L'opera d'arte, tempi e controtempi

22 Ottobre 2024

È capitato a tutti di vedere un’indicazione stradale del genere: “Chiesa dell’XI secolo, 2 km”. Alcuni, attirati dall’idea di poter ammirare un edificio medioevale, avranno fatto una deviazione, per poi accorgersi che la chiesa era del Settecento, o anche più tarda. In situazioni del genere abbiamo pensato a una sbadataggine o a un’ingenuità, ma le cose non sono proprio così. Nel Quattrocento, Anselmo Adorno, pellegrino a Gerusalemme, scrisse che il Tempio di Salomone, il “primo e più sacro Tempio del Signore”, era ormai “quasi interamente distrutto. Non è chiaro se sopravviva qualcosa del tempio originario. A noi basta sapere che questo era il luogo in cui il Tempio fu costruito per la prima volta”. Insomma, forse il pellegrino Adorno avrebbe approvato cartelli stradali come quelli appena citati: la struttura dell’edificio è cambiata, ma la chiesa intesa come presenza di una comunità cristiana è ancora lì. Le parole del pellegrino spiegano bene il principio di sostituzione, uno dei cardini del libro di Alexander Nagel e Christopher S. Wood, Rinascimento anacronico (a cura di Stefano Chiodi, traduzione di Giuseppe Lucchesini, Quodlibet 2024, 570 pp.).

Nella Atene antica, la nave sulla quale, secondo il mito, era partito Teseo venne continuamente riparata (e di fatto via via rimodernata) senza che nessuno avesse dubbi sulla sua identità. Qualcosa del genere accadde anche a Roma per l’altrettanto mitica capanna di Romolo. Il pensiero sostituzionale presuppone che ci sia un inizio o un originale autorevole, e che esso non venga minimamente alterato dalla sequenza di eventuali modificazioni. Tornando all’esempio che ho scelto all’inizio, potremmo dire che la chiesa, troppo recente ai nostri occhi, in realtà si pone “in relazione sostituzionale con tutti i fabbricati precedenti, sotto di essa, a essa vicino e dentro di essa”. 

È quanto successe nel contesto cristiano alle icone, alle sacre immagini di Cristo e della Vergine innanzitutto, tanto più autorevoli proprio in quanto prive di autore: a volte frutto di un evento miracoloso (e perciò chiamate acheropite, non realizzate da mano umana), a volte risalenti addirittura a un presunto dipinto eseguito dall’evangelista Luca. E infatti nella Roma medioevale, sostengono i due studiosi, certe icone assunsero proprio un ruolo analogo a quello della capanna di Romolo: esse “rappresentavano cioè l’idea di un legame materiale con un punto di origine”. 

Nagel e Wood definiscono i contorni di una forma di pensiero, il pensiero sostituzionale appunto, che scombina il nostro modo di pensare le immagini, abituati come siamo a una storia dell’arte che dispone personalità e stili lungo una ben precisa linea del tempo. Nel suo rifarsi a una scaturigine sacra e assoluta, il meccanismo sostitutivo, infatti, salta a piè pari le serie temporali e mette in crisi l’idea di uno svolgimento rettilineo del tempo.

Un manufatto artistico pensato all’interno di questa logica appartiene per forza a un altro territorio rispetto a quello in cui si fa avanti l’autore del manufatto artistico, pretendendo un grande o piccolo riconoscimento per la propria bravura. Nella Grecia antica i grandi artisti – pittori, scultori o architetti che fossero – ebbero la possibilità di inscrivere i loro nomi sulle opere che avevano eseguito; e così fecero artigiani meno celebri come i ceramografi. Anche in età medioevale conosciamo un numero considerevole di sottoscrizioni d’artista. Ma è in età rinascimentale che l’idea di autorialità ebbe una sorprendente fioritura, con la ripresa e l’amplificazione dei modelli offerti dall’antichità classica: divenne un luogo comune, ad esempio, lodare un grande pittore come nuovo Apelle, o nuovo Zeusi o Parrasio. 

Lo spazio guadagnato dall’artista rinascimentale comportò, tra le diverse conseguenze, anche una ridefinizione dell’opera d’arte, adesso legata a una ben precisa personalità e a determinati rapporti di committenza, e ancorata a un ben definito momento storico (non di rado l’anno di esecuzione di un’opera viene esibita dall’artista stesso). Il risalto ora è sulla performance dell’artista (sapremmo immaginare un’autobiografia come quella di Benvenuto Cellini in età medioevale?). Ma questa nuova postura degli artisti dal XV secolo in poi – spiegano Nagel e Wood – non spodesta affatto il pensiero sostituzionale e, anzi, i due modelli convivono in una dialettica che complica e arricchisce il processo artistico e la vita delle immagini.

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Specie nella prima parte del libro, lo sforzo teorico si alterna con un’analisi accuratissima delle singole opere: a questo scopo i due studiosi si valgono delle acquisizioni degli studi recenti, ma spesso li abbandonano per seguire piste ben diverse. Un esempio tra i tanti è il modo in cui si affronta la Scuola di Atene di Raffaello: la grandiosa scena viene letta nel segno della trasmissione del sapere attraverso l’oralità o la scrittura. Il pittore, secondo Nagel e Wood, racconta questo passaggio cruciale e la vittoria della conoscenza legata ai libri e alla stampa ma, con un tratto ironico, presenta un’affollata e un po’ chiassosa congrega di filosofi che conversano e discutono.

Sono dunque in gioco due modi di creazione delle immagini (ma anche di progettazione architettonica) e l’interpretazione del tempo che ciascuno di essi si porta dietro. Un dipinto capace di esemplificare queste due modalità (e la loro possibile relazione) è un ritratto maschile di Botticelli.

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Mentre ci guarda appoggiandosi a un davanzale, il ragazzo stringe con entrambe le mani l’icona, forse trecentesca, di un santo. In passato l’evidenza del contrasto tra le due parti aveva del tutto disorientato gli studiosi e si era anche pensato a una ridipintura molto più tarda; nella prospettiva dei due studiosi, invece, i due piani possono convivere, poiché nel quadro si confrontano due diverse modalità di creazione dell’immagine (quella sostituzionale e quella performativa) e si addensano due diverse temporalità a esse legate.

La casistica presa in esame in Rinascimento anacronico è sorprendentemente vasta e varia. La pala dipinta per il duomo di Parma da Cima da Conegliano (circa 1507) presenta un gruppo di santi attorno alla Madonna col Bambino; alle loro spalle l’abside di una chiesa dalle linee moderne ospita un mosaico duecentesco di ascendenza bizantina. Ecco diverse temporalità che si incrociano: santi vissuti in epoche diverse conversano con la Vergine in un istante che sembra coincidere con quello dello spettatore, mentre dietro di loro il finto mosaico fa entrare in scena una fase artistica ben più lontana.

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Ecco il centro attorno a cui ruotano le riflessioni del libro: l’addensarsi di tempi diversi all’interno di una stessa opera d’arte: “quando ripete, quando esita, quando ricorda, ma anche quando progetta un futuro o un ideale, l’opera d’arte è «anacronica»”. È da questa angolazione che si riesce a cogliere, scrivono i due studiosi, la “struttura profonda” dei momenti forti dell’iconografia cristiana: nelle scene di Crocifissione, ad esempio, si cela un “viluppo temporale” che lega l’evento originario, la sua raffigurazione e l’implicito appello al futuro (cioè al presente dello spettatore).

In questa prospettiva di studio si riconosce il lascito di Warburg, la scossa che lo studioso tedesco diede agli studi di storia dell’arte: il tempo degli antichi che si incuneava in quello dei moderni, la gestualità radicata nei millenni che ridiventava all’improvviso contemporanea. In questo senso sono tanto più importanti i dubbi attorno a uno dei suoi concetti chiave, le “formule di pathos”, in passi come questo: “dobbiamo interpretare la forza generatrice dell’abbecedario figurativo di Michelangelo [il cartone per la Battaglia di Cascina] come l’ininterrotta trasmissione di Pathosformeln, o semplicemente come uno sterile esercizio di citazione artistica, sulla strada per l’accademismo?”.

Nagel e Wood dichiarano il loro debito anche nei confronti di altre direzioni di ricerca, in particolare gli studi di Richard Krautheimer sull’architettura e di Hans Belting sull’iconografia cristiana in Oriente [vedi su Doppiozero]. Ma i due studiosi si inoltrano anche in ambiti inattesi (perlomeno in un libro che ha al centro il Rinascimento) come quello della moda, ricavandone frutti altrettanto inaspettati. L’argomento degli abiti entra nel discorso quando l’arcivescovo di Tessalonica, siamo quindi in area bizantina, se la prende con le eccessive novità – a suo giudizio – della pittura occidentale degli inizi del xv secolo. Per l’arcivescovo era inaccettabile che “invece degli abiti e dei capelli delle immagini” (cioè della tradizione iconografica bizantina), i pittori occidentali attribuissero alle figure sacre “capelli e abiti umani”. Insomma, nell’immagine sacra non dovevano entrare elementi realistici; come notano i due autori, è interessante che “proprio sui segnali temporali della moda” si sia esercitata “la prima forma di analisi stilistica e di critica storica”. E infatti, in un percorso inverso, Vespasiano da Bisticci osserva i prelati bizantini presenti al Concilio di Firenze e Ferrara (1438-39) e nota che in Oriente “in anni mille cinquecento o più, non hanno mai mutato abito”. La moda ci insegna a riflettere sullo stile e sulle sue connessioni (o disgiunzioni) storiche; in questo senso essa ha tutti i diritti per entrare nella discussione sul Rinascimento impostata da Nagel e Wood: la moda infatti “confonde le epoche, e, quando raggiunge il passato, vi trova i deformi risultati di precedenti collisioni anacroniche. Smontando e rimontando il presente, la moda si rende suscettibile al revival: ogni momento della moda è un’anacronica bomba a tempo che dal passato aspetta di esplodere nel presente”.

Permettendo l’entrata in scena di argomenti e temi che a prima vista sembrerebbero estranei – la moda appunto, gli spolia, le reliquie, le icone orientali – il libro finisce per ridisegnare l’idea di Rinascimento. Ma non solo. La forza di Rinascimento anacronico sta nel prendere di petto temi come originale-replica, autentico-falso, stile, arcaismo, imitazione, citazione. A ragione Stefano Chiodi, nella sua postfazione (Controtempi) osserva: “Rilanciata di opera in opera, una domanda torna incessantemente in questo libro: cosa fa l’arte? L’approccio storicista pretende che l’opera rimanga imprigionata all’interno dei suoi circuiti simbolici originari ma così facendo non riesce a comprendere come essa funzionasse nella sua epoca e come ciò accadesse precisamente grazie alla sua capacità di complicare il tempo, riattivando predecessori prestigiosi, connettendo eventi, fabbricando memorie”.

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