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Ministro Valditara: cos'è questo Occidente?

19 Marzo 2025

Occidente. Prendete questa parola e guardatela con attenzione, perché mi sa che stia lì la posta in gioco.

Ormai sono passati un po’ di giorni dalla pubblicazione delle Nuove indicazioni per la scuola; quelle partorite dalla commissione nominata dal Ministero dell’Istruzione e del merito. Il tempo utile per fare un po’ di conti e misurare la temperatura delle tante reazioni che il testo ha suscitato. Vale per tutto il documento, ma in particolare per la sezione relativa all’insegnamento della storia. Un po’ per l’importanza che la stessa commissione le attribuisce, un po’ perché in quella materia si avverte tutto il peso sociale e politico dell’operazione condotta dal Ministero.

Cominciamo dall’inizio. “Solo l’Occidente conosce la storia”. La frase ha colpito forte. E forse l’effetto era voluto. Di sicuro ha suscitato non poca indignazione. L’abbiamo scritto in tanti che non era possibile parlare con toni così eurocentrici (qualcuno ha detto più precisamente ottocenteschi o colonialisti) e che era assolutamente scorretto dimenticarsi di tutte le altre storie prodotte nel mondo: dalla Cina al mondo arabo o persiano. Per giunta la commissione rincarava la dose aggiungendo ad arte una frase di Marc Bloch, che per chi fa il nostro mestiere è quasi un nume tutelare più che uno storico: metodologicamente rivoluzionario, martire della resistenza, colui insomma che tutti citiamo quando vogliamo rafforzare il nostro pensiero senza essere obbligati a fare troppi altri distinguo. E Marc Bloch ha detto che «I greci e i latini, nostri primi maestri, erano popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici. […] è nella durata, dunque nella storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione».

Così eccoci qua, con una linea chiaramente tracciata. Da che parte continuiamo?

Beh, tanto vale dire che Bloch aveva perfettamente ragione. Certo che i greci e i latini rappresentano una delle radici più dirette del nostro pensiero; e certo che il cristianesimo è una religione di storici, per il suo poggiare su eventi concreti (o ritenuti tali), per l’idea di tempo che si lega alla storia della salvezza e per tanti altri motivi. Ma non è mai buon metodo citare una frase fuori dal contesto per asseverare le proprie idee. Perché con lo stesso criterio, potrei anche aggiungere che, nello stesso libro (la famosissima Apologia della storia), Bloch disse che «Non possiamo comprendere nulla di veramente umano se ci chiudiamo nell’isolamento di una singola civiltà. Il confronto non è un modo per giudicare, ma per illuminare».

Quindi sancito che non cambia molto avere greci, romani e cristiani dalla nostra, andiamo al punto centrale: solo l’Occidente conosce la storia. Quale storia? La commissione ha le idee chiare e lo dice subito dopo. Quella che si è forgiata con i greci; per essere più precisi a partire da Erodoto e Tucidide. Su questo, per tentare una prima risposta a un simile argomento, perdonatemi se scivolo nel personale: ero poco più di un ragazzo quando in Spagna cominciai a distinguere tra ta’rihk e akhbar, le due forme classiche arabe di scrittura storica. E negli anni successivi non so quanto tempo ho trascorso traducendo Tabari, al-Mas’udi, Ibn Khaldun, tutti autori musulmani che si erano sentiti in dovere di scrivere enormi libri di storia. Poi incontrai gli storici cinesi di duemila anni fa, che potevo leggere solo in traduzione ma che erano a dir poco affascinanti: Sima Qian, Ban Gu e altri. Potrei continuare, ma la domanda più sottile è se un simile elenco sia un argomento sufficiente. Qualche collega particolarmente colto – e polemico – potrebbe oppormi il fatto che gli antichi autori cinesi siano stati più portati a scrivere eventi in successione cronologica e basta, mentre molti autori arabi classici sono stati spesso condizionati dal peso della religione. E lo stesso collega potrebbe aggiungere che tanto in Tucidide quanto in Erodoto emerge invece l’importanza della testimonianza oculare e della pretesa di verità: basi più solide insomma per i futuri luminosi della storia. E io, con qualche distinguo, potrei pure essere d’accordo.

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Quindi potremmo smetterla qua, se la domanda vera però non fosse un’altra: quanto è davvero rilevante una simile discussione? Per quale motivo dobbiamo stabilire una scala di valori? Posso anche ammettere (con parecchie difficoltà) che il metodo storico critico, a cui devo buona parte di quello che so, abbia come trisavolo più diretto Tucidide, ma questo non fa di me una persona culturalmente superiore. Il confronto, giusto per citare di nuovo Bloch, non è un modo per giudicare, ma per illuminare. Quindi perché gettarsi in questa assurda mischia culturale?

La risposta, temo, sta tutta nella prima parola: Occidente. Guardiamo al modo di leggere il passato per dirci chi siamo: «solo l’Occidente conosce la storia» afferma la commissione del Ministero dell’istruzione e del merito. Ma qui arriva la domanda che conta per davvero: e cosa sarebbe l’Occidente? Chi saremmo noi? Non ho mai invidiato le persone senza dubbi. E loro non ne hanno: noi, ci dicono, siamo quell’«Occidente cristiano e laico» dove la storia diviene «lo specchio dei progressi dello spirito umano» per citare Condorcet e l’illuminismo tutto.

E qui arriviamo al punto forse più debole di tutto questo castello di affermazioni un po’ tronfie: ammesso che sia facile dire oggi cosa sia l’Occidente, siamo proprio sicuri che questa strana cosa geografico-storica esista da sempre?

Lasciamo perdere gli inizi, visto che per millenni “occidente” è stata solo una direzione geografica. E lasciamo perdere i secoli delle prime imprese atlantiche, dove la parola fece la sua apparizione per indicare uno spazio pensabile (e conquistabile). La storia dell’idea di Occidente è storia di imperi e di conquista. I primi furono Spagnoli e Portoghesi, che dividendosi il mondo separarono un occidente da un oriente. Poi vennero gli olandesi e poi infine gli inglesi. E non è un caso che proprio nell’impero inglese l’idea di Occidente si affinò così tanto. Perché è sempre un problema di relazione: l’occidente come lo intendiamo oggi cominciò a esistere perché esisteva anche un oriente. E furono i grandi imperi coloniali inglesi e francesi che inventarono l’Oriente così come ancora oggi lo sogniamo o lo temiamo. Quell’idea di un mondo sottomesso a un potere più forte e sostanzialmente uguale in tutta la sua estensione. Un Oriente che dai Dardanelli sino al Sud Est asiatico sia fatto delle stesse cose: indolenza, propensione alla tirannide, lussuria e magari, in senso positivo, anche una certa predisposizione alla saggezza e alla spiritualità. Tutti stereotipi che avevano una lunga storia e che erano già propri degli antichi greci (come certa storia, guarda caso proprio a partire da Erodoto), ma che l’imperialismo ottocentesco rese a dir poco attuali. Non è un caso che fu proprio negli anni Novanta dell’Ottocento, all’interno della diplomazia britannica che nacque quella divisione che oggi diamo per scontata: Vicino, Medio ed Estremo Oriente. Che non ci vuol molto a capire che ha senso solo se si prende come prospettiva quella di un centro che sta a Londra o a Parigi. E non è ovviamente un caso che quel concetto che pensiamo appartenerci da sempre, “civiltà occidentale” sia nato in realtà in inglese, sempre nello stesso ambito, sempre negli stessi anni Novanta: Western Civilisation, con buona pace della commissione Valditara che è convinta di appartenervi da sempre. Poi fu che anche l’impero inglese nel Novecento segnò il passo lasciando buona parte di quell’eredità agli Stati Uniti. E potrebbe stupire meno a questo punto scoprire che la “storia dell’occidente” se la inventarono loro. O meglio fu nel 1919 che alla Columbia University di New York venne fondato un corso didattico denominato per la prima volta Western Civilisation. E fu dopo la Seconda Guerra mondiale, nel 1949, che questo percorso venne definito dal congresso dell’American Historical Association. L’idea era ormai chiara: c’era una civiltà la cui evoluzione andava dai greci ai romani, passando per l’Europa rinascimentale per giungere sino agli Stati Uniti, intesi come apice della libertà e della democrazia.

Quindi per favore basta, o almeno imparate a fare la storia per davvero. Che la storia al suo meglio non è quel triste positivismo di ritorno che dite voi: «La storia come specchio dei progressi dello spirito umano ma al tempo stesso, necessariamente, anche degli ostacoli che ad esso si frappongono». No, la storia al suo meglio è dubbio. Dubbio nei confronti delle fonti che si studiano e dubbio applicato ai facili concetti utilizzati per comprendere il passato.

Ma proprio in nome del dubbio, rimane a questo punto un’ultima domanda: perché tutto questo bisogno di Occidente nella scuola? Perché ora? Perché in questo modo? Basta la presenza di un governo populista a spiegare una simile marcia indietro dopo anni di faticosi tentativi verso una storia plurale e un po’ più globale? Credo di no. Credo anzi che la questione sia molto più drammatica. Qualche tempo fa avevo cominciato un mio libro invitando i lettori a provare a disegnarlo, l’Occidente. Suggerivo allora che si sarebbe potuto cominciare con gli Stati Uniti e l’Unione europea, ma poi avremmo dovuto aggiungere anche il Canada e l’Australia; e a questo punto a pensarci meglio avremmo unito anche il Giappone, la Nuova Zelanda e la Corea del Sud. E questa assenza di geografia sarebbe stata tenuta insieme da cosa? Da una certa idea di libertà e garanzie individuali, liberalismo e democrazia, oltre soprattutto a una chiara economia di mercato. Ecco è passato neanche un anno e questa immagine sta già svanendo. Il mondo si sta ridisegnando sotto i nostri occhi, trascinato da una serie di drammatici conflitti che trasformano priorità e strategie. E in tutto questo uno dei pochi elementi di convergenza tra alcuni dei grandi protagonisti di questi cambiamenti è proprio l’odio nei confronti dell’Occidente. Lo ripetono in modo talvolta sguaiato i russi, che almeno dall’Ottocento vivono un rapporto conflittuale contro il molle occidente europeo, colpevole di minacciare i sani valori ancestrali del loro paese; lo sentono i cinesi, che non hanno mai dimenticato le umiliazioni subite in periodo coloniale; lo gridano nei paesi musulmani ogni volta che una strage di civili insanguina le strade.

E forse, in un misto di indifferenza e ingenuo senso di superiorità, tutto questo potevamo pure sopportarlo. Ma ora anche gli Stati Uniti guardano alla vecchia Europa con un misto di disgusto e incomprensione, obbligandoci dunque all’unica domanda che non avremmo mai voluto farci: noi chi siamo? Così “occidente” diventa una parola improvvisamente necessaria, un modo per aggrapparci a qualcosa di solido, specie se il nuovo ci fa paura, perché non lo capiamo e sentiamo di non appartenergli. E finisce che magari in qualche piazza, qualcuno ritorni ai greci e di lì ricostruisca con orgoglio il proprio canone occidentale, fatto di monumenti bellissimi: Omero, Dante, Leopardi, Shakespeare…

Ma se c’è una cosa che la storia insegna è che i monumenti diventano importanti quando sentiamo che il loro senso comincia a sfuggirci. Parlare di monarchia o di impero è sempre stato più necessario quando simili istituzioni erano al tramonto. E forse con l’Occidente sta capitando la stessa cosa. Certo niente finirà domani e quella parola avrà ancora una lunga storia, ma non è affatto detto che il suo significato continuerà ad essere lo stesso, soprattutto perché già oggi non c’è alcun significato così solido a cui aggrapparsi. Intendiamoci: sono il primo ad essere convinto che studiare le proprie radici a cominciare da quelle cittadine, regionali e nazionali, sia importante. Aiuta a definirsi e a percepire delle coordinate con cui guardare il mondo. Ma questo non vuol dire pensare che tali radici siano le uniche o, peggio, siano in qualche senso superiori ad altre. Vuol dire solo darsi un punto di riferimento per guardare al mondo. Perché non c’è nulla di male nell’essere attraversati da sempre da una storia plurale; non c’è nulla di male nel sapere che gran parte dei nostri risultati migliori, dagli algoritmi, alla bussola sino al divano, tanto per dire, ci è stato dato grazie alle mescolanze e agli incontri di culture. Non c’è nulla di male nel saperci parte di un mondo più vasto che possiamo studiare solo conoscendone la storia: araba, turca, cinese, indiana, russa… Soprattutto, non vale quasi mai la pena scommettere sui muri; molto meglio scavare alla ricerca di radici grandi: profonde certo, ma capaci di allargarsi sino ad abbracciare il mondo.

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