Linda Fregni Nagler e Adolfo Farsari a Yokohama
Avvertenza al lettore: se gradita, questo articolo può avere una colonna sonora: Tokyo no Hanauri Musume, di Kobayashi Akira
“Carissima Sorella […] Io lo sapeva che tu e qualunque altro fareste le stesse sorprese e ammirazioni che hanno fatte chiunque abbia viste le mie pitture prima di voi. Non c'è nessuno né qui, né in Europa, né in America, né nelle isole dei cannibali che possano colorire fotografie come si fa nel mio stabilimento. Ci sono due o tre Giapponesi fotografi che fanno attentati di imitarmi, ma né le fotografie possono essere comparate alle mie né il dipingere. Non mi riccordo se te l'ho detto che ho sfidato tutto il Giappone a fare 50 fotografie dipinte come le mie o meglio 500 dollari contro niente, e nessuno non si è nemmeno avvicinato.”
Così scriveva da Yokohama nel 1889 l’avventuroso Adolfo Farsari alla sorella Emma, in una delle sue lettere manoscritte, ad oggi inedite, ritrovate in una soffitta e che ho la fortuna di aver trascritto e di custodire.
Dell’intraprendente vicentino emigrato oltreoceano, combattente nella guerra civile americana, sedicente architetto a New York, sergente nell’Asiatic Squadron della marina statunitense, commerciante a Yokohama e infine fotografo a capo di uno studio con più di una trentina di dipendenti, pare aver raccolto la sfida, rimbalzata oltre un continente e due tornanti di secolo, Linda Fregni Nagler, che, in una ultraventennale frequentazione della fotografia giapponese di fine Ottocento, di Farsari e colleghi ha utilizzato e ridipinto le foto.
Parte della sua collezione e del suo lavoro è ora esposta al MAO, il Museo d’Arte Orientale di Torino, nella mostra “Hanauri” (花売り,venditori di fiori), che si inscrive nel progetto di riallestimento della sezione giapponese e resterà aperta fino al 4 maggio. L’esposizione comprende ventisei albumine dell’epoca e sei grandi opere per le quali Linda Fregni Nagler ha fotografato e sviluppato gli originali e poi ha dipinto le stampe ai sali d’argento. Una ricerca in cui, in una linea di ideale eredità, raccoglie, evidenzia e concettualizza varie caratteristiche di quella che è stata definita la scuola di Yokohama.

Con l’espressione Yokohama no shashin (“la fotografia di Yokohama”) si indica l'attività, nei primissimi decenni di quell’arte, di un manipolo di occidentali che a partire dagli anni sessanta dell'Ottocento si stabilirono nella città portuale che, scelta come avamposto e porta occidentale sul Giappone, diventa una palestra nella quale si forma la prima generazione di fotografi giapponesi. Il paese si risvegliava all'occidente dopo secoli di autarchico isolamento (Dawn to the West è appunto il titolo della storia della letteratura di quel periodo del grande pioniere della yamatologia Donald Keene, scomparso nel 2019). Offriva insomma il massimo dell’esotismo, e la città marittima oltre che crocevia di merci diventa l'ultimo grido di un nuovo grand tour. E i suoi protagonisti – “i globe-trotters (trottatori del mondo)”, nelle parole di Farsari, che stabilisce strategicamente il suo studio vicino al Grand Hotel – spesso facoltosissimi, desideravano di quell’esotismo riportare a casa testimonianze e souvenir. Rudyard Kipling nel 1889 nelle sue lettere dal Giappone si rivolge a loro così: “Se doveste comprare anche una sola cosa in Giappone, e vi rovinerete salvo che non siate già poveri, comprate delle fotografie, e le migliori si trovano nello stabilimento di Farsari & Co., la cui reputazione si estende da Saigon fino all’America. Il signor Farsari è un uomo simpatico, eccentrico, e un artista che la sua particolarità se la fa pagare, ma le sue opere valgono il costo. Una fotografia colorata dovrebbe essere un abominio. E normalmente lo è. Ma Farsari sa colorire con perizia e in accordo con le sfumature di luci di questo fantastico paese. Sul ponte della nave ho riso davanti alle sue colline dai versanti rossi e blu. Ma una volta lì ho visto che aveva dipinto il vero. (…) Stava preparando un album di vedute per il mio amico Re d’Italia. Ho visto il libro e ne ho ordinato uno di migliore (…) Seriamente, spendete quanto più potete da Farsari, e lasciate scegliere a lui le immagini dei giapponesi.”
Allora come oggi, il turismo andava a caccia dello spirito originario del luogo, dissipandolo nel momento stesso in cui lo trova (anche se l’isola-Giappone pare avere nel suo dna e nei suoi riti qualche anticorpo che se non altro rende questo processo unico, come fa intravedere qui Antonio Lucci).

Le fotografie che vediamo oggi erano dunque in qualche modo già “vintage”, come implicitamente suggeriscono i titoli di due album molto commercializzati già da Felice Beato: Views of Japan e Native Types (un titolo che ricorda anche il perdurare di una sorta di articolazione della società legata a funzioni e tipologie, che si rispecchia anche nell’amore dei giapponesi per uniformi, divise, travestimenti comunque codificati e codificanti). Si trattava insomma già allora, in una certa misura, di una selezione e riattualizzazione del soggetto, spesso perfezionata in una mise en scène in studio. O che, nel caso delle vedute, si estrinsecava nella scelta di topoi e punti di vista sempre uguali, con il risultato di una variatio data non solo dalla mano del fotografo ma dalla coloritura (Farsari: “La pittura delle mie fotografie non è cosa ch’io possa ruotolare fuori da una macchina a migliaja al giorno. Il processo è alla mano. Non c’è nessun segreto in quello, ma ci vogliono degli artisti a dipingerle, quantunque sieno fotografie.”). Una marca d’autorialità di particolare importanza dato anche che in quello scenario di commerci, arrivi e partenze dalla nuova ed estrema frontiera, terremoti e incendi, gli atelier di Felice Beato, Raimund e Franz von Stillfried, Hermann Andersen e Farsari passarono di mano dall'uno all'altro insieme a tutte le lastre, rendendo le attribuzioni a questo o quel fotografo spesso dubbie o impossibili. Di questa unicità data dalla coloritura testimonia anche la mostra al Mao, con un paio di scatti originali dipinti in maniera diversa.
Linda Fregni Nagler si è inserita in quel solco; dopo aver raccolto fotografie della scuola di Yokohama per vent'anni, ha cominciato a fotografarle, stamparle su carta cotone e ridipingerle con tecniche e pigmenti frutto di una ricerca filologica. Di quella storia si fa non solo epigona ma sensibile continuatrice per più di un aspetto: nelle sue opere sono le coloriture – grandi campiture cromatiche, o mascherature che lasciano intatto solo un riquadro, un lembo dell'immagine – a rendere evidente che siamo davanti a un'opera nuova, come in una specie di palinsesto. Nello stesso tempo lei stessa sembra essere tentata da una dispersione, da un’evaporazione della propria autorialità. Forse così si può spiegare la sua lunga passione per la fotografia che in inglese si definisce “vernacular” (ossia anonima, o comunque con un’autorialità non rivendicata), anche prima o a latere dei progetti giapponesi: nel lavoro esposto alla Biennale di Venezia nel 2013, “The Hidden Mother”, le antiche fotografie collezionate erano di infanti sostenuti da figure adulte più o meno goffamente nascoste (per esempio madri coperte da teli, come fantasmi casalinghi), e in “How To Look at a Camera”, alla Galleria Monica De Cardenas nel 2019, erano di figure di spalle, persone cieche, o delle donne velate peruviane dell’Ottocento, le tapadas limeñas.

La mostra torinese rappresenta per ora l'ultima tappa di questa indagine, e raccoglie fotografie su un solo soggetto, gli hanauri, appunto, che insieme agli altri bōtefuri, venditori ambulanti, animavano le strade vivaci della Yokohama di epoca Meiji – e la cui incarnazione femminile, la hanauri musume, è diventata la protagonista di varie canzoni popolari. La loro variopinta mercanzia però non trovava posto nei cestini e nelle scatole semplici delle coeve fioraie occidentali, con i loro mazzolini di violette, ma in solide e leggere architetture portatili. I bicolli reggevano strutture di bambù, paglia e legno piuttosto complesse, da cui svettavano e si diramavano fiori di ogni tipo in composizioni, e abbastanza sbalorditive: piccoli fuochi d’artificio floreali che esplodono al Mao nella serie di foto originali e nelle sei di grande formato, già in parte esposte nella mostra Hana to yama (fiori e montagne) alla galleria Vistamare e poi negli spazi di Banca Generali a Milano – mostra in parte documentata in Yama no Shashin (fotografie di montagna), Humboldt Books. Sempre dalla raccolta dell’artista provengono quattro diapositive su vetro che si possono osservare all’interno di speciali visori, e che ricordano la mostra di diapositive della Collezione Perino del 2014 al Museo delle Culture di Lugano, dov’è depositata.

A corredo delle fotografie, contestualizzano questo poetico ed elegante commercio tre stampe xilografiche ukiyo-e (le immagini del mondo fluttuante) di epoca Edo in cui già compaiono gli hanauri, e una stampa del pittore Theodore Wores del 1886.
Linda Fregni Nagler, nel suo unirsi a questo avvicendarsi di mondi, e a mani, sguardi e nomi che trascolorano l'uno nell'altro, riesce da qui, centocinquant’anni dopo, a dare corpo al mono no aware, quel senso di struggente impermanenza che è alle radici di tanta estetica tradizionale giapponese, di cui proprio un fiore particolarmente fragile ed effimero, quello di ciliegio, è simbolo e incarnazione.
Nelle stesse sale dell'ala giapponese di Palazzo Mazzonis, a mostrare la centralità del tema floreale nella cultura e iconografia del Sol Levante, sono in mostra tre kimono – due prestati dal Museo d’Arte Orientale di Venezia, e uno dal Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama di Torino (che conserva, tra gli altri, gli oggetti raccolti in oriente dal tenente di vascello conte Ernesto Filipponi di Mombello, che di Farsari in Giappone divenne amico, tanto da farsi ambasciatore della sua ricomparsa in vita presso la famiglia, a Vicenza, che per ventuno anni non ne aveva avuto notizie). Infine, una parete ricoperta di kesa, i preziosi drappi indossati come paramenti dai monaci buddhisti, e tre kakemono (i rotoli da appendere) sempre a tema floreale, e una teca con lacche pregiate con decori di fiori – di lacca erano anche le copertine più preziose degli album dei fotografi di quel periodo (Farsari: “le coperte dell’album che ti ho mandato costano a me 50 franchi, io le vendo pel doppio, e sono buone; ma posso farne, e ne ho fatte di quelle per cui ho fatto pagare 2000 franchi”).
Linda Fregni Nagler, Hanauri, MAO Museo d’arte orientale, Torino, fino al 4 maggio 2026.
Tutte le fotografie presenti nell'articolo sono del Mao.
