Casamicciola. La memoria negata del paesaggio fragile
“Forse un mattino andando in un’aria di vetro,/arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:/ il nulla alle mie spalle il vuoto dietro/ di me, con un terrore da ubriaco//..”
Un brivido “nell’aria di vetro”, la lente cristallina che si fa occhio, a incontrare il nulla: penso spesso a questi versi di Montale da Ossi di seppia, sia che si tratti di un borgo finito sotto le acque di una diga, sia in seguito a una catastrofe naturale, che che in conclusione recitano:
“Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / alberi, case, colli per l’inganno consueto”.
A Casamicciola, Ischia, non è andata così. Alberi e case non son tornati in piedi. Le strade sono state distrutte (si vede dalle immagini di un drone che sorvola la località) I corpi sono stati travolti dal fango, come quello di Eleonora trent’anni circa che vi abitava da poco – le era parso un sogno – col fidanzato marinaio (si sarebbe imbarcato tra poco in mare, elemento che si sarebbe rivelato più sicuro della terra d’origine). Il fango che travolge gli abitati e le vite umane acceca la vista come nell’incubo di Montale. E a Casamicciola non è stata certo la prima volta.
Nelle sue memorie Benedetto Croce ricorda che nel luglio 1883 si trovava con padre, madre e sorella proprio a Casamicciola, in una pensione chiamata Villa Verde, quando la sera del 29 accadde il terribile terremoto: un rombo “si udì cupo e prolungato”, e nell'attimo stesso l’edificiò si sgretolò. Morirono tutti sotto le macerie, padre, madre e sorella abbracciate, solo lui si salvò precipitandosi sul terrazzo dove ricoperto di fango e ferito fu liberato il mattino seguente.
Curioso che in un Paese con tante disomogeneità regionali si sia conservato, a Sud ma anche al Nord, il detto (alcuni nonni o bisnonni lo ripetevano in svariate occasioni) “È una Casamicciola". Equivalente o quasi del più noto "Fare un quarantotto". Moti politici e sussultori messi sullo stesso piano, e in effetti, va detto, gran parte dei disastri avvenuti a Casamicciola negli anni duemila fino a oggi (2006, 2009, 2017, 2022, tre alluvioni e un terremoto nel 2017) hanno a che fare con la politica – pur molto meno nobile delle giornate del ’48. In molti hanno osservato che la pratica di avallare condoni (uno per famiglia è stato conteggiato a Casamicciola) può essere interpretata in fondo come uno scambio a compensare le mancanze stesse della politica e dello Stato nei confronti degli abitanti di quelle aree.
Un do ut des forse ancora più inquietante del consueto voto di scambio, perché a essere negoziato è il Paese stesso, il territorio su cui viviamo. Non ci sarebbe forse da stupirsi, perché è lo stesso principio (l’interesse a trattare il pianeta e il mondo naturale in senso lato come una merce) che guida i cambiamenti climatici e l’intero dissesto terrestre. Quello stesso che conferisce al nostro Paese i tratti paradossali di un’Italia stretta fra i “Troppo vuoti” delle montagne povere, delle terre alte in genere e delle aree interne e i “Troppo pieni” delle metropoli, delle coste e dei paradisi turistici.
Nel primo caso parliamo di più della metà del Paese divenuto fragile per via dello spopolamento, della carenza di servizi, per non dire dell’abbandono tout court, nel secondo di territori divenuti in fondo anche loro fragili per motivi opposti: la cementificazione selvaggia e la deregulation speculativa. Fragili tanto più a Ischia dove – leggo – il tufo di origine vulcanica, di cui è composto il monte Epomeo franato, è poroso, assorbe l’acqua piovana fino a creare delle pozze che la montagna non riesce più a trattenere cosicché gli stessi terremoti vengono amplificati dai continui rischi alluvionali. E dove, in ultimo, la manutenzione del territorio è assente: nessuno pulisce il sottobosco, gli alvei, i terrazzamenti crollano e non vengono ricostruiti, le colture agricole sono abbandonate.
Casamicciola di Ischia, considero, sembra contenere nella sua fragilità radicale entrambi i paradossi del territorio italiano, l’abbandono delle colture e della manutenzione del territorio e la speculazione edilizia più selvaggia. È bene esemplificata – questa minacciosa compresenza – dall’immagine della macchina delle vacanze che inonda tuttora la rete di annunci pubblicitari per il ponte dell’Immacolata e insieme la visione del fango che scorre lungo le strade, la montagna amputata da un vistoso taglio nella roccia. Esempio lampante, quanto dolente (e da tempo) Ischia di quello “sfasciume pendulo sul mare” di cui parlava già negli anni ’50 il meridionalista Manlio Rossi Doria (riprendendo una definizione di Giustino Fortunato) a proposito delle condizioni di molta parte del Mezzogiorno – oggi potremmo dire non solo il Mezzogiorno – eroso da un grave dissesto idrogeologico.
Quel che mi turba ulteriormente è che il rischio di “far come a Casamicciola” è stato a lungo avvertito nel linguaggio corrente in tutto il Paese, almeno dai nonni o bisnonni di un tempo, a riprova che la memoria ha lavorato fino a un certo punto nella coscienza degli italiani. Poi lo spaesamento territoriale del Paese si è trasferito anche nel silenziamento integrale della memoria. Come se i territori, i luoghi, sommersi dalla speculazione edilizia avessero perso ogni voce e l’immersione nel cemento della modernità avesse non solo cambiato i connotati dei paesaggi ma distorto le storie, attutito l’urlo, nel caso di Casamicciola evidente, dei suoi stessi abitanti. Il tempo di troppi ieri dimenticati nel dispotismo del presente che acceca, come e più del fango, mette a rischio e condanna la vita immemore nell’oggi. Ieri o l’altro ieri, dimenticati del tutto, se si pensa che dopo il terremoto del 2017 la parte alta di Casamicciola si è ulteriormente accalcata di costruzioni. O, se non basta, che la piazza in cui si sono concentrati i soccorsi in questi giorni è intitolata ad Anna De Felice in ricordo di una ragazzina uccisa dal fango di una frana il 10 novembre del 2009.
Caduta, schianto, si potrebbe dire in tanti casi, della memoria dei territori, oltre il mercanteggiare stordito della politica, perché cos’è che rende il paesaggio fragile almeno «visibile» al di là dei suoi resti scarni? È la memoria purtroppo sempre più annichilita di chi vi ha abitato. Perché è nel punto estremo di rottura che si può cogliere il significato autentico che i luoghi hanno per noi: quanto siano questi precondizione di senso (come illustra il fondativo Il senso dei luoghi dell’antropologo Vito Teti). Col rischio di disperdere nella fine di un abitato, insieme a quel senso intimo di colleganza con l’“ambiente inumano”, anche le parole con cui designare le forme stesse del nostro abitare. Quella memoria che ridà corpo al paesaggio violato, ridisegna il senso degli antichi abitati, racconta anzitutto il «lavoro» della convivenza di uomini e donne con l’ambiente circostante. Proprio ad esempio mediante i terrazzamenti (non più ripristinati da decenni a Casamicciola) quelli stessi capaci con i loro profili scalari di sfidare ogni recondita pendenza salvaguardando la tenuta di colline e monti.
È l’assenza di questa memoria dei territori, costituita dal sapere e dall’esperienza condivisa a minacciarne – tra le altre cause – l’esistenza. Incorporata com’è quella memoria (talvolta «marchiata nella carne»): vera e propria esperienza muta del mondo, che fa del corpo – e dei rapporti tra l’umano e il suo ambiente circostante – una sorta di “promemoria universale”. E di questa il paesaggio conserva l’impronta indelebile.
Penso sovente alle parole di Nuto Revelli sul mondo dei vinti – i contadini in fuga all’epoca del boom verso le fabbriche in pianura – e sul loro paesaggio sommerso, perduto nell’abbandono (altrettanto fragile, anche se per ragioni opposte, di quello di Ischia): “Ormai il paesaggio lo leggo sempre e soltanto attraverso il filtro delle testimonianze. Sono le testimonianze che mi condizionano, che mi impongono un confronto continuo tra il passato lontano e il presente.”
Attraverso quelle storie, “vedo il mosaico antico delle colture e dei colori anche dove è subentrato il gerbido, dove ha vinto la brughiera, vedo le borgate piene di gente e non in rovina, anche dove si è spenta la vita”.
Parole, memoria: è lì dove la battaglia difficile del paesaggio fragile si gioca, che va invocata un’idea del territorio come patrimonio da riconfigurare nella nostra stessa consapevolezza (e non puramente da difendere, come avverte l’urbanista Alberto Magnaghi): sfera ultima della violenza impetuosa e cieca in cui i luoghi (e noi con loro) sono immersi.