Di diluvio in diluvio
Si comincia col Diluvio per eccellenza, il kataklysmós come lo definisce la Bibbia dei Settanta: nella grande tela di Filippo Palizzi (1864) l’arca è lassù, incagliata sulle rocce, e il mondo sembra appartenere tutto alle specie animali. Lo straordinario tour de force pittorico è interamente dedicato a questo singolare bestiario ottocentesco, e non compare alcuna traccia umana, neppure Noè e i figli.
È così che inizia la mostra da poco aperta alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, Attraverso i diluvi/Through the Floods. Opere nell’archivio della raccolta si alternano a oggetti, sculture e dipinti provenienti da istituzioni diverse, italiane ed europee, così che al contemporaneo si accostano epoche anche lontanissime.
La si scriva con la maiuscola, o con la lettera minuscola, poche parole possiedono la corposa pesantezza di “diluvio”, densa com’è di temporalità molteplici e di geografie eterogenee. Ma coi diluvi – anche se può sembrare affermazione paradossale (soprattutto in questi giorni) – non è questione di clima. Infatti, prima ancora di entrare nel racconto che ci è familiare, quello del primo libro della Bibbia, il tema del diluvio attraversa più di una cultura del mondo antico. Questa la ragione che spinse un filologo tedesco, Hermann Usener, a scrivere le Storie dei diluvi (Die Sintfluthsagen, 1899) e a scoprire che nell’antichità diversi popoli avevano narrato un grandioso evento catastrofico innestandolo nella loro tradizione religiosa e nelle rispettive cosmogonie: la terra sommersa dalle acque diventa così una “immagine mitica” al cui interno compaiono alcuni motivi ricorrenti (l’eroico protagonista che riesce a sopravvivere rifugiandosi sulla cima di una montagna, oppure la nave che assume un ruolo sacrale).
Catastrofi in senso letterale, cioè rivolgimenti improvvisi, bruschi cambiamenti che impongono nuovi inizi: in Grecia è Deucalione che con la moglie Pirra reagisce alla collera di Zeus e al successivo diluvio salendo sull’imbarcazione che arriverà fin sul monte Parnaso (l’Etna per alcuni mitografi). Dopo la tragedia, ecco la palingenesi. Finita la rovina, infatti, ai due eroi spetta far nascere una nuova stirpe di esseri umani: le pietre che Deucalione si getta alle spalle divengono uomini, donne quelle scagliate da Pirra.
Ma riecco il diluvio biblico nella terza sala di Attraverso i diluvi, e di nuovo le coppie di animali nel momento dell’entrata nell’arca. Il grande quadro di Andy Cross, per così dire, è una cover del dipinto di Jacopo Bassano al Prado: l’enorme riserva della storia dell’arte occidentale continua a esercitare il suo fascino sugli artisti contemporanei. Ma non è affatto detto che la parafrasi si traduca in imitazione: la finitezza del dipinto rinascimentale viene sostituita da tratti abbozzati, virati al violaceo; intanto, un Noè africano munito di bastone da pastore ci interpella guardandoci, mentre spinge gli animali verso un’arca-astronave.
È una scelta coerente con il Diluvio, o meglio col suo lascito culturale, l’inserimento della serie Ariel di Federico Tosi; una delle sculture è sorprendentemente simile alle glossopetrae (cioè pietre simili a lingue) descritte nel De corporibus marinis lapidescentibus (1759) di Agostino Scilla. Il fatto è che la certezza di un Diluvio guidò per secoli le indagini degli studiosi della natura e della geologia: se si era verificato un evento di questa portata doveva essere possibile individuarne le tracce concrete. Nel primo Settecento uno scienziato svizzero credette addirittura di aver scoperto lo scheletro di un uomo proveniente da quell’abisso di passato, un testimone dell’inondazione voluta da Dio. In modo più ordinario, dal medioevo in poi tutte le scoperte casuali che portavano alla luce forme naturali inusitate e inspiegabili venivano riferite a un periodo “antidiluviano”; una dottissima fantasia credette allora di riconoscervi creature smisurate (i Giganti), dragoni e mostri vari poi cancellati dai diluvi. In questo modo venivano interpretati i resti fossili di animali, e ci volle tempo perché le glossopetrae (che per Plinio il Vecchio cadevano dal cielo nelle notti di eclissi lunare) fossero riconosciute come denti di squali fossilizzati.
Il percorso della mostra non si ferma al diluvio biblico, ma convoca altri tempi, altri spazi e finisce per costruire una sorta di lessico figurato delle catastrofi, delle guerre, della sofferenza e della morte. Verso la fine, quasi si trattasse di una sezione a sé, alcune opere hanno al centro la sorte dei bambini: il Bambino malato di Medardo Rosso (c. 1889), Frau mit totem Kind di Käthe Kollwitz (1903), una stele funeraria della prima età imperiale romana con una laconica iscrizione che ricorda “Publeia Tertia (figlia) di Marco”.
Questa è una delle parti della mostra in cui l’accostamento tra materiali artistici cronologicamente distanti è più suggestivo. Lo scultore del secondo Ottocento, l’artista espressionista e il lapicida romano non si parlano affatto, ma è proprio questa collisione tra divergenti concezioni della forma, questa percezione delle distanze reciproche che indirizza la comprensione dell’una o dell’altra opera.
Il riuso di schemi del passato già osservato nel quadro di Andy Cross affiora ancora in una delle prime tappe del doloroso viaggio sentimentale nel disastro proposto dalla Collezione Maramotti. In Deep water di Joan Banach (1998) la protagonista affoga nel proprio sgomento prima ancora che nel gorgo scuro: esattamente al centro della tavola, il volto della donna – nel suo rivolgersi al cielo socchiudendo leggermente la bocca – sembra preso dalla figura di una rinascimentale Maddalena sotto la Croce; è secondario, ma fino a un certo punto, notare che l’artista ha recuperato la pittura rinascimentale anche sotto l’aspetto tecnico (olio su tavola). Più che a un dramma universale, assistiamo dunque a una sorta di sconvolgimento individuale e interiore, che trova la sua risoluzione nell’elemento acqua.
Viene in mente quanto accadde ad Albrecht Dürer nel 1525. L’anno prima si erano diffuse in Europa cupe profezie su un nuovo diluvio universale, proprio mentre stava facendosi strada la predicazione di Lutero. Una notte di giugno, il pittore sognò che una spaventosa pioggia – “grandi acque dal cielo” – si rovesciava sulla terra; dipinse la visione in un acquerello, accompagnato da parole che descrivevano il terrore provato, ma si chiudevano nella speranza “che il Signore risolva ogni cosa al meglio”.
Del resto, da sempre le angosce dei singoli si incrociano con le inquietudini che segnano le società in tutte le fasi storiche, con maggiore o minor forza. Quella della fine del mondo è una paura ricorrente, anche in culture lontane dalla nostra: nei primi anni Sessanta, a questo argomento aveva dedicato il suo ultimo saggio – un grande cantiere incompiuto – Ernesto De Martino (La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, da qualche anno riproposto in una nuova edizione da Einaudi).
Crollo e ricostruzione, paura del disastro e speranza di una rigenerazione si susseguono. Incontriamo le une e le altre – ormai alla fine della mostra – in Blind Faith and Tunnel Vision di Jules de Balincourt. Qui l’imprecisata catastrofe è come la controfacciata dell’idea di futuro e di progresso: la devastazione ha sfigurato la città, ma con potenza ancora maggiore una sorta di arcobaleno elettronico la sovrasta, promessa ignota e luminosa al tempo stesso.
Il punto di vista scelto nel quadro di Balincourt (ancora un olio su tavola) è quello di chi osserva la scena stando al centro della strada nera, mentre questa va chiudendosi secondo le regole della prospettiva quattrocentesca. In che modo guardiamo i disastri?
A spiegarcelo è un dipinto del primo Settecento giusto nella prima sala di Attraverso i diluvi, una scena di naufragio che appartiene a un genere – piccole e grandi navi sul mare calmo o in tempesta – molto amato già nel secolo precedente. Le vele sono ormai lacerate nonostante alcuni marinai, arrampicati sull’alberatura, stiano cercando di riavvolgerle; è tanto lo sforzo che il pittore ha voluto colorare di rosso (me lo fa notare Luca Santiago Mora) i pur microscopici occhi di un marinaio seduto sul pennone.
Ma in un certo senso la scena più importante è quella sulla riva, il gruppo di persone, che reagendo in modo diverso, assiste all’irrimediabile travaglio del veliero. Proprio come in alcuni versi di Della Natura di Lucrezio, un passo che tutti conoscevano (e discutevano) anche nel Settecento: è dolce, scrive il poeta, guardare da terra la grande fatica di altri, “mentre i venti sconquassano la distesa del vasto mare”; la sofferenza degli altri non ci fa affatto gioire, ma ci consola constatare “da quali affanni si è esenti”. Alla fine, non è questa la nostra reazione ai drammi degli altri, tanto più quando li osserviamo da una posizione sicura o, addirittura, li ammiriamo grazie alla mediazione dell’arte?
In copertina, Scuola veneta, Scena di naufragio (prima metà del XVIII sec.), olio su tavola. Collezione privata. Ph. Dario Lasagni.