Svegliarsi dall’Ipnocrazia
Finalmente qualcuno che non si lamenta, che non è terrorizzato dall’intelligenza artificiale, che non teme che il primato umano venga scalzato. Non se ne può più di questa ininterrotta rimostranza contro il mondo così com’è, una rimostranza che è ancora più stucchevole di quella contro il narcisismo. Si chiama Jianwei Xun, è nato ad Hong Kong, teorico dei media. Ha scritto Ipnocrazia. Trump, Musk e la nuova architettura della realtà (Tlon, 2025). Descrive il mondo in cui viviamo, in cui in effetti viviamo già da tempo, ma che appare ora in tutta la sua potenza (giusto un esempio: Robert Kennedy junior, che Trump propone per la carica di segretario alla Salute degli Stati Uniti, nel passato avrebbe detto che “l'esposizione ai pesticidi causa la transessualità nei bambini”). La tesi di Ipnocrazia non è propriamente originale (per molti aspetti è la versione postmoderna dell’Uomo ad una dimensione, di Herbert Marcuse, per non parlare degli uomini imprigionati nella caverna di cui parla Platone nella Repubblica), e tuttavia si tratta di un libro onesto, immediato, che non si racconta storie (forse la moda recente per pensatori che vengono dall’oriente è dovuta al fatto che, provenendo da un modo culturale completamente diverso da quello occidentale, possono ‘scoprire’ con candore cose che nel ‘vecchio’ mondo sono state scoperte da millenni, e che proprio per questo sono state dimenticate). Il mondo è questo, e per una volta si parla di un mondo che più o meno è lo stesso, o almeno si avvia ad esserlo, dovunque.
L’ipnocrazia è il regime corporeo e cognitivo del nostro tempo, “il primo regime che opera direttamente sulla coscienza. Non controlla i corpi. Non reprime i pensieri. Induce, piuttosto, uno stato alterato di coscienza permanente. Un sonno lucido. Una trance funzionale. La veglia, infatti, è stata sostituita da un sogno guidato. La realtà da una suggestione continua. L’attenzione viene modulata come un’onda. Gli stati emotivi vengono indotti e manipolati. E così la suggestione si ripete, instancabile, e la realtà si dissolve in molteplici sogni guidati. Il pensiero critico viene dolcemente addormentato e la percezione viene rimodellata, strato dopo strato” (p. 11). Non è che non ci sia spazio per il pensiero critico, è che questo tipo di pensiero per funzionare deve presupporre che esista una verità intersoggettiva su cui tutti, almeno in linea di principio, possano – se sono appunto disposti a lasciarsi convincere dalla verità ‘oggettiva’ – concordare: ma è proprio il presupposto che esista una verità ‘oggettiva’ – o che i fatti siano separati dai discorsi di cui sono intessuti (il postmoderno non solo non è mai finito, ma mai come nel nostro tempo è vitale e pervasivo) – che nel regime ipnocratico è venuto meno. Prendiamo il caso del cosiddetto fact-checking, l’illusorio antidoto contro l’invadenza delle fake-news: il fact-checking “opera secondo il presupposto che le persone siano semplicemente disinformate e che l’esposizione alle informazioni ‘corrette’ cambierà le loro convinzioni. Ma con ciò si fraintende come funziona la verità nell’era dell’Ipnocrazia. Le persone non stanno scegliendo informazioni false rispetto a quelle vere; stanno abitando sistemi di realtà completamente differenti” (p. 73). Potremmo considerarlo l’assioma fondamentale del regime ipnocratico: non c’è il mondo, esistono tanti mondi, ognuno con un suo specifico regime di verità e di falsità, con i suoi esperti e i suoi canali informativi; per questo “la realtà si è rotta in mille realtà” (p. 12).
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Particolarmente interessante, a questo riguardo, il capitolo dedicato al cosiddetto esperimento di Berlino, ideato, così scrive Jianwei Xun, da un certo “Marcus Heidemann”, un esperimento che “consisteva nella creazione e diffusione controllata di una narrativa complessa attraverso diversi strati della società tedesca” (p. 19). L’esperimento è appunto interessante, chi ne voglia sapere di più non ha che da leggere il libro, il ‘fatto’ da notare, tuttavia, è che se si cerca su internet qualche ulteriore notizia su questo esperimento non si trova niente. Né lo scienziato sociale “Marcus Heidemann” e tantomeno “Hiroshi Tanaka”, l’inventato autore del libro Die digitale Dämmerzustand (Il crepuscolo digitale), oggetto dell’esperimento “sulla costruzione della realtà nell’era digitale” sembrano realmente esistere (ma è proprio questo il punto, che significa, ormai, questo avverbio?). Jianwei Xun si gioca del lettore, o meglio, gli chiede di non credere alle stesse tesi del libro, che altrimenti pretenderebbe di rappresentare un punto di vista ‘oggettivo’ sul mondo digitale, un punto di vista che chiaramente non può più esistere).
È evidente infatti che quando “la realtà si è rotta in mille realtà” non si tratta di sperare di ricomporla, ormai è rotta, si tratta semmai di provare a capire come vivere, o forse meglio sopravvivere, in una simile pluralità di mondi (che poi, se ci si pensa, era la grande scoperta della modernità, il passaggio dall’universo tolemaico a quello copernicano). Ma che cosa significa vivere nel regime ipnocratico, per Jianwei Xun? Che ne è del tradizionale soggetto umano? “Il soggetto non è semplicemente manipolato dall’esterno; è coprodotto in una danza continua con i sistemi algoritmici che non sono meri strumenti ma veri e propri partner di un dialogo esistenziale. I suoi gusti, le sue preferenze, persino le sue reazioni emotive vengono costantemente modulate e ricalibrate in un processo di feedback che modifica tanto l’umano quanto la macchina” (pp. 35-36). Si comincia a cogliere qui il vero motivo di interesse di questo libro, che non sta tanto nella lucida diagnosi della situazione presente (solo un illuso può continuare a sostenere che l’impatto dell’intelligenza artificiale sulle vite umane sia governabile, o – ed è ancora peggio – può pensare che si tratti di un problema risolvibile inventandosi un’improbabile AI ‘etica’), quanto nel modo in cui Jianwei Xun prova a immaginare forme di “resistenza” al regime ipnocratico effettivamente praticabili. Il soggetto umano, o almeno quello che da Cartesio in poi si pensa come soggetto, non può credere di difendersi dal nuovo mondo digitale erigendo barriere che preservino la sua eccezionalità umanistica; al contrario, si tratta di cominciare a immaginare come coabitare in un mondo da un lato sempre meno umanocentrico, e dall’altro sempre più disincarnato e virtuale, ipnotico appunto. Prendiamo il caso di quella che chiama “intimità algoritmica”, un (quasi) ossimoro che contiene tutta l’impensabile novità del nuovo mondo ipnocratico: “siamo entrati in un’epoca in cui le nostre esperienze più sono private e più sono mediate, plasmate e persino create da processi algoritmici. Non si tratta semplicemente di sorveglianza; è la produzione algoritmica dell’intimità. Le app di dating non si limitano a connettere le persone, ma rimodellano il modo in cui facciamo esperienza dell’attrazione, del desiderio, dell’amore” (p. 51). Non si tratta più di rimpiangere il modo ‘tradizionale’ di amare e desiderare, perché quel modo è cambiato, non si torna indietro: si tratta piuttosto di imparare ad abitare questi nuovi amori, questi desideri mediati dalle app, questi corpi impastati di virtualità e spossessamento. Se Jianwei Xun conoscesse la psicoanalisi (in questo libro non ci sono riferimenti bibliografici), saprebbe che Jacques Lacan chiamava “estimità” questa nuova ma allo stesso tempo antichissima forma di amore, una esteriorità intima, una interiorità esterna. Il problema è sempre lo stesso, non stare sempre lì a criticare il nuovo impensabile che stravolge le nostre vite, rimpiangendo un passato che nessuno vorrebbe mai davvero praticare (si può vivere, realmente, senza essere sempre on life, come dice Floridi?); si tratta di capire se, e come, muoversi in un mondo così impensabile (che è impensabile proprio perché è del tutto nuovo). Torniamo così alla questione del dominante regime ipnocratico, a quella realtà che “si è rotta in mille realtà”: “la soluzione, se c’è, non può essere un semplice ritorno ai ‘fatti’ o alla ‘verità’ Abbiamo bisogno di nuovi modi di comprendere e interagire con questo sistema di realtà multiple. […] Bisogna accettare che la realtà stessa è uno spazio conteso che esige nuovi modi di comprenderla e attraversarla. La sfida non è determinare cosa sia ‘reale’; consiste, piuttosto, nel comprendere come realtà multiple vengano costruite, mantenute e vissute” (p. 75).
Veniamo così alla parte più interessante del libro, peraltro appena accennata nell’ultimo brevissimo capitolo, “Epilogo. Il piano altro”, in cui forse è più evidente quanto Jianwei Xun venga da un mondo diverso da quello occidentale, un mondo che non ha conosciuto la cesura dualistica del cogito, e che quindi ha meno paura di mischiarsi con i processi reali del cosmo. Perché di questo si tratta, immaginare un soggetto umano meno, per così dire, ‘soggettivo’, meno individualizzato, meno trascendente rispetto al mondo. Se il tratto distintivo del regime ipnocratico è un permanente “stato alterato di coscienza” (p. 123), perché non provare ad abbracciare questo stato e farne una sorta di versione digitale di quello che nel buddhismo si chiama “samādhi”, cioè l'unione cosmica con il dio ottenuta attraverso una meditazione profonda, ossia appunto in una condizione di trance ipnotica?
Forse il vero potenziale rivoluzionario non sta nel resistere all’Ipnocrazia o nel cercare di svegliarsi dalla sua trance, ma nel comprendere come questi stati alterati di coscienza collettiva potrebbero essere reindirizzati verso la loro funzione originaria: non come strumenti di controllo, ma come portali verso nuove dimensioni dell’esperienza e della comprensione. La sfida che ci attende non è quindi solo politica o tecnologica, ma ontologica: come navigare consapevolmente questi stati alterati di coscienza? Come utilizzare le tecnologie non per chiuderci in loop di suggestione algoritmica, ma per aprire portali verso questo piano emergente? […] Ciò a cui stiamo assistendo non è semplicemente un accumulo quantitativo di tecnologie e stati alterati di coscienza, ma l’approssimarsi di un salto qualitativo nell’evoluzione della coscienza stessa. L’Ipnocrazia, nel suo tentativo ossessivo di quantificare e controllare ogni aspetto dell’esperienza, potrebbe aver involontariamente creato le condizioni per l’emersione di qualcosa di radicalmente altro (p. 124).
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