
Titina Maselli, la pittura riscoperta
La Biennale di Venezia del 1964 è stata una delle più celebri e chiacchierate della sua storia, se non altro per il discusso Leone d’Oro a Robert Rauschenberg che sancì, di fatto, il trionfo delle pratiche new dada e pop. Maurizio Calvesi, in linea con tali ricerche, presentava in quella occasione un gruppo di artisti italiani accomunati dall’interesse per la nuova società post boom economico, dominata dai massmedia e i nuovi paesaggi urbani. A capo di quella tendenza, il critico poneva Titina Maselli (1924-2005), quasi considerandola la “madre” di una nuova Scuola romana, rappresentata dai giovani Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni e Mario Schifano, che riflettevano sull’immagine prelevata dalla fotografia, dal film e dal cartellone pubblicitario. Basterebbe solo questo episodio a sancire l’importanza di un’artista rimasta ai margini della storiografia, nonostante il rilievo del suo percorso autonomo ed estremamente coerente. La bella mostra Titina Maselli che il Casino dei Principi di Villa Torlonia e il MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma dedicano al centenario dell’artista romana (fino al 21 aprile 2025, a cura di Claudio Crescentini, Federica Pirani, Ilaria Schiaffini, Claudia Terenzi e Giulia Tulino), racconta con limpida chiarezza l’intera parabola artistica della pittrice presentandosi al pubblico come la prima ampia retrospettiva romana, restituendone la complessità e mettendo in luce la circolarità tematica che lei stessa definì “ossessiva”.

Passeggiando tra le novanta opere esposte nella mostra, devo ammettere che, rispetto alle più note che precorrono la Pop Art o che rileggono il Futurismo, quelle che più hanno catturato la mia attenzione appartengono al periodo compreso tra il 1948 e il 1955. Sono gli anni che separano la sua prima mostra alla Galleria dell’Obelisco, a soli 24 anni, dal rientro da New York, segnato dall’importante personale alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, un momento cruciale nella sua carriera.
Ciò che mi ha colpito nelle prime opere di Maselli è quella che è a me è parsa come una sorta di impronta baudelairiana, o meglio, benjaminiana, soprattutto nelle nature morte che aprono il percorso espositivo. Se lo scenario è la città notturna – scelta insolita per un soggetto di interni – i veri protagonisti sono scarti e rifiuti, frammenti di una realtà caduta, come quegli stracci che per Walter Benjamin diventano immagini che cristallizzano una condizione storica, politica ed esistenziale. Dal 1947, quando era moglie di Toti Scialoja – che la avvicina a Ensor e Soutine – e reduce da un viaggio rivelatore tra Parigi, Procida e Napoli, Maselli sviluppa una poetica che la porta a dipingere nelle zone periferiche della città alla ricerca di oggetti apparentemente insignificanti come cartacce, bottiglie vuote e pacchetti di sigarette illuminati dai bagliori dei lampioni notturni. Queste tracce di una vita quotidiana ormai dismessa – tipici della Roma del dopoguerra ancora segnata dal trauma – vengono descritti dalla stessa artista in una conversazione con Lea Vergine nel 1984: «Detriti urbani, relitti, scarti, avanzi, scatole stropicciate di sigarette, giornalacci strappati… paesaggi urbani di notte, cieli notturni tagliati dai fili elettrici, masse di alberi dense, sporche, intorno alla stazione». Come con i vecchi telefoni, le macchine da scrivere (derivati dal suo maestro ideale, Fausto Pirandello), o addirittura bistecche, Maselli tenta di catturare i «fantasmi degli oggetti» – per usare le parole di Corrado Alvaro del testo del 1948 che accompagna la sua prima antologica – rivelando l’essenza misteriosa ed effimera di cose che abitano il mondo e ne incarnano contemporaneamente la caducità.


In questa insolita flânerie solitaria, in una città ridotta a un teatro di fantasmi urbani privato di movimento e folla, Maselli volge lo sguardo verso il basso, alla ricerca di ciò che è depositato, talvolta spiaccicato, al suolo. Rimanendo in una prospettiva che guarda a Benjamin e riprendendo le riflessioni di Georges Didi-Huberman sul panneggio caduto della ninfa e sulla sua trasformazione nei panni putridi e informi degli chiffonniers parigini (Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Il Saggiatore, Milano 2004), le piccole cose ritratte da Maselli appaiono quasi come “oggetti caduti” della natura morta tradizionale – uno dei temi cardine della Scuola romana – che sembrano ormai ridotti a meri residui: una sopravvivenza alterata dalla contingenza post-bellica ma che ne conserva intatto il proprio valore di memento mori.
In quest’ottica, la città notturna, svuotata della sua vitalità quotidiana, sembra farsi terreno di visioni, come flash improvvisi che materializzano nel buio oggetti dalla forma incerta. È come se, nel trasferire questa sensazione sulla tavola, l’essenza della cosa emergesse dal fondo bituminoso come una presenza momentanea.
La pennellata, larga e carica di colore, trasforma gli oggetti in elementi pittorici che, nello spazio dell’immagine, entrano in relazione tra loro, sostenuti da un contrasto forte tra il nero, il bianco e qualche accenno di verde o rosso. Forse è per questo che Maselli si sentiva attratta dai pacchetti di Lucky Strike, che, con il loro iconico cerchio rosso bordato di verde, offrivano un’armonia tra la presenza cromatica e quella formale. La sua attenzione non è rivolta alla rappresentazione della cosa in sé, ma al conflitto tra il vedere e il sentire, con una pittura che rifugge il quadro tradizionale e si nutre di una forte carica emotiva, in linea con il disagio di una generazione segnata dalla guerra.
Nell’elaborare una pittura siffatta, Maselli si nutre concretamente dell’adorazione continua e imperitura per Édouard Manet, padre della pittura della vita moderna, citato in maniera costante dalla pittrice quale punto di riferimento sostanziale. Sin da bambina, l’artista romana leggeva avidamente nella biblioteca paterna Histoire d’Édouard Manet et son œuvre di Thèodore Duret, attratta dalle immagini in bianco e nero, e particolarmente dalla riproduzione dell’Olympia, dove le carni bianche della protagonista contrastano nettamente con i neri del contesto (che lei percepiva come «panna montata buttata sull’asfalto nero bagnato», probabilmente la migliore descrizione possibile per i suoi lavori degli anni Quaranta). Sebbene solo in seguito avrebbe compreso che quel forte rapporto tonale, quasi binario, derivava dall’effetto di una visione mediata dalla luce di un flash, quelle riproduzioni, che enfatizzano gli elementi pittorici di Manet, sarebbero rimaste il punto di riferimento fondamentale nel suo linguaggio, anche quando il colore saturo e brillante sarebbe arrivato sulla sua tela. La sua connessione con Manet si rivela nel continuo gioco tra bianco e nero, un contrasto di forme e toni che dilata e appiattisce le forme, come nei celebri dipinti del pittore francese. Maselli riprende questo approccio nella sua pittura, dove la luce schiaccia gli oggetti in primo piano, senza contrasti chiaroscurali, come se fossero illuminati direttamente da un faro. La rielaborazione della poetica di Manet è evidente nella piccola copia del Déjeuner sur l’herbe, inserita tra la documentazione d’archivio per la mostra in cui l’artista mette a punto quel preciso equilibrio formale rielaborato poi nelle sue opere.



Un tale connubio tra forma manettiana, spirito vagamente baudelairiano e interesse per le trame visive create dalle strutture della città moderna, sono, secondo il mio modo di vedere, gli elementi fondamentali che portano Titina Maselli a distaccarsi nettamente sia dal realismo di Guttuso che dal lirismo di Morandi e dal tonalismo della Scuola romana presentandosi come una delle proposte più originali della pittura tra anni Quaranta e Cinquanta. Nell’aspro dibattito tra realismo e astrattismo, essa si colloca in un territorio autonomo, in cui si concentra su elementi formali essenziali – linea, forma, cromatismo ridotto – con un approccio che trascende la descrizione immediata. La sua arte, pur radicata nel reale, distilla quest’ultimo in una sintesi visiva dove l’astrattismo, non del tutto esecrato, diventa quasi uno strumento di lavoro per rileggere il visibile. In un contesto artistico dominato da uomini, la sua voce emerge autonoma e forte grazie alle sue “formule icastiche” che condensano il paesaggio cittadino in immagini visionarie, esaltandone il portato emotivo.

Questo aspetto emerge con evidenza nei notturni degli anni Cinquanta e nel periodo newyorkese (1952-55). Prima dell’incontro con New York, sono le atmosfere notturne di Parigi, con i suoi caffè e luci, a sedurre Maselli. Rispetto alle opere della fine degli anni Quaranta, pur mantenendo un’impronta flâneuse, il suo sguardo dall’asfalto si alza verso i grattacieli. Il confronto tra Rue de Rennes, Parigi 51 (Collezione Cicutto Maccarinelli) e New York 1954 (Collezione Alessandro Pasotti, Fabrizio Padovani) evidenzia la trasformazione formale della sua pittura, pur mantenendo la volontà di isolare gli elementi della città notturna, reticoli di cavi, impalcature e travi d’acciaio problematizzano il confine tra percezione oggettiva e mero intreccio di linee e punti. In New York 1954 o Alberi nella notte, questa tensione arriva a lambire «pericolosamente» l’astrazione, come osservato da Vespignani nel 1955 a proposito delle opere della mostra della pittrice alla Tartaruga. Infatti, Maselli esplora attraverso un close-up estremo il reale, riducendo ai minimi termini la riconoscibilità dell’oggetto, lasciando emergere, effettivamente, la sua fascinazione, mai negata del tutto, per gli astrattisti. La pittura degli anni Cinquanta sembra incarnare una continua tensione tra il desiderio di rimanere ancorata all’oggetto e l’attrazione per l’aniconico. Le sue opere camminano accortamente su questo crinale, ed è straordinario come Maselli riesca a mantenere un perfetto equilibrio tra le due istanze, riuscendo così a proporre una “terza via” che, pur rimanendo fedele alla tradizione della pittura della vita moderna, si rivela potente e personale, più che in altre sperimentazioni del periodo.

Le opere di Maselli, a distanza di quasi ottant’anni, conservano intatta la loro forza espressiva. Con New York, la sua pittura si trasforma, approdando a grandi dimensioni. Il contatto con la metropoli ispira un ritorno alle tensioni futuriste, ma intese attraverso la velocità nello spazio, non per l’idea di progresso. Non è un caso che le opere post-newyorkesi risentano di echi, in particolare, di Balla, come in Palazzo e fili elettrici o Bar a New York entrambi del 1956. Soprattutto sono gli elementi formali isolati della città e trasformati in elementi pittorici a sedurla. Come ricorda Federica Pirani nel saggio in catalogo, Maselli si sente più vicina a un fotografo come Weegee, cronista della New York notturna, violenta, vagabonda, capace di far emergere con le sue immagini fortemente ravvicinate e violentemente illuminate le trame e i pattern delle zone più sordide della metropoli moderna.
Il percorso espositivo prosegue esplorando la trasformazione della pittura di Maselli dopo il soggiorno americano. È noto, infatti, che a New York la pittrice si concentri più sulla città che sull’arte contemporanea. La metropoli, prima immaginata attraverso cinema e riviste, assieme al fratello regista Citto, diventa ora una presenza concreta che si riflette in maniera tangibile nel suo lavoro. Pur restando distante dagli artisti americani, introduce colori saturi e piani cromatici intersecati nelle immagini di grattacieli e camion, raffreddando il linguaggio pittorico in un distacco che la avvicina, per metodo più che per intenti, alla Pop Art e alla sua opposizione alle pratiche informali. Il suo sguardo, ‘gelido’ come quello di una macchina da presa, si traduce in una selezione iconografica che privilegia calciatori, pugili e ciclisti, immagini tratte da riviste e rotocalchi, e reinterpretate su un sottile confine tra alto e basso, tra figurativo e astratto, che la porteranno a lavorare sempre più spesso sul prelievo e sul processo di montaggio e rielaborazione. Da qui nasce il grande dipinto ispirato a una celebre foto di Greta Garbo, tratta da un vecchio numero di Omnibus ed esposto alla Biennale del 1964.


A partire dagli anni Sessanta, la tavolozza delle opere si farà sempre più satura, antinaturalistica, frammentata e, addirittura, caleidoscopica. La coerenza che contraddistingue il lavoro di Maselli in continua evoluzione fino alla fine, in un percorso circolare messo ben in evidenza da Ilaria Schiaffini nel suo saggio in catalogo è basata, in ogni caso, ancora una volta sulla percezione data dalla luce artificiale. La violenza di un faro puntato contro a un camion, un ciclista, un passante o sulla città nel buio della notte, trasfigura il soggetto e stravolge il colore, portando lo sguardo oggettivante dell’artista ad arrestarne l’immagine. Con il passare degli anni, questo elemento luminoso assume un carattere sempre più onirico, fino a sfociare nelle sovrapposizioni di immagini degli anni Settanta, in cui si fondono iconografie ricorrenti (come ciclisti e grattacieli). In questi lavori è lei ad andare in modo dichiarato al pensiero di Walter Benjamin. Maselli stessa afferma, citando il grande filosofo, che quei suoi dipinti sono come «immagini dialettiche»: una compenetrazione di tempi nello stesso spazio visivo, una fusione crepuscolare, il momento di passaggio tra l’ora e il dopo, il qui e il l’altrove, che, a mio avviso, deve la sua origine al mondo del cinema, come se fossero still di dissolvenze incrociate.

Titina Maselli si colloca di diritto nel canone dell’arte italiana del Novecento con un ruolo da protagonista. L’importanza dell’artista romana nei discorsi sull’arte recente è stata colpevolmente marginalizzata negli ultimi decenni, ma da qualche tempo le cose stanno cambiando, come dimostra anche la sua presenza in uno dei volumi più recenti dedicati all’arte del nostro paese degli ultimi 150 anni: Arte italiana. Un percorso in cinquanta opere dal Romanticismo alla video performance, a cura di Alessandro Del Puppo (Carocci editore, Roma 2024, recensito su Doppiozero da Diego Mantoan), in cui Laura Iamurri dedica ampie e significative riflessioni sul grande Camion in una strada (1968), oggi al Museo Novecento di Firenze.
Ancora, pochi anni fa sono stati pubblicati, le trascrizioni dell’Archivio parlante di Enrico Crispolti, in un volume curato da Antonio Petrone (Come un guanto che regge una tazza / Like a Glove Holding a Cup, Quodlibet, Milano 2021) che raccoglie l’incontro di Maselli con la Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte dell’Università di Siena, nel gennaio 1996; e nel 2019, Mostre in mostra. Roma contemporanea dagli anni Cinquanta ai Duemila / 1, rassegna dedicata alle esposizioni che hanno fatto la storia del contemporaneo a Roma, curata da Daniela Lancioni al Palazzo delle Esposizioni, si apriva proprio con la ricostruzione ideale della monografica di Titina Maselli alla Tartaruga, nel 1955.
È in questo contesto critico e storiografico di rivalutazione e ricollocazione critica che si inserisce la doppia mostra romana, accompagnata dall’eccellente catalogo Electa, che raccoglie una quasi completa antologia critica sull’artista (ben curata da Claudia Verdat). I saggi che lo corredano – oltre a quelli citati di Pirani e Schiaffini, gli scritti di Claudia Terenzi, Martina Rossi, Giulia Tulino e Claudio Crescentini – finalmente veri e propri studi scientifici e non semplici scritti occasionali, restituiscono alla storia dell’arte italiana recente una delle sue protagoniste.
TITINA MASELLI
A cura di Claudio Crescentini, Federica Pirani, Ilaria Schiaffini, Claudia Terenzi e Giulia Tulino
Roma, Musei di Villa Torlonia – Casino dei Principi
Roma, Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea Sapienza
12 dicembre 2024 – 21 aprile 2025
In copertina, Titina Maselli, Le Goal, 1971, acrilico su tela, 250x200, Milano, Galleria Tonelli, Ph. Monkeys Video Lab.
