Anne Carson: io è come leghiamo le cose

3 Novembre 2024

Poesia lirica e saggio, saggio e poesia lirica: nella storia della letteratura occidentale sarebbe difficile identificare forme simboliche più diverse, eppure allo stesso tempo così vicine nella loro natura così sfuggente rispetto ai numerosi tentativi e alle continue revisioni di quelle categorie estetico-formali che dovrebbero definire, per il piccolo e per il grande pubblico, ciò che sono la poesia e la saggistica – o quantomeno per provare a delimitarne i confini. Ma anche rimanendo sulla superficie dei generi letterari, se c’è un aspetto che il saggio e la lirica condividono è la presenza, piuttosto ingombrante, di una prima persona singolare dotata di parola, voce e di una determinata visione del mondo. 

In entrambi i casi, se vogliamo ragionare per estremi e in termini binari, a questa persona viene garantita la possibilità di aderire al regime dell’argomentazione (il saggio) o a quello dell’espressione (la poesia) – e in base al tipo di linguaggio e al modo in cui il soggetto utilizza questi gradi libertà, gli può venire assegnata (dall’autore o dal lettore) la patente di saggio o di poesia (lirica). Ma come stanno le cose, oggi? 

Il panorama della poesia contemporanea degli ultimi vent’anni è estremamente variegato, e ampio, proprio per una quantità indefinita di sfaccettature locali – si pensi, in Italia, alla tutt’altro che risolta divisione tra poesia e poesia di ricerca – che rendono arduo qualunque tentativo di comparazione formale – Jonathan Culler, per esempio, in Theory of the Lyric (2015), non dice quasi nulla di quello che accade oggi, fermandosi grosso modo alla morte di Dylan Thomas (†1953). Insomma, diversamente dal romanzo, per il quale esistono libri piuttosto definitivi sulla sua genesi ed evoluzione (cfr. Il romanzo, in cinque volumi, a cura di Franco Moretti per Einaudi), il verso sembra essere ancora evanescente, quasi insofferente a una mappatura per costanti e varianti; e oggi, più che mai, tende ad assumere posizioni sempre più liquide che ammiccano alla prosa, ma senza essere del tutto narrativa, e alla poesia, ma senza essere del tutto lirica.

In questo spazio letterario, l’ultimo libro di Anne Carson, Wrong Norma, uscito per le edizioni New Directions nel febbraio del 2024, cerca di fare i conti con questa complessità (di tradizione, di forme, di generi, e di genere), solidificando ulteriormente quella radical unboundedness che caratterizza fin dai suoi primi esordi lo stile della scrittrice canadese, a tal punto che il soggetto di enunciazione di Wrong Norma (“Adesso sto scrivendo io, lei sarebbe in grado di dirlo”, “Now I’m writing, she would be able to say”, p. 43; il corsivo è nostro) parla del proprio desiderio creativo, e mai del tutto realizzato, di scrivere “un particolare tipo di romanzo” (p. 43).

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Wrong Norma è, nominalmente e operativamente, uno ‘strumento’ (legge, regola, o facendo un calco dal latino: una norma), ‘sbagliato’, ma anche una “Norma Desmond sbagliata, che cosa potrebbe essere più sbagliato di questo? Ha la mia stessa età, questo relitto umano con il mento che cade a pezzi” (“wrong Norma Desmond, what could be more wrong she’s the same age as me this tilted wreck with deliquescent chin”, p. 191): l’io (una persona: una maschera che cerca la propria identità), quel self che vince in ogni caso (wins anyway), è la Norma sbagliata (l’attrice Gloria Swanson nel fim Sunset Boulevard di Billy Wilder), com’era sbagliata anche la Norma Jeane Baker of Troy (2019), una Elena euripidea contemporanea, nella riscrittura teatrale di Carson, dove l’anonimo sceneggiatore della pièce non riesce più a distinguere tra Norma Jeane, Elena, Marylin Monroe e Persefone. 

Ma chi è, allora, questo io, fatto di personae, maschere e personaggi, che vince sopra ogni cosa?

Diviso in venticinque capitoli, il libro si apre all’insegna di un apparente principio di identità (1=1) e si chiude intorno al testo eponimo della raccolta con una dichiarazione di intenti fallimentare (“sono al sicuro ma per quanto ancora?”, p. 191), che in un certo senso risponde all’interrogativo iniziale: “Cosa significa, fallire?” (p. 9). Inoltre, ogni capitolo è seguito, o sospeso, da un collage, un’immagine, oppure da un disegno a gessetti – nessuno dei quali è segnalato nell’indice – che svolgono una funzione di trait d’union tra le singole parti, benché l’autrice neghi di aver dato un’unità formale all’insieme (cfr. il capitolo What to Say of Enirety, p. 175): nella quarta di copertina, Carson, firmandosi con nome e cognome, descrive Wrong Norma come una sorta di “raccolta di scritti su diverse cose, come Joseph Conrad, Guantanàmo, Flaubert, la neve, la povertà, il Thesaurus di Roget, mio papà, sabato sera. Questi pezzi non sono legati tra loro. E proprio per questo li ho chiamati sbaglati”. 

Molto distante, dunque, dagli esiti post-petrarchisti della lirica italiana (il macrotesto, l’unità formale del libro di poesia), e più vicino invece a un Versucht (un tentativo, inteso come l’esito ultimo di una ricerca cominciata da lontano), Wrong Norma sembra comunque aderire maggiormente al discorso lirico, e non a quello saggistico, per l’uso di un linguaggio figurale e autoreferenziale (“Mein Herz ist schwimmt in Zeit. / My heart is swimmed in time. / This sentence seems to me an example of accuracy”; “Mein Herz ist schwimmt in Zeit. / Il mio cuore è immerso nel tempo. / Questa frase mi sembra un esempio di accuratezza”, p. 150), e dominato per lunghi tratti da un’ambiguità sintattica e semantica (“evita la vergogna. Io sono confusa. La vergogna è confusa”, p. 110); per l’assenza di una narrazione o di un’argomentazione complessiva (non c’è un vero e proprio argument nel libro, né tantomeno una storia da seguire linearmente); e, infine, per la creazione di un’identità poetica instabile, che si muove costantemente dall’io (I) al lei (she), per passare poi al tu (you) e al loro (they), senza soluzione di continuità. Insomma, un lyric essay (saggio lirico?) come qualcuno aveva già provato ad azzardare per il Glass-Essay (1995) di Carson 

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Ciononostante, il libro è, in fin dei conti, una lunga prosa intervallata, irregolarmente, da versi (di Carson, oppure da riscritture dell’autrice di Ipponatte, Platone e Omero, di Hölderlin e di Ashbery), dialoghi (tra il cielo e Godot, Virginia Woolf, Marcel Proust, Pascal, Rig Veda), immagini e disegni, e da riflessioni / divagazioni linguistiche intorno alla lingua greca (due parole chiave, tra le molte a disposizione: φαρμακός e μίασμα), senza che l’insieme di queste forme verbali segua un ordine logico fisso e pre-definito (per esempio, alle soglie del testo, il libro presenta una seconda copertina, e i capitoli, nell’indice, non sono numerati). Del resto, la stessa Carson aveva ribadito, in un’intervista del 2013, che “le cose che pensi di poter collegare in realtà non sono sotto il tuo controllo […]. È solo ciò che sei, ciò che si scontra nel mondo. Ma il modo in cui le colleghi è ciò che mostra la natura della tua mente. L’individualità risiede nel modo in cui vengono creati i collegamenti” (Sam Anderson The Inscrutable Brilliance of Anne Carson. «New York Times», 14 marzo 2013).

Muovendosi progressivamente da un principio di non-contraddizione (A=A) alla presa di coscienza che tutto, ogni aspetto della vita, è wrong, Carson tenta di controllare la (propria) realtà attraverso l’uso di un linguaggio che potremmo definire positivo – nel senso di ciò che è posto (positum): la legge, la regola e la norma sono il primo segno del sopravvento della cultura sulla natura; o se vogliamo rimanere nell’ambito di ricerca di Anne Carson (la classicità e le sue modalità di ricezione), la legge, la regola e la norma esprimono l’uscita dalla sfera titanica (irrazionale, pre-logica, naturale) e l’avvento del nume apollineo (la legge, la ragione, il controllo, la cultura). 

Un’ulteriore spia di questa postura è ravvisabile sopra il testo della quarta di copertina, dove Carson ha posto uno dei molti disegni che accompagnano la successione (in)transitiva dei capitoli: “Do not walk backwards, that is how the dead go” (“Non camminare all’indietro, è così che camminano i morti”), due versi (o due periodi sintattici, a seconda del punto di vista che vogliamo adottare: poesia o prosa) che, se seguiamo la simmetria dei colori dell’immagine (rispettivamente, giallo e ocra), possono essere letti separatamente dall’alto verso il basso (“non camminare / è così che si fa”, “all’indietro / i morti vanno”; “Do not walk / that is how”, “backwards, the dead go”). Quale che sia lettura (corretta o wrong, ma non è nemmeno detto che Wrong Norma sia solo un libro da leggere, ma piuttosto da guardare), il distico ricalca una delle sue prose liriche più belle di Carson, On Walking Backwards (1995), dedicata alla madre (che sarebbe morta due anni più tardi): “Mia madre ci proibiva di camminare all'indietro. È così che camminano i morti, diceva. Ma da dove aveva preso questa idea? Forse da una cattiva traduzione. I morti, dopotutto, non camminano all’indietro, ma camminano dietro di noi. Non hanno polmoni, ma vorrebbero tanto che ci voltassimo. Sono vittime dell’amore, la maggior parte di loro”, p. 36). 

Nella Norma del 2024, tuttavia, non c’è più spazio per i genitori (“Let’s review the facts, my facts. Mother and father gone”; “Facciamo il punto della situazione. Mio madre e mio madre se ne sono andati”, p. 138), il cui vuoto emotivo e relazionale viene sostituito dalla traduzione – ma anche in questo caso si tratta di un meccanismo sbagliato (wrong): se, infatti, tradurre correttamente un testo significa guardare al futuro (cioè ai propri lettori), tradurre male, in Carson, significa camminare all’indietro (walking backwards), cioè fare come i morti, coloro ai quali questi frammenti testuali sono rivolti, e a cui anche l’io della raccolta sembra voler appartenere (“Per una creatura mortale la morte è istantanea: un minuto sei vivo, quello dopo sei morto. Ma per una creatura che esiste (come me) fuori dal tempo, la morte non ha un istante”, p. 63).

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La poesia e la prosa, o meglio: la scrittura, in questa commistione di intenti e di posture, è equiparabile al movimento di una volpe (ma anche a quello dell’acqua: “il nostro moto affonda dentro e fuori a ogni colpo”, p. 9): “pensi [alla scrittura] come qualcosa che arriva nella mente, e poi viene affrontata, se è interessante. È come seguire qualcosa, come una volpe che corre attraverso il tuo cortile, e tu decidi di seguirla per vedere se riesci ad arrivare dove vive la volpe. [Scrivere] significa solamente seguire una traccia” (Kate Dwyer, Throwing Yourself into the Dark. A Conversation with Anne Carson, «The Paris Review»). Non a caso, nella copertina del libro compare una volpe, sfumata nei contorni, ma umanizzata nelle forme (le zampe anteriori assomigliano a due braccia ricoperte da dei lunghi guanti di seta nera); e sebbene nella seconda copertina sia assente, la volpe sembra essere comunque rievocata dal colore arancione che fa da sfondo al libro e dal colore rosso del titolo (uno dei quali è capovolto). 

Dis-ordine, errori, dissolvenza, disambiguità: la metamorfosi pronominale del soggetto e del suo mondo procede con un moto irregolare, seguendo un istinto animale (la volpe è predatore ma anche preda) alla ricerca di orizzonte di senso che è destinato a perdersi tra la lingua (dell’autrice) e il linguaggio (della letteratura), con la piena consapevolezza che ogni tentativo di ricostruzione di senso è wrong. È per questo, forse, che nonostante il mezzo scelto sia la prosa, in Wrong Norma Carson costruisce un immaginario lirico attorno alla parola, proprio perché, citando Lacan, “il motivo per cui ci rivolgiamo alla poesia non è per la saggezza, ma per il suo smantellamento” (in Will Aitken, Anne Carson. The Art of Poetry, an Interview. «The Paris Review», LXXXVIII, 171). 

Non si tratta, come potrebbe sembrare di primo acchito, di una piega nichilistica (inusuale, tra l’altro, in Carson), bensì di una radicale riformulazione del proprio sistema di pensiero; la letteratura è, in tutte le sue forme, immaginazione, e non (più) conoscenza, come sembrava potesse essere nel romanzo in versi Autobiography of Red (1998, Trad. it. Autobiografia del rosso, La nave di Teseo, 2020). E se le tracce di questo nuovo arrivo erano già presenti nei meccanismi di dis-identificazione dell’io in Conrad (pp. 16-22) e Flaubert (pp. 43-52), oppure nei diversi gradi di rappresentazione della notte (pp. 89-100) e del viaggio (pp. 135-150), è nella decostruzione della scrittura (e della poesia) in Todtnauberg (penultimo testo della raccolta), che l’io lirico e l’io saggistico di Wrong Norma coincidono.

L’aneddoto è noto, e ampiamente studiato (da Gadamer e Derrida, per esempio), ma in fin dei conti nessuno sa davvero cosa si siano detti Martin Heidegger e Paul Celan nella Hütte del filosofo tedesco a Todtnauberg (la “montagna della morte”) il 25 luglio del 1967. Sappiamo, però, che Celan scrisse la poesia Todtnauberg dopo quell’incontro. 

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Prima di congedarsi, dal libro e dai suoi errori, Carson ci offre, probabilmente, uno dei suoi testi migliori: una serie di immagini intorno all’oscurità (etica) di questo incontro, già uscite con il titolo Comic / Todtnauberg nel giugno del 2021 per «Jewish Currents», ma che ora, nell’economia del libro (la legge e la natura, la norma e l’errore), assumono tutt’altro significato. Di questo evento privato (“che altro sia accaduto tra di loro, è ignoto”), Carson restituisce stilisticamente la dimensione paratattica del testo di Celan (e, forse, di quel incontro pieno di attrito statico) attraverso un collage di disegni e didascalie puramente descrittive; le pagine, infatti, non sono numerate; ogni disegno, tra l’infantile e il surreale, riporta unicamente le azioni, fatte o subite, da Celan (“è venuto fin lassù”, “è andato avanti”, “ha provato vergogna”, “ha preso il suo carrello e se n’è andato”; “he came up”, “he came on”, “he felt ashamed”, “loaded his cart and started back down”) e Heidegger (“il filosofo non provava vergona”, “the philosopher was unashemed”), o da entrambi (“fecero due passi insieme”, “they went for a walk”), o dal/del mondo esterno ( “snow blinding them both”, “death was dressed and ready”; “la neve li stava accecando entrambi”, “la morte era vestita e pronta”). 

In questa sequenza di icone e di testi, l’ignoto (o la fine) diventa puro linguaggio (verbale o visivo), e l’inverosimile, di cui questo incontro è (stato) cifra e misura, può essere solamente immaginato – altrimenti, l’io, insieme alla realtà e al suo mondo, sarebbe destinato ad affogare (to sink) e a fallire (to fail), per usare i due verbi privilegiati da Carson per descrivere l’identità, di fronte al desiderio di poter far aderire le parole alle cose. Se, allora, parafrasando W.H Auden, la poesia lirica può fare ancora qualcosa, è proprio questo: restituire alla parola il suo potere immaginativo.

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