Aby Warburg dalla vita al mito
“La più pericolosa incarnazione dell’assassinio populistico della sfumatura”. A chi si riferiva Aby Warburg in questa irritata annotazione nel suo diario? Al direttore del Deutsches Museum di Monaco che, nel 1927, gli chiedeva di adottare un tono più divulgativo nella mostra che si stava allestendo in quel momento. Uno dei tanti episodi secondari, ma rivelatori del carattere e dell’atteggiamento del protagonista, che leggiamo nel libro di Hans C. Hönes, Un groviglio di sentieri. Vita di Aby Warburg, Johan & Levi, 295 pp.

Come quello appena citato, il libro ci descrive molti altri momenti della vita dello studioso tedesco sin dagli anni degli studi universitari; e come accade con tutte le biografie, sfogliamo le pagine con la curiosità di conoscere da vicino un personaggio celebre, ma anche con il senso di colpa per essersi avvicinati troppo, e aver sfiorato i suoi difetti, e le sue piccolezze, le sue fragilità. Naturalmente non è questo il proposito di Hönes, il cui tentativo invece è di seguire gli intricati itinerari delle ricerche di Warburg, cogliendone le relazioni – a volte palesi, a volte molto meno – con il quadro culturale della Germania del tempo e con la sua personale vicenda umana. Potremmo dire che il biografo cerca di applicare a Warburg il principio che quest’ultimo ha insegnato alla storia dell’arte e alla storia della cultura: la comprensione del singolo oggetto passa attraverso la comparazione con la serie a cui esso appartiene e attraverso l’analisi del contesto in cui esso viene prodotto. In particolare Hönes si propone di leggere il percorso dello studioso di Amburgo “all’interno delle più ampie tendenze organizzative e sociologiche del mondo accademico tedesco” e di “reintegrarlo nei dilemmi metodologici della sua epoca, anziché enfatizzarne la natura solitaria”. La speciale attenzione all’area tedesca e, in generale, la particolare aderenza ai fatti della vita di Warburg sono alcuni degli aspetti che più distinguono questo dal libro di Gombrich (1970), che è a tutti gli effetti una “biografia intellettuale”.
Si parla dunque dei maestri di Warburg, con i quali le relazioni non furono sempre facili; si parla delle divergenze e delle assonanze con i problemi che si ponevano altri studiosi di storia dell’arte della sua generazione. Pressoché coetaneo, anche Heinrich Wölfflin – che pure era diretto verso ben altre strade – si interrogava sul ruolo della psicologia nello sviluppo artistico, tanto nel processo creativo quanto nella sua ricezione. Di certo, sin dagli anni giovanili, emerge con nettezza la contrapposizione di Warburg, come dirà più tardi, rispetto alla "considerazione puramente formale dell'odierna storia dell'arte". L’orientamento di quella che stava proponendosi come disciplina emergente (e che quindi necessitava di un solido statuto) era tutt’altra; Hönes fa notare, ad esempio, che nel 1895 – due anni dopo la dissertazione su Botticelli – Franz Wickhoff pubblicava un codice tardoantico miniato, la Genesi di Vienna e lo inquadrava nella storia dell’arte antica, ponendo di nuovo lo stile al centro assoluto dell’indagine. Si può aggiungere un altro momento chiave: nel 1901 lo studioso austriaco Alois Riegl scriveva Industria artistica tardoromana, un saggio imperniato sul nuovo concetto di “volontà artistica”: grazie ad esso si rivalutavano periodi della storia dell’arte considerati fino ad allora marginali, se non addirittura decadenti, a cominciare dal tardoantico (e si apriva di fatto una strada alla comprensione delle avanguardie contemporanee): uno studioso vicino a Warburg, Erwin Panofsky, prenderà assai sul serio questo filone di studi tanto da discuterlo in un articolo nel 1920 (l’anno in cui si abilitava proprio ad Amburgo).
Sta di fatto che la tesi di Warburg su Botticelli venne accolta con una certa freddezza, ed era gioco facile prendersela con alcuni suoi aspetti, ad esempio con l’importanza che nell’esame della Nascita di Venere o della Primavera veniva attribuita alle chiome e alle vesti sollevate dalle brezze. Si trattava solo in apparenza di dettagli minori, in realtà si affacciava un problema che ritornerà, con forme differenti, lungo tutto il percorso intellettuale di Warburg: l’interferenza tra abiti e figura umana e, ancor di più, il senso del movimento nel quadro del sistema espressivo dell’uomo.
Saranno anni difficili per lo studioso, stretto da una parte dall’impossibilità di trovare un riconoscimento nel mondo accademico tedesco, dall’altra dalla continua dipendenza dalla famiglia, destinata a protrarsi per tutta la vita. Una foto del 1929 mostra Aby assieme ai fratelli, titolari di una banca che aveva da tempo un risalto internazionale (nel 1938 la rivista italiana “La difesa della razza” additava senza tanti giri di parole “Il Triumvirato dei Warburg e la speculazione ebraica sulla guerra mondiale”). Se è giusta l’analisi che Hönes fa del gesto di Aby, sulla destra nella foto, le mani aperte a conca indicano con un po’ di ironia (e molta pena sottintesa), la condizione di dover sempre intonare il “canto dello scroccone”, insomma negoziare denaro per sé e per la “Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg”, la biblioteca da lui fondata ad Amburgo.

A tutto questo vanno aggiunte le grandi incertezze sul proprio profilo di studioso; da qui, il succedersi di successi e fallimenti, di speranze e di delusioni, la consapevolezza di aver intrapreso sentieri difficili e senza risultati pienamente convincenti. Secondo Hönes, il procedere disordinato e contraddittorio, l’andirivieni di progetti iniziati e abbandonati non è tanto l’esito di un dato caratteriale, quanto la conseguenza della difficoltà di individuare una precisa traiettoria da seguire. Come una specie di Ercole al bivio, anche Warburg si trovò, alla fine, davanti a due strade: porsi alla ricerca – in una postura sostanzialmente positivista – di materiali per la costruzione della storia dell’arte (fare – come dice – il “maiale da tartufi” o il “collezionista itinerante di documenti”); oppure, molto più ambiziosamente, tentare di scoprire le leggi profonde che regolano la storia della cultura. Insomma, analizzare casi singoli o elaborare ampi scenari teorici? Lo sgobbone che lavora infreddolito negli archivi (e preso in giro da caricature della moglie Mary Hertz) o lo studioso che – come Linceo nel Faust di Goethe – guarda il mondo, la storia e “lo splendore eterno” dall’alto di una torre elevata?

In realtà Warburg riuscì a coniugare l’una e l’altra prospettiva, come quando, a partire da un disegno di Dürer che raffigura la morte di Orfeo, coniò “il neologismo Pathosformel, probabilmente – scrive Hönes – uno dei termini più in voga, oggi, nell’ambito delle discipline umanistiche, usato (e forse abusato) nei contesti più disparati”. Dunque, da una singola opera lo studioso amburghese estrae un nuovo strumento teorico: le “formule di pathos”, gli schemi gestuali creati dall’antichità classica, poi fatti propri dagli artisti del Rinascimento per la loro capacità di restituire visivamente il trasporto emotivo, l’impeto delle passioni. Saranno queste Pathosformeln a far da impalcatura all’ultimo progetto, Mnemosyne, il progetto di una storia visuale della trasmissione e della ricezione delle immagini antiche verso il medioevo e l’età rinascimentale.
Ma prima ancora c’è l’urgenza degli eventi internazionali a intervenire nell’agenda degli studi dello studioso amburghese. Hönes mette in relazione lo scoppio della guerra mondiale con la decisione di studiare Lutero e la storia della Riforma; ne esce Divinazione antica pagana nei testi e nelle immagini nell’età di Lutero, un saggio che in parte riconsidera i temi astrologici affrontati pochi anni prima negli affreschi di Schifanoia a Ferrara. Secondo Hönes, mettere Lutero al centro della ricerca individuandone lo speciale ruolo storico era un modo per sintonizzarsi con il clima politico e il nazionalismo che caratterizzava la Germania dell’epoca nell’urgenza della guerra.
E infatti, accanto a Lutero, ecco di nuovo la figura di Dürer, visto come l’artista che lotta “per l’emancipazione interiore, intellettuale e religiosa dell’uomo moderno”. Il pittore tedesco assume un ruolo esemplare: già in passato Warburg ne aveva esaltato vita e l’opera come un “manuale di autoeducazione dell’umanità”, rimarcandone cioè la capacità di lavorare prima di tutto su se stesso. Processi di autoidentificazione anche in negativo, come quando Warburg riflette sui faticosi inizi del giovane Winckelmann o sul caotico procedere del professor Teufelsdröckh, l’eroe a rovescio del Sartor Resartus di Thomas Carlyle.

Il saggio di Hönes cerca di dimostrare la tensione introspettiva e riflessiva che innerva tutta l’opera dello studioso amburghese, il “costante metacommento autobiografico”, che si coglierebbe negli scritti e soprattutto nelle sue note. Nel saggio sulla Divinazione antica, Warburg affronta Melencolia I di Dürer e scrive: "Il demone Saturno è reso inoffensivo dall'attività riflessiva della stessa creatura sottomessa alla sua influenza", una frase che contiene più sofferenza di quanto non appaia a prima vista, densa com’è di un’azione minacciosa che viene contrastata e, almeno per il momento, sospesa. Warburg scrive sempre alla presenza di se stesso: ecco infatti un tema che gli è particolarmente caro, la necessità della pausa distanziante, del distacco che può consentire la riflessione; e, insieme, ecco il rischio dell’assoggettamento, il motivo dello scontro tra un vincitore e un vinto che ritornerà in alcune tavole di Mnemosyne, l’Atlante delle immagini, il progetto rimasto interrotto alla morte nel 1929: anch’esso letto da Hönes come ricapitolazione delle ricerche, del percorso metodologico, dell’intera sua traiettoria intellettuale.
“La transizione dalla vita al mito era cominciata”: così si chiude il saggio di Hönes. La sua ipotesi è che i primi fili di questo racconto mitico siano stati tessuti da Warburg stesso, ma una cosa è certa: oggi lo studioso amburghese è certamente avvolto da un’aura mitica (la sterminata bibliografia su di lui lo testimonia abbondantemente). E non per nulla Maurizio Ghelardi ha parlato di bibliografia “spesso agiografica” e di “ricorrenti mitologie”. Altro che mangiare il maestro in salsa piccante, come dovrebbero fare gli allievi diretti (o indiretti) di ogni grande studioso (l’espressione, peraltro non riferita a Warburg, è di Giorgio Pasquali, il primo in Italia a tracciare un suo esaustivo ritratto).
Ma dove c’è un mito, è necessario che ci sia anche un “assassinio della sfumatura”, perché la forza del racconto elide tutte le distinzioni e vola sopra le contraddizioni; il mito non ha bisogno di verifiche, ma richiede di essere celebrato una volta ancora, magari con varianti compatibili. Del resto, l’estrema circospezione con cui si mettono in discussione caposaldi del pensiero di Warburg è la prova indiretta della presa mitica di certe parti della sua opera. Ad esempio, lo statuto teorico delle Pathosformeln è davvero così saldo come farebbe pensare la loro frequentissima adozione negli studi recenti? Eppure è su questa idea che si fonda l’intera struttura di Mnemosyne, mirabile congegno che lo stesso autore smonta e rimonta a più riprese, riversandovi entusiasmo e altrettante esitazioni, così che viene il dubbio che egli stesso ne intravedesse il possibile fallimento. Senza l’intervento finale del suo ideatore, Mnemosyne è molto più che un “circuito elettrico privo di batteria” (Hönes), ma neppure è indenne da una mitizzazione che ora la intende come opera d’arte, ora la riduce a una straordinaria macchina celibe: un grandioso meccanismo perfettamente analizzabile in ogni suo ingranaggio, ma impossibilitato a funzionare.
Non aveva tutti i torti Gertrud Bing, collaboratrice negli ultimi anni, quando nel 1966 introducendo la prima edizione degli scritti di Warburg in Italia scriveva che la sua opera “è diventata così feconda perché era rimasta frammento, con la potenza che ha il frammento di testimoniare dell’esistenza di un edificio più grande e di sfidare l’immaginazione a completarne i particolari”.
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