
Speciale
Civiltà verticali: Narbona di Castelmagno
Ho potuto visitare Narbona di Castelmagno, Alpi nord ovest (quasi 1500 metri d’altezza, abbandonata dal 1960) solo grazie a Flavio Menardi Noguera. Lui, innamorato del borgo fin dai tempi del servizio civile, è tra i volontari più assidui e capofila del progetto Una casa per Narbona. Sono una pessima camminatrice, in montagna e non, e ricordo ancora con una certa apprensione quella strada rigorosamente non carrabile, le mani sovente attaccate alle maniglie per arrampicata e sotto di me i dirupi; ma ho ancora presente lo stupore alla vista di quel favoloso labirinto verticale, un abitato quasi strappato ai perimetri insidiosi di un mondo non umano, posto al centro di due canaloni di scorrimento delle valanghe che si riversano fragorosamente sì, ma tutto intorno. Uno dei luoghi simbolo dell’insediamento estremo dell’uomo nelle valli alpine mentre i profili delle vette contrapposte sembrano sfidarsi e il corso acquatico dei torrenti rapprendersi periodicamente in masse nevose.

È un borgo di cultura occitana, antica quanto di origini incerte, ricca di riferimenti ai catari (oltre al toponimo Narbona, la frazione Tolosano nella vicina Marmora): eretici, perseguitati nel XIII secolo o, secondo altri, fuggiaschi da una seicentesca epidemia di peste, i pionieri erano alla ricerca di un rifugio sicuro proprio perché così verticalmente impervio.
Il borgo, cade a pezzi: ci si sente smarriti tra i vicoli strettissimi e le case addossate, accerchiati da edifici squassati e da balconi di legno che pendono innaturalmente sul vuoto. Storie estreme, di sopravvivenza, quelle di Narbona (quasi tutti gli ex abitanti dal cognome Arneodo) come indicano i muri delle case alte fino a nove o a dieci metri, costruite in pietra a secco, nelle quali si aprono eleganti porte e finestre dalle forme più diverse, aggettano ballatoi, svettano comignoli, alcuni a forma di tempio, altri che recano una croce in funzione protettiva.
Passandoci in mezzo si avverte che le abitazioni sono così contigue tra loro che i tetti sgrondano l’uno sull’altro riparando gli stessi vicoli: i passaggi coperti, la frammentazione degli edifici in unità plurali trasformano il borgo in un villaggio-casa (echi che risuonano anche nel romanzo Tetto murato di Lalla Romano a proposito di uno sperduto borgo alpino). Narbona ci appare come un’immensa gradinata puntata verso l’alto. Più le pendici sono ripide – osserva un altro dei volontari dediti a salvare il borgo, Renato Lombardo, ex medico condotto, cui ha dedicato come Flavio numerosi libri – più le terrazze (couànhes in occitano) preservano il territorio dal degrado idrogeologico (l’Arbouna la nosta, Primalpe 2016).

È a una memoria in pietra che mi rimanda quel paesaggio: un luogo giusto, come fa notare Lombardo, in cui andare quando l’anima è in difficoltà, o forse il senso del nostro mondo è smarrito, e sentiamo il bisogno di uscire dalla penombra in cui siamo immersi. Un mondo altro quello di Narbona, dotato di elaborati saperi, densi di una tecnica inaspettata, volti a contrastare i disagi della verticalità: a promettere una vita possibile agli uomini in una inedita dimensione gravitazionale. Penso al taglio del fieno con l’impiego, da parte dei falciatori, di rudimentali ramponi (gràpes) per non scivolare sui prati troppo ripidi; o, ancor più sorprendente, il trasporto del raccolto mediante un ingegnoso sistema di teleferiche che scaricavano direttamente sui tetti dei fienili o delle stesse case dove dal sottotetto un camino in pietra veniva usato per calare il fieno direttamente nelle mangiatoie delle stalle. E poi il girello per i bambini: una sorta di gabbietta perché non rischiassero, gattonando fuori dalle pareti di casa, di rotolare nel torrente sottostante. (Cfr. F. Menardi Noguera, Narbona di Castelmagno. Abbandono, rovine, sopravvivenze. Un’indagine per immagini, Centro occitano di cultura Detto Dalmastro, 2016).

Vennero impiegate a Narbona un insieme di tecniche sofisticate ma non invasive, come invece la nostra, di segno prevalentemente distruttivo. Non è un caso, forse, che proprio ripensando a Narbona, mi sono venute in mente le parole degli antropologi Remotti, Aime, Favole (Il mondo che avrete, Utet 2020) quando richiamano l’importanza del “sospendere”, al contatto con le tracce di società “altre” (come in fondo è questo borgo alpino occitano) l’adesione al proprio mondo di appartenenza. E invocano un sano principio di epoché dal momento che le azioni umane non sono dovute a una necessità naturale, ma frutto di scelte culturali, e quindi contengono una buona dose di arbitrarietà. Ecco perché vanno vagliate e sottoposte a una sospensione del giudizio. Del resto quanto meno una cultura è dotata di forme di autosospensione (questo passaggio del loro libro Il mondo che avrete è cruciale anche per la mia formula dell’Ecomemoria) tanto più risulta elevato il tasso di “cecità” a suo carico (così da richiamare il titolo dello straordinario libro di Ghosh Cecità sui pericoli climatici ed ecologici che ci sovrastano!).

Visioni sospese, ancora. Interni degli edifici e tecniche di costruzione che – ribadisce acutamente Flavio – sono svelati ai nostri occhi proprio nel corso (progressivo o di schianto) dei crolli e degli sventramenti delle antiche case di Narbona. Diventano evidenti nel massiccio gioco “in togliere” operato dal crollo degli edifici. Tanto più recuperando una sorta di memoria materiale, tutta per linee interne, dell’antico abitato. Come? Proprio nella giustapposizione sistematica dei particolari di edifici, interni ed esterni documentati per tappe negli anni della lenta decostruzione di Narbona.
Memoria allora come salvataggio del “possibile”, attraverso uno sguardo che ridà corpo alle forme dell’antico abitato ricostruendolo mediante la trama di ciò che l’abbandono mette a nudo. E insieme, in forma complementare mi vien da dire, nella ricostruzione degli interni delle abitazioni di Narbona, ospitati con successivi voli di elicotteri – quasi un puzzle ricomposto – nella Casa Museo di Narbona a Campomolino (l’aula di scuola, con tanto di banchi e lavagna, una cucina e il focolare, il gioco della carta ritagliata ai soffitti, ornamento e riparo…). Secondo una prospettiva di ricerca e di riproposizione del senso dei luoghi che a tutti gli effetti è interpretabile in qualche modo come un’esperienza – certo eterodossa – di Ritorno: di traghettamento delle archeologiche e virtuose culture contadine e montanare fuori dalle stratigrafie degli originari scavi.
Leggi anche:
Antonella Tarpino | Paesaggi fatati delle Langhe
Antonella Tarpino | Archivi del Nord Nord
