Leonor Fini mutaforma

14 Aprile 2025

Bizzarra e imprevedibile lei, misterioso e sulfureo lui: era impossibile che Leonor Fini non entrasse nell’orizzonte di Tommaso Landolfi. Perché il mondo pittorico della “furia italiana”, come la chiamava Max Ernst, era fatto di vertigine, di rituali negromantici dimenticati, galleggiava tra la realtà e una fantasia popolata di esseri chimerici. Trasformava la vita in un palcoscenico sul quale ognuno può recitare se stesso in modi diversi.

Leonor e Tommaso si erano incontrati a Roma negli anni Quaranta. Li aveva messi in contatto un amico triestino. Il più geniale, e meno appariscente, “bracco da libri” dell’editoria italiana: Bobi Bazlen. Che, pur restando nell’ombra, avrebbe lasciato un’impronta indelebile sulla cultura italiana facendole scoprire Robert Musil, Italo Svevo, Franz Kafka.

Lei, Lolò come la chiamavano in famiglia, aveva dedicato a Tommaso un bel ritratto. Lui, più tardi, l’avrebbe evocata in uno dei suoi racconti: La moglie di Gogol’, nella raccolta Ombre del 1954, in cui immaginava che l’autore delle Anime morte avesse preso in moglie una bambola di gomma. Ricordando, forse, la folle storia del pittore Oscar Kokoschka, che si era fatto costruire una replica sintetica dell’amata Alma Schindler, quando la vedova Mahler gli si era negata.

Qualche anno più tardi, nel 1968, Landolfi avrebbe sintetizzato con mirabile felicità nello Schiaffo, pubblicato nella raccolta di prose Un paniere pieno di chiocciole, il mondo di Leonor Fini: “Una sera la pittrice stava dando gli ultimi tocchi al proprio eccentrico abbigliamento (si recava a una festa che era facile prevedere più del solito folleggiante) e tra l’altro si stava provando certa gran maschera destinata a trasformare l’intero suo capo in un testone di gatto con orecchi ritti e baffi d’argento”.

In poche righe, lo scrittore di Pico Farnese, che ha scritto gioielli linguistici e narrativi come Racconto d’autunno, Le labrene, Il mar delle blatte, aveva colto l’arcana essenza di Leonor Fini. Visto che la pittrice stessa non stentava ad ammettere: “Travestirsi, indossare dei costumi, è la magia che mi permette di fondermi con altre dimensioni, specie e mondi”.

Adesso è possibile rimettere in fila i mondi di Leonor Fini e scoprire quanto della sua creatività, ma anche della vita di tutti i giorni, corrisponde ancora alle parole di Jean Cocteau: “Tutto il soprannaturale è per lei naturale”. Perché una lunga traversata dell’universo finiano la propone una mostra di grande fascino. Si intitola Io Leonor Fini, è curata da Tere Arcq e Carlos Martín, resterà aperta fino al 22 giugno nelle sale di Palazzo Reale a Milano.

Il titolo della mostra riprende una frase di Leonor Fini, che amava affermare: “Sono una pittrice. Quando mi chiedono come faccia, rispondo: io sono”. Per raccontare un’artista così multiforme, capace di esplorare sempre nuovi territori dell’immaginazione, i curatori hanno ideato un percorso espositivo che allinea nelle sale del Palazzo Reale oltre cento opere tra quadri, disegni, fotografie, costumi per il teatro, libri d’artista, mobili e documenti. Non poteva mancare il suo armadio antropomorfo e un oggetto come la bottiglia disegnata per il profumo di Elsa Schiaparelli, Shocking Pink, che si rifaceva alle forme prorompenti dell’attrice americana Mae West.

Per affermare davvero “io sono”, Leonor Fini ha dovuto confrontarsi con l’essenza stessa del suo abitare un corpo di donna. Nella vita e nell’arte ha fatto della carnalità uno sconfinamento continuo verso l’immaginario. Ha smesso di essere se stessa per lasciarsi possedere dagli spiriti delle amazzoni e delle maghe, delle guerriere e delle streghe. Ha condiviso incantesimi con fate, dee, sfingi, chimere e alchimiste. Senza dimenticare di ibridarsi con gli amati gatti, compagni di tutta la vita: “Che siano così aperti e accessibili, affettuosi e teneri – diceva –, è ancora più sorprendente se si considera la loro capacità di essere crudeli e feroci”.

Nata “per caso” a Buenos Aires nel 1907, segno zodiacale Leone, Eleonora Elena Maria Fini ha dovuto imparare in fretta a gestire le stranezze della vita. Visto che 18 mesi dopo la sua venuta al mondo, mamma Malvina Braun era già scappata a Trieste con la scusa di presentare la bambina alla propria famiglia. Lì, la piccola Lolò sarebbe vissuta nel terrore di essere rapita dal padre Herminio. Che ci provò per ben due volte a portarla con sé oltre oceano. Tanto da scatenare, in città, lo sdegno dei giornalisti della “Coda del diavolo”. E convincere Malvina a cambiarle il nome in Leonora, a farla girare per strada travestita da maschio.

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Mostra "Io sono LEONOR FINI" exhibition views, Palazzo Reale 2025. Courtesy Mondo Mostre.

Leonor Fini ha iniziato subito a confrontarsi con il fascino perturbante del corpo, con il richiamo oscuro della morte e con l’irresistibile voglia di reinventarsi travestendosi. A 10 anni frequentava l’obitorio, con la complicità di un custode, perché voleva imparare a disegnare il corpo umano, ma soprattutto perché la affascinavano i morti: “Lì ho visto il primo uomo nudo – raccontava –. Era molto bello, alto e magro. Come tutti gli altri cadaveri portava un’etichetta al piede: c’era scritto Mario La Vita”.

Daisy Nathan, sua compagna di classe, le aveva proposto di presentarle il fratello: Arturo, pittore delle inquiete visioni metafisiche, che sarebbe morto nel 1944 nel lager di Biberach. Nonostante la notevole differenza d’età, 16 anni, tra loro si era creata una grande sintonia.

“Arrivava a casa mia verso le sette del mattino – avrebbe raccontato Leonor Fini molti anni più tardi –, come portato dal vento. Alla nonna, che andava ad aprire la porta, non diceva niente. E lei, poi, brontolava: ‘Cossa el viene a far a ‘ste ore’. Passava di filato in camera mia, si sedeva sul letto e iniziava a parlare. Era un uomo adorabile, molto serio e, credo, anche casto: scherzava poco, ma si emozionava a discutere di libri. La gaia scienza di Friedrich Nietzsche l’ho scoperta grazie a lui. Mi spiegava un sacco di cose e io lo trovavo di gran lunga più affascinante di tanti giovincelli che conoscevo a quell’epoca, capaci di riempirti la testa solo di cose futili”.

Tra i tanti giovincelli che ronzavano attorno a Lolò c’era Gillo Dorfles. Un giorno, un’amica di famiglia del futuro critico d’arte e pittore triestino, aveva fermato sua mamma per strada suggerendole di stare attenta a una ragazza che girava a braccetto con il figlio. Visto che, in città, godeva di una pessima fama. “La ragazzaccia in questione ero io”, commentava Leonor Fini.

Del resto, lei è sempre stata così: libera, ribelle, controcorrente. Dopo il periodo milanese, e la grande sintonia con Achille Funi, e quello romano, dove si era fatta apprezzare come ritrattista, Leonor Fini ha conquistato in fretta la Parigi artistica e culturale. Basterà ricordare che a pochi mesi dal suo trasferimento in Francia, nel 1931, grazie all’amicizia con Filippo de Pisis era entrata in contatto con Christian Dior, che le organizzerà la prima mostra in una piccola galleria di rue de la Boétie 34; con il gran sacerdote del Surrealismo André Breton; con Max Ernst, Jean Cocteau e Pablo Picasso, che tenterà invano di sedurla. E poi, Salvador Dalì, Dora Maar, Leonora Carrington, lo scrittore del Diario del ladro Jean Genet. Sarà quest’ultimo a sottolineare l’irresistibile passione di Leonor per il travestimento, per i cambi di identità. Esortandola a svelarsi, finalmente.

Ma gettare la maschera, per Leonor Fini, significava ammettere che sotto ce n’erano molte altre. Lo testimoniano gran parte dei quadri esposti a Milano. Dove, tela dopo tela, agli occhi di chi guarda appare una sfilata di cangianti archetipi. Così dall’Autoritratto con civetta al Confine del mondo, che ricorda la lezione di Nathan, dalla Donna seduta su un uomo nudo all’Autoritratto con grande colletto fino alle Sfingi, alle Streghe, alle fascinose Bagnanti, al famosissimo Autoritratto con cappello rosso, è tutto un cercare di ricomporre il mosaico di un’identità liquida. Pronta a contenere in sé tutto quello che la fantasia le permette di immaginare.

Mutaforma era anche il rapporto di Leonor Fini con la sessualità, nel rapporto con compagni e amanti. Eloquenti sono l’Autoritratto con Kot e Sergio, che fissa sulla tela il suo concetto di famiglia allargata agli amici, ai gatti. Ma anche all’intrecciarsi di amori con Sergio Galjardo e alla convivenza con il console del Principato di Monaco Stanislao Lepri e l’intellettuale polacco Konstantin Jelenski, che durerà per ben 37 anni. Oppure il bellissimo autoritratto con Nico Papatakis intitolato L’alcova. O, ancora, i nudi che immortalano lo stesso Nico e Frederico Fresco.

“In fondo – spiegava l’artista – io sono a favore di un mondo di sessi non differenziati, o poco differenziati”. Infatti, per tutta la sua vita, che si è conclusa a Parigi il 18 gennaio del 1996, Leonor Fini ha continuato a negare l’atavico equilibrio di forza e di potere che governa i rapporti tra maschi e femmine. E, allora, non deve stupire se in alcuni suoi quadri il richiamo della seduzione tra uomo e uomo, e tra donna e donna, è dipinto senza nessun tipo di censura. Lo si può notare in Stryges Amaouri, dove l’attrazione diventa negromantico rituale, o in Tre ragazze nell’acqua e Narciso impareggiabile.

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Mostra "Io sono LEONOR FINI" exhibition views, Palazzo Reale 2025. Courtesy Mondo Mostre.

Tutta l’opera di Leonor Fini è attraversata da una forte attrazione per ciò che sfonda il rigido perimetro della realtà. Racconta l’inquietudine, intercetta la libertà di esplorare l’inconoscibile, si avventura nei territori della stranezza. Scriveva Jean Genet nella sua Lettre á Leonor Fini del 1950: “La scelta dei colori, l’inquietudine delle scene, l’incontro di una conchiglia con uno specchio, le pieghe dei tendaggi, le tue maschere, tutto nella tua opera testimonia un intimo teatro macabro. I tuoi dipinti sono cosparsi di cenere. Come un lichene su un tronco d’albero caduto, una lunga capigliatura su uno scheletro, continua a crescere. Tutto odora di morte, dalla noia altera di una sopravvivenza o di un’età incalcolabile”.

Per troppi anni l’arte di Leonor Fini, che amava molto scrivere (Colui che lapida il re, L’Oneiropompe, il gatto mercante di sogni, Mourmour, sono i titoli dei suoi romanzi), è rimasta confinata in una sorta di penombra. Forse perché tanta critica faceva fatica a capire il suo surrealismo anarchico, che affondava le radici nella cultura mitteleuropea di Trieste. O forse perché vedeva nel fascino per il bizzarro una rivisitazione snob di vecchie suggestioni decadenti.

La mostra di Milano, che può contare su un allestimento ideato sull’alternarsi, per ogni sezione, di cangianti gradazioni cromatiche, dimostra quanto riduttivo sia stato rinchiudere l’arte di Leonor Fini dentro rigide definizioni. Se, infatti, oggi appare decisamente claustrofobica l’etichetta di “pittrice gotica” che le regalò Mario Praz, altrettanto riduttiva sembra la definizione di André Chastel che la elevava ad ambasciatrice di una “resurrezione del manierismo”.

A noi osservatori del terzo millennio, Leonor Fini appare come la più lucida e dirompente interprete di arcane metafore. Infatti, nei suoi quadri, rituali antichissimi si incrociano a un femminismo d’avanguardia, a citazioni autobiografiche, all’arte antica e alla letteratura, mentre ardite metamorfosi strizzano l’occhio a inquieti sguardi sul mistero dei corpi.

Forse, per inquadrare ancora meglio quest’artista che non si è mai piegata alle logiche delle correnti e dei mercanti (“Odio i club, ho orrore degli onori. Sono una pessimista nera”, scriveva nel 1968 all’amico triestino Nino Pontini), bisogna andare a ritroso nel tempo. Ritornare alla Trieste del 1932.

A bordo di una Buick del suo amore di allora, lo scrittore André Pieyre de Mandriargues, Lolò partì da Parigi alla volta dell’Italia. Con loro c’era il giovane Henri Cartier Bresson, che si portava appresso una Leica appena acquistata. Allo stabilimento balneare Savoia sarà lui a trasformare Leonor e André in modelli per un’ardita sequenza di immagini erotiche. In cui il corpo di lei, fascinoso e fantasmatico, si vede nitidamente. Però il viso, la testa, sono sempre fuori dall’inquadratura.

In una sola immagine Leonor accetta di svelarsi. Ma anche in quello scatto di Cartier Bresson, è come se l’artista da giovane indossasse una maschera, che le permette di recitare la parte della belle jeune femme annoiata in vacanza. Alle sue spalle, André e il perfetto alter ego ambiguo, proiettato lì da un lontano tempo perduto nel tempo.

Anche su quella spiaggia, si ripropone il gioco che Leonor Fini preferiva. L’oscillare tra realtà e riflesso, tra uomo e donna, tra mito e biografia. Nel gran teatro della calda vita.

Io sono Leonor Fini, a cura du Tere Arcq e Carlos Martín,
Palazzo Reale, Milano
Fino al 22 giugno, da martedì a domenica 10-19.30; giovedì chiusura alle 22.30.
Accompagna la mostra un ricchissimo catalogo pubblicato da Moebius (pagg. 256, euro 39).

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