Speciale
Le navi di Venezia
Spazio per scrivere ce n’era fin troppo, e infatti di scritte – in maiuscolo o in corsivo – ce n’è dappertutto. Ma quelle che ti aspetti non ci sono: non c’è il nome del committente e, soprattutto, non c’è quello dell’esecutore. Insomma, la grande incisione con la veduta di Venezia nell’anno 1500 è anonima. Un’occasione, non certo l’unica, per mettere a confronto la nostra idea di autorialità con quella di altre epoche.
Larga 282 centimetri e alta 134, la grande stampa è una xilografia: le forme vengono incise su matrici in legno (in questo caso addirittura sei), a loro volta rivestite d’inchiostro e impresse su carta. L’artista ha immaginato di volare sulla città e ne ha descritto con un’attenzione impressionante ogni parte, le chiese, i palazzi, i quartieri, i canali, i ponti, qualche cortile. A volte semplici scritte indicano i luoghi, ad esempio IVDECA. Proprio qui nella Giudecca, la veduta è più ravvicinata, e si scorgono bene orti e giardini, siepi e alberi. Nel frattempo, lo sguardo si allontana dalla città, e alle sue spalle si intravvedono Murano, Burano, Torcello, Mazzorbo. In lontananza il profilo delle Alpi, e la scritta SERAVAL, in direzione di Serravalle (Vittorio Veneto), verso il Nord e la Germania.
Un capolavoro come questo è anonimo. A parte la data, tutto quello che sappiamo di questa enorme incisione si trova, per così dire, al suo esterno. È la supplica rivolta al Senato veneziano da Anton Kolb, un mercante di Norimberga molto attivo in città, tanto da avere un magazzino presso il Fondaco dei Tedeschi, il grande palazzo che esiste anche oggi sul Canal Grande, a ridosso del Ponte di Rialto. Kolb chiede alla Repubblica di poter ottenere l’esenzione del dazio per la veduta, e una sorta di copyright per quattro anni. Il mercante aggiunge altri dati, annunciando che venderà l’incisione al prezzo (molto alto) di tre ducati, e precisando che il lavoro era iniziato tre anni prima. Ma anche in questa richiesta ufficiale, nessun cenno all’autore.
Nel Settecento la veduta di Venezia veniva attribuita ad Albrecht Dürer: si sapeva bene che il grande artista tedesco (di Norimberga come Kolb) aveva lavorato a Venezia, e si conoscevano bene le sue doti di incisore. Ma in una lettera del 1758, Francesco Algarotti – uno dei più brillanti intellettuali del tempo – la toglieva a Dürer: un esercizio attributivo finissimo, con la consapevolezza della delicatezza di queste indagini (“una ragione ricavata dal gusto e dalle maniere de’ pittori è troppo sottile”). Algarotti sosteneva che la nitida definizione dei dettagli della veduta non era tipica di Dürer (non è “un secco tedesco, ma piuttosto un secco italiano”), e suggeriva Mantegna a causa di “una tal quale imitazione delle antiche greche statue” (alludeva alle figure di Mercurio e di Nettuno).
Oggi non si pensa né a Dürer, né a Mantegna, ma a Jacopo de’ Barbari (c. 1450-c. 1516), un artista che conosciamo meno di quanto vorremmo, anche perché poco tempo dopo l’esecuzione della veduta si recò in Germania, dove viene chiamato pure col nome di Jacob Walch (anche oggi Walsch viene usato in aree di lingua tedesca per indicare, con una sfumatura negativa, gli Italiani). Lui e Dürer si erano incontrati forse nel 1494-1495, mentre il pittore tedesco era a Venezia; Jacopo gli aveva dato diverse indicazioni sulla teoria delle proporzioni del corpo umano, ma Dürer non lo stimava molto: in una lettera di pochi anni dopo scrive a un amico che a Venezia c’erano “molti pittori di gran lunga superiori” (sappiamo che apprezzava particolarmente l’ormai vecchio Giovanni Bellini).
Dietro l’attribuzione della veduta a Jacopo de’ Barbari ci sono ragioni stilistiche, ma anche i rapporti ben documentati con Kolb. In più c’è la presenza di quella che, in altre sue incisioni, è la “firma” nascosta, il caducèo (il bastone alato attorno al quale si attorcigliano due serpenti, l’attributo di Hermes-Mercurio). Qui compare infatti in mano al dio, nella parte alta della veduta, appena sopra la scritta in latino VENETIE (Venetiae, Venezia) e la data 1500.
Sempre in latino, la scritta che circonda l’antico dio celebra la fortuna economica della città (“Io, Mercurio, do lustro e fortuna a questo centro commerciale sopra tutti gli altri”). Parla in prima persona anche l'altro dio raffigurato più in basso, in corrispondenza di piazza San Marco, mentre doma un mostro marino (“Io, Nettuno, qui risiedo mentre proteggo le acque col porto”). Il mondo classico si riaffaccia, tutto attorno alla laguna, nei nomi dei venti e nelle loro personificazioni come volti che soffiano. Una glorificazione di Venezia del tutto laica, perché avviene sotto il segno dell’antichità (come ci si poteva aspettare in pieno Rinascimento), ma nell’assenza di qualsiasi riferimento religioso.
È ben comprensibile che siano occorsi tre anni per realizzare l'opera, che necessitò di fasi diverse: prima una sorta di rilievo planimetrico con la misurazione di distanze e angolazioni (cosa non così semplice a Venezia). Poi il disegno dell'alzato dei vari edifici e delle infrastrutture. Infine l'esecuzione, da parte di maestri specializzati, delle matrici in legno di pero.
Nessuna zona della città ha il risalto di piazza San Marco e degli edifici che la bordano, la basilica, il campanile e Palazzo Ducale (a scanso di equivoci c'è pure la scritta PALACIVS). Ma anche questo centro del potere politico e della vita religiosa della città passa in secondo piano rispetto alla straordinaria distesa di navi che l'artista ha disposto nei pressi della Punta della Dogana, davanti all'isola di San Giorgio, verso l'Arsenale. Nessuno dei grandi galeoni sta navigando, sono tutti alla fonda; nessuna vela copre perciò gli alberi, e si scorge bene il fittissimo sistema dei cordami e dei cavi.
Doveva presentarsi davvero così lo specchio di mare davanti alla città, in quegli anni del pieno Rinascimento? Alcune navi hanno gettato l'áncora lontano, altre hanno formato piccoli gruppi, altre ancora sono schierate in una specie di fila. Piccole navi a vela si accostano a certi galeoni per caricare o scaricare merci, e dappertutto scorrono gondole o barche con uno o due vogatori.
Jacopo de' Barbari voleva rendere la fitta quanto (ai nostri occhi) ingarbugliata circolazione di navi in uno dei più importanti porti del Mediterraneo. È per questo che non ha esitato ad aumentare le proporzioni di alcune imbarcazioni: due galeoni accanto al nerboruto Nettuno hanno alberi più alti del campanile di San Giorgio, visibile poco più sotto. Come dire che la marineria e il commercio sono alla base della ricchezza della città.
Mossa dal vento Euro, che gonfia le gote e soffia verso Venezia, una barca a vela lambisce la riva accanto alla chiesa di San Giovanni Battista, e si dirige verso l'isola di San Giorgio. Là sono ferme cinque barche stracariche, non si sa di cosa. Una barca tirata in secco è quasi nascosta da una palizzata. Poco sopra, tre persone stanno per imbarcarsi, attese da due gondole.
Chi spese tre ducati per la grande carta doveva apprezzare anche dettagli come questi e, naturalmente, la veduta nel suo complesso. Dopo tutto si trattava di una città del tutto unica anche agli occhi di chi viveva agli inizi del Cinquecento. Ma c'era qualcosa in più, una vera e propria spettacolarizzazione della cartografia: l'osservazione di un panorama dall'alto è cosa del tutto familiare per le nostre abitudini visive, ma per il pubblico del tempo guardare Venezia come in volo doveva avere un effetto grandioso.
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