Ventotene 2025
Su una cosa Giorgia Meloni è stata sincera: non è la sua Europa.
Il punto non è qui organizzare la difesa di un testo-feticcio (benché abbia pure qualche ragione di esserlo). Si tratta soprattutto di interrogarsi sulle ragioni per cui questo testo risulta improvvisamente così divisivo.
Ieri ho letto in classe con i miei studenti il Manifesto di Ventotene. Il corso lo permetteva, trattando di idee di Europa, e l’abbiamo letto anzitutto come esercizio di analisi del testo. Mi è sembrato ovvio doverlo fare. Ogni giorno stuoli di maestri di primaria, professori di secondarie e università tribolano per insegnare ai ragazzi come decifrare i testi: contenuti espliciti e impliciti, gerarchia delle informazioni, presupposti e implicazioni, presidiando così i fondamenti della vita democratica. Ma l’onda delle pratiche interpretative scorrette (citazioni avulse dal contesto, testuale ancor prima che storico, riduzionismi e malafede, verità parziali – “Se io ho da dire due cose, e voi mi permettete di dirne una sola, è evidente che quella sola diventa una bugia”, scriveva Salvemini), è sempre più vigorosa e va in qualche modo avversata.
Dunque abbiamo pazientemente ripercorso il Manifesto; e proverò qui a riassumere, ad uso anche di chi non l’ha letto, i punti fondamentali, per come sono stati analizzati dagli studenti stessi, senza previe indicazioni sulla storia del testo e le traiettorie individuali dei suoi autori.
Nella prima parte, “La crisi della civiltà moderna”, viene presentata una disamina storica delle tappe e dei problemi che hanno condotto alla situazione di guerra e totalitarismo del 1941, anno in cui il Manifesto è composto. Una specie di “come siamo arrivati qui”, che muove dal presupposto crociano che il desiderio della libertà è stato il lievito d’Europa nel corso del secolo precedente: un impulso inciampato tuttavia in alcuni grossi problemi. Le nazioni, concepite dal liberalismo ottocentesco come elementi aggreganti (Renan com’è noto descriveva le nazioni come dispositivi che uniscono le popolazioni piuttosto che dividerle) e come strumenti di liberazione dall’oppressione straniera (per Mazzini le nuove nazioni avrebbero poi dovuto comporsi in un superiore cosmopolitismo), avevano finito col scivolare nel nazionalismo, fonte di contrapposizione e guerra, che aveva condotto agli stati totalitari e allo scatenarsi delle guerre mondiali. Lo spirito critico, altra manifestazione della libertà, più precisamente definito come il metodo secondo cui “tutto quello che veniva asserito doveva dare ragione di sé”, non aveva a sua volta retto all’oppressione totalitaria: la scienza era stata piegata ad affermare l’esistenza delle razze, che analisi storiche e scientifiche confermano essere un’assurdità; la storia subiva falsificazioni e le biblioteche e librerie venivano purificate dalle opinioni non ortodosse.
Che fare allora? La seconda parte, contemplando l’ipotesi che la sconfitta degli stati totalitari sia possibile, osserva che questa felice evenienza non sarebbe sufficiente, di per sé, a garantire un’Europa migliore. La grande intuizione di Spinelli, Rossi e Colorni fu che finché ci fossero stati dei germi di nazionalismo, finché il mondo fosse rimasto organizzato per nazioni non disposte ad annullare le loro intime tentazioni nazionaliste, la guerra sarebbe stata sempre possibile, anzi dietro l’angolo. Avevano tutt’altro che torto: e lo stiamo toccando con mano. Essi concepirono allora l’idea che l’Europa si dovesse dare un’organizzazione istituzionale tale da non lasciare margini alle rivalità nazionali. Considerarono anche il problema dell’ordine mondiale: in attesa e nella speranza che una simile situazione si potesse estendere su scala mondiale, la federazione europea avrebbe garantito, meglio di uno scomposto insieme di nazioni, dei rapporti improntati ad una pacifica cooperazione con gli Usa e con l’Asia (leggi Russia e Cina). Non era la prima volta nella storia che si pensava all’Europa in termini federali, ma era la prima volta che il disegno federale assumeva un’operatività concreta. La specificità del Manifesto è infatti di misurarsi con realismo con la situazione del continente, presente e futura, per prospettare l’unione federale non in termini astrattamente utopistici, ma come 1. la sola via concreta, attuabile, capace di difendere la pace senza affidarla a buoni propositi morali, facilmente inceneriti dai più aggressivi 2. una via che andava costruita tenendo conto del fatto che numerose forze reazionarie avrebbero remato contro, interessate com’erano a ricostruire i nazionalismi loro favorevoli (le forze conservatrici, il capitalismo monopolista, le forze armate, i vari privilegiati, che per giunta avrebbero avuto l’accortezza di proclamarsi “amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere”). Al di là dell’abbagliante luce di speranza che sprigiona da questa visione plasmata al confino, gli obbiettivi sono incontestabilmente quelli di un’Europa libera e unita nella pace.

Nella terza parte, “I compiti del dopoguerra. La riforma della società”, si delinea che tipo di società europea gli autori desiderano. Si tratta di una società “socialista”: ma attenzione a prendere questo termine nell’accezione specifica che gli danno un critico verso il comunismo (Spinelli), un liberale (Rossi) e un militante nelle fila di Giustizia e libertà di Carlo Rosselli (Colorni). L’Europa descritta è di fatto né più né meno quella socialdemocratica che ha provato ad essere a tratti la nostra negli ultimi ottant’anni: lotta al monopolio (è in questo quadro che viene evocata la nazionalizzazione di alcune industrie, con la precisazione che la collettivizzazione è un’idea sbagliata, un’affrettata ed erronea deduzione dei primi socialisti); riforma dell’istruzione per garantire a tutti l’accesso agli studi e le pari opportunità; solidarietà sociale e forme di sostegno ai più bisognosi per assicurare a tutti un vitto e un alloggio dignitosi. Spinelli, Rossi, Colorni hanno additato all’Europa degli obbiettivi che, avveniristici nel 1941, essa ha provato e prova ogni giorno a inverare, con più di una importante conquista pur al netto delle numerose storture e limiti.
Ma veniamo alla parte su “La situazione rivoluzionaria. Vecchie e nuove correnti”, da cui pure sono state tratte citazioni. Intanto, a neutralizzare queste citazioni e assieme ad esse il sospetto di tendenze antidemocratiche e dittatoriali del Manifesto, basterebbe evocare le righe che aprono il paragrafo: “La caduta dei regimi totalitari significherà per interi popoli l'avvento della "libertà”: sarà scomparso ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione. Sarà il trionfo delle tendenze democratiche”. Ma non ricadremo nell’errore interpretativo di estrapolare le citazioni, e proveremo allora a spiegare qual è la preoccupazione di fondo del testo. Come realizzare un’inversione di tendenza così radicale come quella che si propone di impedire alle formazioni politiche pre-totalitarie di prendere nuovamente il sopravvento, nella confusione della ricostruzione? Qui Rossi e Spinelli formulano un pensiero che trovò la sua più compiuta espressione in Carl Schmitt, ovvero che spesso le democrazie sono inefficienti, rispetto a quanto non possano essere efficaci le autocrazie. Anche un libro recente di David Runciman (The Confidence Trap, Princeton University Press, 2018) riflette sulla questione, osservando che se nel breve termine le democrazie sono più esposte a crisi e miopie, esse vincono purtuttavia la battaglia di lungo termine con la loro resilienza e libertà. Chi trasse da questo ragionamento le conclusioni più dannose furono proprio gli stati totalitari, assieme a tutti coloro che, per finta o per davvero, antepongono l’efficacia ai processi democratici (si veda ciò che sta accadendo all’amministrazione americana). Il Manifesto si limita a dire che sarà necessario un partito rivoluzionario. Ora, si tratta di un’affermazione forte, che anche lo stesso Spinelli ebbe modo di rivedere. Non entreremo qui nella quantità di considerazioni storiche che possono essere sollevate a difesa o illustrazione di un punto che non intendiamo né difendere né accusare, e che può ovviamente, anzi deve, come tutto il resto, fare oggetto di discussione. Tali considerazioni non servirebbero: il punto infatti è un altro. Ovvero chiedersi se sia più desiderabile un aspirante rivoluzionario (che la storia ha provato divenire in seguito un democraticissimo parlamentare) che mira a sconfiggere per vie istituzionali i nazionalismi per edificare la pace, oppure un “democratico nazionalista” che rimette volutamente in circolo le idee nazionaliste, dopo che abbiamo chiarissima tutta la loro pericolosità, inscritta a chiare lettere anche nel Manifesto così come nelle traiettorie di vita (e di morte, nel caso di Colorni) dei suoi estensori.
Quale Europa e quale mondo vogliamo? Un mondo e un’Europa che, pur dicendosi a parole per la pace, seminano guerra (verbale, istituzionale, internazionale), o un mondo e un’Europa che la pace la desideri e la prepari davvero? Non ci resta che tenere ben presente la domanda alle prossime urne, perché è un genere di domanda che condiziona, e spesso inficia, tutte le altre.
In copertina, Rossi, Spinelli e Einaudi a Ventotene (Foto di Archivio Storico Federalista Europeo).
