Una chitarra può uccidere i fascisti?

13 Aprile 2025

C’era un tempo in cui una chitarra poteva uccidere i fascisti, come scriveva Woody Guthrie sulla sua seicorde inaugurando un motto che sarebbe stato ripreso da Donovan ai Radiohead, dai White Stripes ai Rage Against the Machine. C’era un tempo in cui cantare la Resistenza, in Italia, era importante. Riprenderne ovvero l’eredità anche musicale e rinnovarne – cantando – il contenuto di generazione in generazione, valicando non solo le decadi ma addirittura i generi. Un fenomeno che va ben oltre il cantautorato e la stagione dei Canzonieri popolari, da sempre in qualche modo associati a quella storia (tema sul quale ho avuto già occasione di ragionare su questo giornale), e che approda dritto dritto ai nostri giorni.    
Si potrebbero infatti facilmente indicare per ogni decennio dagli anni Cinquanta agli anni Dieci una serie di dischi, brani, operazioni volte a conferire una nuova veste sonora a quell’esperienza; un’onda lunga che ha irrorato in maniera carsica ma persistente la linfa creativa del songwriting nostrano d’ambito più disparato dalla metà degli anni Settanta sino all’alba del nuovo millennio. È un esercizio di “democrazia musicale” che, da ascoltatore e da suonatore, ho provato a fare sin dall’adolescenza e che adesso, dopo aver pubblicato di recente un saggio che parla anche di questo legame e in vista del festival I Giorni della Resistenza dal 10 al 13 aprile a Milano, curato da Gabriele Pedullà e organizzato dalla Fondazione Feltrinelli, vorrei finalmente intraprendere con maggiore organicità per celebrare – rigorosamente chitarra alla mano – gli ottant’anni dalla Liberazione italiana dal nazifascismo.   

Tracce iridescenti di Resistenza sono infatti presenti nel Progressive dei seminali Area di Demetrio Stratos, della PFM, del Banco del Mutuo Soccorso o degli Stormy Six, solo per citare i più noti; nel movimento Punk e Post-Punk, con i CCCP – Fedeli alla Linea in testa, ma anche Gang, Diaframma e Litfiba agli albori; nell’Alternative anni Novanta targato Marlene Kuntz, Afterhours, Subsonica, Tre Allegri Ragazzi Morti, Scisma del compianto Paolo Benvegnù, Prozac+ prima e Sick Tamburo poi, Ustmamò; nel Combat-Folk di Modena City Ramblers, Bandabardò, Mau Mau, Yo Yo Mundi e Après La Classe (questi ultimi al lavoro anche con Manu Chao, figlio “globale” di questa avventura); nel reggae pieno di chitarre, riverberi e delay di Africa Unite, Radici nel cemento e Banda Bassotti; nel rock demenziale degli Skiantos e dei primi Elio e le Storie Tese; nel fragoroso Indie anni zero di Verdena, Zen Circus, Offlaga Disco Pax e soprattutto del Teatro degli Orrori di Pierpaolo Capovilla, che ha descritto la splendida ballata Compagna Teresa (2007, ultima grande pagina della vicenda raccontata) con delle parole che risuonano oggi spaventosamente premonitrici del distopico presente in cui ci ritroviamo a vivere:

Si tratta di una storia d’amore, l’amore desiderato di un partigiano per una staffetta di nome Teresa. L’assassinio di Teresa rappresenta la morte collettiva di un ideale sociale.

È il fascismo che sconfigge la democrazia. Se ci guardiamo intorno, ce ne possiamo accorgere con facilità: il mondo è oggi più fascista di prima, solo che adesso non ce ne frega più niente.

Ecco come, a mio giudizio, una canzone può contribuire a svegliare le coscienze.

Oggi come oggi, i valori della resistenza sono più attuali che mai. Che la musica rock in Italia ne prenda atto, è cosa buona e giusta.

Insomma, per dirlo con una parola sola, nell’accezione maggiormente ampia in cui riusciate a concepirla, in Italia ci sono tracce costitutive di Resistenza entro tutta la famiglia allargata del Rock.

Ma non solo: anche nell’hip-hop storico, il più nobile e per molti versi l’esatto contrario del rap e della trap odierne, si potrebbero elencare numerose ispirate riletture del lascito resistenziale ad opera di 99 Posse (uno dei cui brani di riferimento, per mettere subito in chiaro le cose, si chiama Rigurgito antifascista), Sud Sound System, Almamegretta, Assalti Frontali, e più recentemente Frankie hi-nrg mc e Caparezza. E ancora, ci sono tracce di saga resistenziale nelle sparute propaggini di quel che resta della scena indipendente italiana, con brani come Adotta un fascista di Giancane e Lucio Leoni e alcune canzoni dei Lo Stato Sociale, che non a caso saranno rappresentati alla Festa milanese da uno dei fondatori, Bebo Guidetti, protagonista di un dj set in connubio con una spaghettata antifascista negli spazi esterni di Viale Pasubio.

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Questa non è una mera lista (peraltro molto incompleta) di artisti engagé o una laudatio temporis acti; questa è a tutti gli effetti, accanto alla tradizione aurea del nostro cantautorato, la colonna sonora dell’Italia libera.

È una storia che sembra inoltre avere il potere di ricomporre la partitura completa degli “appunti partigiani” in musica disseminati sul campo e sulla “strada dei monti” (per ricordare il Calvino di Oltre il ponte), nonché di completarla facendone risuonare ancora oggi l’intensità del timbro e delle armoniche, tutte proiettate nel sogno di un mondo libero. Sempre Calvino ne fa cenno apertamente nel Sentiero dei nidi di ragno, che prende per così dire le mosse da un impulso musicale con Pin che intona il lamento del carcerato Ecco è l’Aprile; Pasolini e Caproni lo fanno in versi, con un visibile e cesellato campione nel Passaggio di Enea; infine, Fenoglio raggiunge in tal senso il punto massimo con Una questione privata, romanzo addirittura interamente costruito intorno a un leitmotiv musicale, Over the Rainbow cantato da Judy Garland.

Gli appunti sparsi citati poc’anzi, tuttavia, non sono comparsi per caso. Ancora di Fenoglio, infatti, è un libriccino perlopiù autobiografico pubblicato da Einaudi solo negli anni Novanta, Appunti partigiani. ’44-‘45. Dal punto di vista melico, il volumetto trascina subito dentro perché già nelle prime pagine è possibile trovare un paragrafo così: “Paiono viaggiare con me le colline alla mia destra, che guardano la mia piccola città tenuta da loro. Ci vive la ragazza di cui sono, sarò sempre innamorato”. Forse una delle dichiarazioni d’amore più spontanee e toccanti che si possano leggere nella letteratura italiana del secondo Novecento.

E nonostante la guerra, cosa fa un innamorato che viaggia per le colline? Canta. Certo. Ed ecco che un paio di pagine dopo Fenoglio scrive: “Mi prende un’allegria feroce, voglio far la mia parte in questo concerto, e scatto a cantare: Là sulle Langhe / C’è una baracca / C’è vino e grappa, / c’è vino e grappa. / Là sulle Langhe / c’è un bosco nero, / È il cimitero / Dei partigian! Sono in cima alla prima collina, sfiatato dall’erta e dal cantare”. Nei capitoli successivi ci sono estratti anche da altri canti di battaglia, come La guardia rossa e Il partigian del bosco. In questo modo, un’intera generazione di lettori dalla spiccata inclinazione musicale poteva trovare nei testi di Fenoglio anche un’accurata passione “canzonettistica” (come aveva scritto a Garzanti quando gli aveva proposto di intitolare “Lontano dietro le nuvole” il romanzo di Milton e Fulvia, in onore a Over the Rainbow).

A poco più di un decennio dopo da quella pubblicazione postuma, nel 2005, sugli scaffali dei negozi di dischi prende posto un album che si chiama esattamente allo stesso modo, Appunti partigiani. Non si trattava di una coincidenza. Era un disco che i Modena City Ramblers, riecheggiando per l’appunto il titolo di Fenoglio e l’iniziativa Materiale resistente 1945-1995 promossa dieci anni prima dal Consorzio Produttori Indipendenti (e dal gruppo C.S.I. sviluppato da alcuni membri dei CCCP), avevano orchestrato col coinvolgimento di artisti del calibro di Francesco Guccini, Goran Bregović, Paolo Rossi, Ginevra Di Marco, l’inglese Billy Bragg in una splendida versione di All you fascists di Woody Guthrie, Piero Pelù e tanti altri.

Ricordo un me quindicenne acquistarlo e posizionarlo in casa accanto al libro di Fenoglio, con la consapevolezza di avere tra le mani un dittico prezioso, un abbinamento del tutto inaspettato che raccontava un fatto ben più grande della mia età, qualcosa che era in realtà altamente significativo nel corso della Storia con la maiuscola, per me al tempo musicalmente e ufficialmente rappresentata dalle manifestazioni sparse per il 25 Aprile e dal concerto, enorme, del 1° Maggio.     

Perché sì, c’era addirittura un tempo in cui il Concertone del 1° Maggio di Roma, divenuto oggi lo spettro di quel che era, proprio come la partecipazione politica nel paese, portava molti di questi gruppi sullo storico palco di Piazza San Giovanni, consentendo al pubblico di ascoltarli gratuitamente e partecipando di uno spirito collettivo che è stato silenziosamente smantellato, pezzo dopo pezzo. A dimostrazione che l’aderenza tra canzone e impegno non è affatto obsoleta o sconnessa come si vorrebbe far credere. Perché ogni canzone è a suo modo un gesto politico, anche quella che in apparenza può apparire sideralmente lontana da questo discorso.

Ora che tutto crolla, la partita è aperta. Chi raccoglierà, chi custodirà il tesoro di note e parole che la Resistenza – con la sua onda lunga di generi, suoni, colori – porta con sé?

Ancora non sembrano esserci risposte, ma bisogna continuare instancabilmente a chiederselo. Intanto, è bene accordare le chitarre per la Festa di Milano.

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