Roger Corman: il cinema è una partita a poker

15 Maggio 2024

Una volta Roger Corman diede questo consiglio a un giovane regista che aveva appena assunto: 

“Quello che conta in un film è avere un’ottima prima mezz’ora perché la gente vuole capire bene quello che sta succedendo. Non dimenticare che poi dovrai avere anche una finale molto buono perché gli spettatori vogliono sapere come va a finire. Tutto il resto non conta”. Molti anni dopo, Martin Scorsese (questo il nome del giovane regista) ha ammesso che quello era il miglior consiglio che si potesse ricevere. 

In oltre sessant'anni di attività ininterrotta, Corman, morto il 9 maggio a novantotto anni, ha creato un gigantesco corpus di opere che supera di gran lunga in quantità le filmografie di John Ford, Orson Welles e Alfred Hitchcock. Come regista e produttore, negli anni Cinquanta e Sessanta, realizza più film all’anno di qualsiasi altro collega. È una vera macchina da guerra Corman, non riesce proprio a stare fermo. Scrive i suoi film, li gira, fa i casting nelle pause pranzo, monta di notte. Del resto non c’è mica il tempo per dormire, oppure “bisogna farlo in fretta perché, se fai il regista, alle 6 del mattino sei già in piedi”. Un workaholic, diremmo oggi. 

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Nato nel 1926 a Detroit, la capitale americana dell’industria automobilistica, subito dopo essersi laureato in ingegneria industriale capisce che la termodinamica e l’elettronica non fanno per lui (gli saranno servite per la sceneggiatura di L'uomo dagli occhi a raggi X?); e così, dopo quattro “lunghissimi” giorni alla General Motors, decide di licenziarsi: “Non sta andando bene. Me ne vado”, dice a una sua collega più giovane delle risorse umane. Vuole dedicarsi al cinema: ne sa poco, ma non gli importa perché lo ha sempre affascinato. “Se avessi frequentato una scuola, non avrei avuto bisogno di dirigere tanti film banali”. È proprio da questo tipo di dichiarazioni che possiamo facilmente intuire la fisionomia di un regista astuto, forse un tantino malizioso, che non aveva bisogno di tante lezioni perché il cinema si studia solamente facendolo, travalicando generi differenti, dal western all’horror, dal road movie al drug movie, dal gangster al kolossal. Tutto gli interessa: le avventure di un mostro di 120 chili, di un criminale assetato di sangue o di uno studente che viene travolto dal rock ‘n’ roll.

Prima di realizzare Le donne della palude (nella classifica dei cinquanta film più brutti di tutti i tempi) e Cinque colpi di pistola fa un viaggio in Europa, passando anche da Oxford,  dove frequenta i corsi di letteratura per un semestre. Il padre ingegnere non deve essere molto contento di questo cambio di passo, in famiglia tutti lavorano e, anche se nel 1940 si sono trasferiti a Beverly Hills, “la loro casa non è nella zona ricca”: spesso si fanno discorsi apprensivi sui soldi, sul risparmio, sugli amici che hanno perso tutto.

Quando torna dall’Inghilterra, Corman fa un po’ tutto quello che capita: il macchinista per la televisione, il produttore associato, addirittura l’agente letterario. Capisce subito che lavorare a Hollywood è come una partita a poker: da un lavoro precedente guadagna 2000 dollari che decide di impiegare per produrre il suo primo film, G-Men della Quinta strada di Irvin Kershner. È una faccenda costosa, il denaro non basta e, chiedendo prestiti a destra e a manca, tira su 12.000 dollari. Il film è un vero successo, ma per rimanere nello stesso campionato bisogna improvvisare, e Corman decide di investire tutto quello che ha in altre produzioni. Tutti fallimenti: suo fratello Gene dirà che è stato il più grande errore della sua carriera. Lavorare per il mercato dell’exploitation gli permette di realizzare tantissimi film di serie E (quasi una dozzina nel biennio 1956-57) solo con lo scopo di attirare giovani nei drive-in (“il modo peggiore di vedere un film”) e poter fare altri soldi e, nel contempo, perfezionare il suo modo di fare cinema. 

Prova a mescolare cifre e generi differenti, si iscrive a un corso di recitazione per lavorare meglio con gli attori, sperimenta effetti speciali, alcuni molto grossolani. Scopre autori, alcuni si laureano a quella che lui ama chiamare la “Corman School”. A volte dice ai ragazzi che iniziano a lavorare con lui: “Se lavori bene, questo è l’ultimo film che farai con me”; ma alla fine tutti rimangono affezionati a lui, basta leggere tutti i coccodrilli di questi giorni. I primi “laureati” sono, oltre a Scorsese, Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola e Jonathan Demme (gli ultimi due chiameranno il vecchio mentore per due piccoli ruoli, rispettivamente in Il padrino - Parte II e in Il silenzio degli innocenti); ma sono centinaia le persone che hanno fatto carriera nel mondo del cinema grazie a Corman. 

“Il poker è un gioco basato sulla resistenza”, dice Nashe, protagonista di La musica del caso di Paul Auster, quindi bisogna essere furbi. Corman, che ha solo tre anni quando nel 1929 il mercato finanziario crolla, trascorre la giovinezza con i patemi generati dal periodo della Grande Depressione. La cosa che gli riesce meglio è risparmiare, sa che carta giocare e quando farlo. Riceve una proposta dalla sua casa di produzione per girare un film horror. Siamo nel 1959 e sul tavolo ci sono 50.000 dollari. Gira Un secchio di sangue in meno di una settimana. Con i ricavi realizza La piccola bottega degli orrori su un set diverso solo per battere il suo record di velocità: ci mette 48 ore. La creatura del mare fantasma conta sei giorni di riprese per un totale di circa due settimane di lavoro. 

Corman lavora su un genere inedito, mettendo insieme lo humor con l’horror, dando vita a una trilogia black comedy che solo in apparenza sembra cucire insieme tre film sbilenchi in bianco e nero, caotici e completamente fuori di testa. O meglio, questi film sono tutte queste cose insieme ma governati da un senso profondo di stile: tagli veloci e movimenti di macchina fluidi e profondità di campo.  Non si tratta di ricerca estetica, ma di una tendenza funzionale all’economia strategica del film. 

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Corman e Vincent Price sul set di I vivi e i morti.

E le trame? Sono stravaganti, esili, spesso costruite su premesse raccapriccianti. Per farsi venire le idee, Corman rischia di finire in una rissa insieme al suo sceneggiatore Chuck Griffith da Chez Paulette a Los Angeles. Non ricordano tanto bene le motivazioni dello scontro ma, a livello di brainstorming, la serata è proficua, hanno un sacco di idee: prima iniziano a scrivere di un cuoco omicida, poi si concentrano su un manipolo di killer cannibali “ma con la censura non sarebbe stato facile”, alla fine pensano a una pianta assassina. Tutto nel suo cinema deve sembrare sporco, impiastricciato, il sangue ha la consistenza della marmellata di fragole. Nessun alone romantico, ralenti, sfocature. Corman non concede nulla allo spettatore, la satira che mette in scena è crudele, primitiva. Le black comedy apriranno la strada al ciclo di sette film adattati dai racconti macabri di Edgar Allan Poe, specie quelli che ha adorato da bambino. Si appassiona alla psicoanalisi freudiana e lo incuriosisce molto un libro di uno psichiatra che analizza il legame tra umorismo e orrore. Fissa un appuntamento, la seduta costa 100 dollari. Vuole smettere di girare horror in bianco e nero: “Quello che mi piacerebbe davvero fare è un film horror a colori, un classico della letteratura in CinemaScope”. Girerà I vivi e i morti (fuorviante titolo italiano per House of Usher), Il pozzo e il pendolo, Sepolto vivo (da La sepoltura prematura), I racconti del terrore (che mescola Morella, Il barile di Amontillado, Il gatto nero e La verità sul caso Valdemar), I maghi del terrore (altro titolo fantasioso per The Raven), La maschera della morte rossa, La tomba di Ligeia; a questi va aggiunto La vergine di cera, che non è direttamente ispirato a Poe, ma risente delle stesse atmosfere.

Attraverso l’opera di Poe, Corman ricorre alla sua abilità prodigiosa nel comporre raffigurazioni demoniache e deliranti attraverso simbolismi esibiti. È una strana dialettica la sua, solo D.W. Griffith era riuscito a coglierla a pieno fino a quel momento: lo scrittore americano si ingegna sempre a cercare di offrire motivazioni razionali e critiche al terrore, cercando di rendere accettabile ogni spaventosa illusione (pensiamo ad esempio a Il barile di Amontillado). Corman prova a restituire allo spettatore questa struttura razionale del racconto aggiungendo in ogni sequenza un trucco diverso: una vera e propria “discesa nel Maelström” ricchissima di filtri, gel colorati, inquadrature opache oppure sovrapposte, draghi, uccelli, maschere rosso sangue, soffitti che crollano, bare, fuochi, catastrofi… e cadaveri, molti cadaveri. Poi, improvvisamente, tutto scompare, gli artifici lasciano spazio a una dialettica iperrealista, a una messa in scena della morte in technicolor: la stessa del Barone Rosso, girato qualche anno più tardi. 

Il pozzo e il pendolo

Non c’è aldilà che tenga, esiste solo il destino degli uomini inseriti in un contesto sociale e politico ben preciso. “A differenza di Polanski, Corman crede al diavolo”, scriveva Giuseppe Turroni, in assoluto uno dei nostri maggiori critici cinematografici. Un diavolo a cui viene tolta la maschera e strappato il costume per farci rendere conto che i mostri, i selvaggi, “siamo noi”.

Ed è proprio per questo motivo che i diavoli nel cinema di Corman sono tantissimi. Ci sono i demoni outsider incontrati a Los Angeles, conosciuti per le loro imprese squallide e singolari a cui dedicherà I selvaggi, nel momento in cui Hollywood non gli interessa più. Si tratta di una storia su un gruppo di persone quasi analfabete che hanno abbandonato la scuola superiore per vivere di espedienti. C’è chi fa piccole rapine, chi scrocca, chi si trova una ragazza per fare truffe e vivere insieme “quasi onestamente”. Del resto, meglio così “che fare un lavoro di merda per tutta la vita”. È un film spietato. I colori sono tetri, lividi: puro espressionismo visivo. Questi vampiri su quattro ruote (Peter Fonda non si toglie mai gli occhiali wayfarer, come se il sole del deserto lo potesse sciogliere), vivono ai confini della civiltà. Sono fantasmi veri, palpabili, l’esatta proiezione della nostra sensibilità malata, della corsa per nasconderci da noi stessi. 

Ma non basta. I mostri devono essere più reali del reale stesso. Con Il massacro del giorno di San Valentino, Corman ricorre alle vecchie foto di cronaca, tanto amate da alcuni registi del passato come Elia Kazan, Jules Dassin e Henry Hathaway. Il film è privo di fede, di speranza, di lotta solo come le vecchie fotografie degli anni Trenta sanno essere. Il malessere non è solo nel contesto, nella miseria di quegli interni fotografati. Ha un’affezione ferina che si trasferisce nell’epidermide dei personaggi: Al Capone – Corman avrebbe voluto Welles ad interpretarlo – è descritto come “uno che morirà consumato dalla sifilide”. Sembra di leggere un racconto di uno scrittore tardoromantico. 

Il cinema di Roger Corman ha un rigore e un temperamento quasi religiosi. La sua carriera ricorda un tuffo, una frase pronunciata allo sbaraglio, molte mani fortunate al poker. Quello che ci rimane sono decine e decine di film che ci fanno vedere chiaro nella realtà e nella sua storia, ma soprattutto nella profonda essenza del cinema. 

In copertina: Roger Corman nel 2016 al Festival di Locarno.

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