Stranger Things. Fuori dal blu e dentro al nero

27 Luglio 2016

Deve essere questo che intendiamo quando parliamo della persistenza del ricordo, questo o qualcosa di molto simile, qualcosa che si vede al momento giusto e dall'angolazione giusta, un'immagine che fa erompere un'emozione sconvolgente. Ti si presenta così nitida che tutto quello che è avvenuto nel frattempo scompare. Se il desiderio è l'anello che chiude il circolo fra il reale e l'agognato, allora il circolo si è chiuso.

Stephen King, IT

 

Stranger Things, la serie tv disponibile su Netflix dal 15 luglio scorso, sembra essere diventata il nuovo fenomeno virale che promette di far parlare di sé ancora per molto tempo. 

Se il lancio sulla piattaforma Netflix le ha garantito un'immediata notorietà, è stata la dinamica del “passaparola” tipica dei social network ad assicurarle un cospicuo numero di visioni durante i dieci giorni appena trascorsi. I dialoghi del chief Hopper e della sua segretaria, le biciclette lasciate nell'erba, i ragazzini con gli occhiali molto grandi e orrendi tagli di capelli sono già stati trasformati e ridotti in gif, meme e screenshots, assicurando a Stranger Things lo statuto di serie di culto al pari di Mad Men e Breaking Bad.

 

Nei giorni appena trascorsi ho letto articoli, commenti e recensioni che parlavano entusiasticamente del lavoro di Matt e Ross Duffer e la cosa che mi ha colpito di più è stata l'ondata di film, di canzoni, di pettinature, di gesti ogni volta citati nello spazio di duemila battute. È come se si volesse far partire un motore di una macchina (una DeLorean DMC-12?) lasciata spenta in un garage per troppo tempo. I Goonies, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Nightmare, Stand by Me, Blow Out, La casa, Fog, le commedie di John Hughes, X-Files e il videogioco Silent Hill; il travestimento da E.T., le creature senza volto di Alien e Predator, le pareti distese di Videodrome, il taglio di capelli di Domique Dunne in Poltergeist e quello di Karen Allen in Starman, i poteri paranormali di Carrie, i litigi di Essi vivono e il tradimento di Lando ne L'impero colpisce ancora. E poi ci sono i pezzi (tutti diegetici) dei Clash, dei Seeds e dei Joy Division a dare forma alla tracklist perfetta di una MC che sicuramente avremmo avuto anche noi, se fossimo stati abbastanza adulti da possedere un'auto e uno stereo (ora però possiamo ascoltarla su Spotify).

 

 

Sembra di essere davanti a quei giochi che si trovano sulla Settimana Enigmistica, del genere “Unisci i puntini”: i fratelli Duffer elaborano un disegno, la costellazione di un immaginario; e giocano subito a carte scoperte, fin dalle prime fotografie uscite in maggio, oppure dalla presentazione del trailer caricato su Youtube lo scorso giugno, dove la serie viene presentata come «A love letter to the supernatural classics of the 80's». È un ricorso alla nostalgia e al vintage che conosciamo bene, una sorta di super riciclo post-postmoderno. Ci ricordiamo tutti di Super 8, diretto da J.J. Abrams, prodotto da Steven Spielberg e uscito ormai cinque anni fa: è un “film con i ragazzini” dove i “bad people” ritrovano la connotazione classica nel volto spietato della Polizia Federale e il mostro dichiara la sua presenza nella realtà causando una sorta di confusione elettro-visiva. Non è soltanto una questione di trama e di simbologie. Se prendiamo il trailer del film di Abrams e lo confrontiamo con quello di Stranger Things, non possiamo fare a meno di notare che gli sguardi dei ragazzini – animati dall'incertezza, dal dubbio, del rischio assoluto – siano esattamente gli stessi. Con Super 8, Stranger Things condivide una dichiarazione d'intenti: entrambi cercano di costruire un congegno efficacissimo e tremendamente preciso di rimandi che, come scatole cinesi, si aprono uno dopo l'altro, scatenando l'immediato riconoscimento, l'individuazione di un'inquadratura, il ricordo di una immedesimazione con un personaggio.

 

A questo punto, però, dobbiamo fare un passo indietro: alla sigla iniziale della serie, alle lettere che compongono il titolo della serie. Quel particolare font, l'hanno già detto in molti, ci fa immediatamente pensare a Stephen King.

 

 

Le strizzate d'occhio al mondo dello scrittore americano risultano evidenti anche a chi non abbia mai letto alcuna delle sue opere: la suddivisione in capitoli, l'ambientazione provinciale, il “club dei perdenti”, le regole da rispettare una volta entrati nel club, i teppisti nascosti dietro i tronchi d'albero... C'è anche un mostro che sta aspettando da qualche parte, magari fra le pieghe di un muro o nello scarico del lavandino, assetato di sangue – meglio se di bambini con impermeabili gialli e stivaletti rossi. La vicinanza fra IT, forse il più famoso romanzo di King, e Stranger Things, però, è più profonda.

 

Conosciamo Mike, Will, Lucas e Dustin nella cantina della famiglia Wheeler, dove li vediamo sfidarsi a Dungeons & Dragons. Tirando il dado senza riuscire a sconfiggere il Demogorgone, Will sparisce senza lasciare traccia. Proprio come in IT, i personaggi si trovano quindi di fronte a quello che King descrive come «uno spazio di tenebra assoluta dove la tenebra era tutto, la tenebra era il cosmo e l'universo, e dove il fondo della tenebra era duro solido, una lastra levigata di ebanite». I bambini provano a mettersi in contatto con Will, a volte ci riescono, altre volte commettono errori, altre volte rischiano di dividersi fra loro e indebolirsi.

 

Tuttavia, se il mostro di IT è spaventoso perché è in grado di assumere qualsiasi forma (dal clown al vampiro, dal lebbroso al ragno), il Demogorgone di Stranger Things è soltanto un effetto speciale di bassa lega: uno spauracchio per bambini, un babau che si nasconde malamente sotto i letti e che non spaventa nessuno.

 

Stranger Things non si limita a citare e omaggiare, è anche ideologicamente ricalcato su quel cinema rassicurante e fiabesco degli anni Ottanta, dove il male è incarnato da mostri e da oscure agenzie governative, e dove i ragazzini hanno il potere di trionfare su di esso, mantenendo una purezza che i “Natural Born Killers” degli anni Novanta spazzeranno via senza pietà. «Io sono il mostro», dice Eleven (Millie Bobby Brown), la ragazzina taciturna che, durante un'esercitazione messa in atto dal Governo per contrastare i sovietici, apre lo squarcio con l'altro mondo. Ma non è così: qui il mostro è ancora fuori da noi. Il massacro alla Columbine High School è ancora di là da venire (al massimo vediamo i quattro nerd scontrarsi con qualche teppista), e il mostro rimane soltanto un escamotage narrativo, persino abusato, che amiamo ritrovare. Non a caso, una delle più raffinate citazioni dell’universo kinghiano di Stranger Things si trova nel quarto episodio, nel quale un poliziotto tiene in mano Cujo: proprio il libro in cui King dichiara, testualmente, che «i mostri non muoiono mai».

 

 

 

Come IT, anche la vicenda di Stranger Things finisce nello stesso modo in cui è incominciata, con una partita a D&D. Mike, Lucas, Dustin e Will esultano: hanno portato a termine una campagna dalla durata di dieci ore. Tutto sembra acquisire la forma di un bel libro, di cui dopo un po' si perdono i dettagli, le linee, i contorni... Ovviamente un bel libro si può riprendere sempre in mano, e anche narrazioni che ci possono sembrare molto simili (come certe campagne di D&D) hanno risvolti inaspettati.

 

Forse è un po' per questo che nei dieci giorni appena trascorsi ci siamo messi a guardare Stranger Things: ci riportano immediatamente a pensare, come ancora scrive King in IT, quanto «è bello essere bambini ma è anche bello essere adulti ed essere capaci di riflettere sul mistero dell'infanzia... sulle sue credenze e i suoi desideri». Non tanto tempo fa, un avventuriero spaziale aveva detto a un wookie peloso che era un po' come sentirsi a casa.

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