faceva tremare lo spazio, serpeggiando a radice più in fondo del centro infocato della terra, e montando in una tempesta enorme oltre il sereno. Il sereno restava sereno, anzi più abbagliante, e la tempesta era una moltitudine cantante una sola nota (o forse un solo accordo di tre note) uguale a un urlo! Però dentro ci si distinguevano chi sa come, una per una, tutte le voci e le frasi e i discorsi, a migliaia, e a migliaia di migliaia: e le canzonette, e i belati, e il mare, e le sirene d’allarme, e gli spari, e le tossi, e i motori, e i convogli per Auschwitz, e i grilli, e le bombe dirompenti, e il grugnito minimo dell’animaluccio senza coda...

Qui come altrove, il chiarimento delle proprietà percettive di Useppe (ma anche, come si è visto, nella madre Ida), si traducono nella capacità si superare il dato visivo ed entrare in una dimensione ulteriore dell’ascolto, per cui il riconoscimento delle proprietà più remote della natura umana avviene attraverso l’emersione di suoni che si sostituiscono sia ai rumori che alle sembianze della città.

Parallelamente è attraverso l’impasto sonoro che Roma manifesta lentamente la ripresa della vita in tempo di pace, annunciata dalla presenza ricorrente delle radio che dalle finestre aperte accompagnano tutto l’ultimo capitolo («…..1947») con le loro canzonette, i risultati delle partite di calcio o delle estrazioni del lotto. Nel nuovo frastuono si ripopolano i condomini e le osterie, riaprono le scuole, nelle distese incolte si accampano le giostre del Luna Park, eppure si tratta delle pagine più difficili e buie del libro, cornice della tragedia finale che si compie al cospetto di una città tanto più funebre nella sua lenta ripresa, tanto più indifferente verso chi sta per soccombere al destino di tutte le creature.

Accorrendo verso Useppe colpito da un attacco di epilessia, Ida attraversa una Roma senza più connotati («così protesa alla sua direzione impulsiva che il movimento cittadino le fischiava intorno invisibile»), mentre l’ultimo ritorno a casa di madre e figlio chiude fra due anonime corse del tram tutto quello che rimane della loro presenza:

A San Paolo, Ida e Useppe, con qualche aiuto estraneo, furono caricati sul tram, mentre Bella, in grande impegno, correva a piedi dietro il veicolo. Seduta fra la folla nel crepuscolo, Ida ebbe l’impressione che il corpo di Useppe, dormiente sulle sue ginocchia, si fosse fatto ancora più piccolo e minuto. E d’un tratto le si ripresentò alla mente il primo viaggio che aveva fatto con lui sul tram, portandoselo a casa appena nato dal quartiere di San Giovanni, dimora della levatrice Ezechiele.

In séguito, anche il quartiere di San Giovanni, come il quartiere di San Lorenzo e i Quartieri Alti intorno a Via Veneto, le era divenuto un luogo di paura. L’universo s’era andato sempre più restringendo, intorno a Iduzza Ramundo, dai giorni che suo padre le cantava Celeste Aida.

Passati attraverso la città dei morti e dei vivi senza lasciare traccia, Ida e Useppe portano con sé quell’energia sorda e disperata che tiene insieme tutte le sostanze e le idee del mondo, e che racconta oltre ogni crollo, catastrofe e strage quanto nell’essere umano e nelle sue città resta immutabile.

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In occasione dei 50 anni dalla prima pubblicazione del romanzo La Storia di Elsa Morante nel 1974, Biblioteche di Roma e doppiozero propongono dal 24 settembre al 17 dicembre 2024 una nuova rassegna Alfabeto Morante, Lezioni in biblioteca dedicata a una delle autrici più significative del Novecento.

Venerdì 8 novembre ore 11.00 Biblioteca Enzo Tortora
Roma protagonista nel romanzo “La Storia” di Elsa Morante con Francesca Rubini

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